da Ragionpolitica.it del 10 marzo 2010
Che il Partito Democratico sia «ammanettato a Di Pietro», come ha affermato qualche giorno fa il presidente del Consiglio, è confermato in pieno dalle sue ultime mosse. Due su tutte: la decisione di seguire l'ex pm nella protesta di piazza contro il decreto interpretativo della legge elettorale varato dal governo venerdì scorso e la scelta di imboccare la strada dell'ostruzionismo parlamentare, con la presentazione di 1700 emendamenti al disegno di legge sul legittimo impedimento - cosa che ha di fatto obbligato l'esecutivo ad apporre la questione di fiducia sul provvedimento al Senato. Cade così definitivamente la maschera «riformista» con la quale Bersani si era presentato al momento del suo insediamento alla guida del Pd, annunciando la chiusura della stagione dell'antiberlusconismo fine a se stesso portato avanti da Dario Franceschini. E, contestualmente, appare con chiarezza il vero volto di un partito che a tutt'oggi non riesce ad avere altra ragione sociale oltre all'avversione preconcetta, rancorosa ed in sostanza pre-politica all'uomo di Arcore.
Stante dunque la completa assenza di serie proposte programmatiche, che ha come prima conseguenza quella di rendere impossibile un confronto costruttivo con la maggioranza sul merito dei provvedimenti, è inevitabile che il Partito Democratico finisca schiacciato nella morsa del leader dell'Idv, che persegue con imperturbabile costanza la sua linea di delegittimazione totale del premier, gridando un giorno sì e l'altro pure al ritorno del fascismo nel nostro paese e denunciando una improbabile reincarnazione del Duce nel corpo del Cavaliere. Come ha osservato Vittorio Macioce su Il Giornale del 9 marzo, oggi «tutta la politica di questa magnifica opposizione si riduce a tre parole: piazza, tribunali e ostruzionismo».
Il problema, per il Pd, è che nella gara a chi è più antiberlusconiano, a chi riesce a intercettare quella fetta di elettorato convinta che il presidente del Consiglio rappresenti l'esatto contrario della democrazia e sia quindi un cancro da estirpare per salvaguardare le regole costituzionali a fondamento della Repubblica, sarà sempre più bravo e più credibile Di Pietro, che almeno ha il merito - se così possiamo chiamarlo - di non mostrarsi ondivago e incerto, agli occhi dell'opinione pubblica, nella caccia al dittatore e ai suoi complici più o meno occulti. Per questo, ad esempio, l'ex pm ha ragione - ovviamente dal suo punto di vista - quando denuncia l'ipocrisia del Partito Democratico nella vicenda della critica al decreto legge elettorale varato dal governo e firmato dal presidente della Repubblica: se di «attentato alla democrazia e alla Costituzione» si tratta - ragiona il leader dell'Idv - è chiaro che pesanti responsabilità per l'accaduto debbono essere attribuite anche al capo dello Stato. Tanto più che egli non soltanto ha dato il suo via libera al provvedimento governativo, ma ha anche spiegato pubblicamente, con una lettera su internet, le ragioni che lo hanno spinto a compiere tale gesto. Stracciandosi le vesti per il decreto ma tenendo fuori dalle polemiche l'inquilino del Colle, il Pd si arrampica sugli specchi e dimostra, infine, di non essere credibile né quando annuncia svolte epocali rispetto al suo atavico antiberlusconismo, né quando prova a battere Di Pietro sul terreno della contestazione radicale del Cavaliere.
Insomma, un vero disastro politico, che oggi il partito di Bersani tenta di nascondere in tutti i modi possibili, anche cavalcando in maniera a dir poco irresponsabile la vicenda della mancata ammissione della lista del Pdl nella provincia di Roma, come se correre in queste condizioni rappresentasse una vittoria della democrazia e garantisse il diritto dei cittadini di scegliere coloro dai quali vogliono essere governati. Come spiegare tale atteggiamento del Partito Democratico? «La speranza, o l'illusione, della classe dirigente del Pd - ha scritto ancora Macioce - è tornare al 1994, chiudere in una parentesi il berlusconismo e ricominciare da capo. È chiaramente una follia umana e politica, ma ha finito per condizionare il Dna della sinistra, la sua cultura, i suoi orizzonti, la sua visione del mondo. Questa è una sinistra che da quasi vent'anni non produce nulla di nuovo ed è impermeabile a tutto». Una sinistra, dunque, che da più di tre lustri è ferma al punto di partenza, priva di vitalità, prigioniera di un vuoto politico ed esistenziale che fa tornare alla mente le parole di Dino Buzzati nel Deserto dei Tartari: «Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme e intorno né una casa né un uomo né un albero, neanche un filo d'erba, tutto così da immemorabile tempo».
Gianteo Bordero
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mercoledì 10 marzo 2010
sabato 6 marzo 2010
IL PD IN UN VICOLO CIECO
da Ragionpolitica.it del 6 marzo 2010
Invece delle «forze armate per fermare il dittatore», come auspicava il solito Antonio Di Pietro, venerdì sera è arrivata la firma del presidente della Repubblica al decreto legge del governo finalizzato a garantire il regolare svolgimento delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo. Così la sinistra, che negli ultimi giorni aveva gridato all'abuso di potere, al golpe strisciante, all'imminente attentato alla democrazia messo in atto dal Cavaliere Nero, si ritrova oggi, per l'ennesima volta, con il proverbiale pugno di mosche in mano, costretta nuovamente a ricorrere alla piazza per mascherare la sua inconsistenza politica e la sua incapacità di confrontarsi seriamente e responsabilmente con le forze di maggioranza.
Il discorso vale in particolar modo per il Partito Democratico di Pier Luigi Bersani, che ha mantenuto un atteggiamento di chiusura preconcetta alle proposte del centrodestra, con la tacita speranza di poter trarre profitto dal caos sorto in seguito alla bocciatura della lista del Pdl nella Provincia di Roma e del listino di Formigoni in Lombardia ed ottenere così un successo a tavolino, in una gara senza competitori, in due Regioni chiave per stabilire vincitori e vinti della consultazione di fine marzo. Ha fatto ancora una volta capolino il solito vizietto post-comunista di gareggiare azzoppando gli avversari o escludendoli dall'agone. L'inebriante odore della conquista del potere fine a se stessa ha avuto la meglio sulle voci sagge e ragionevoli (su tutte quella di Massimo Cacciari) che consigliavano alla dirigenza del Pd di considerare gli effetti di un voto di fatto falsato dalla mancata partecipazione del partito di maggioranza relativa.
Così Bersani si è infilato in un vicolo cieco. Messosi al traino di Di Pietro nei giorni precedenti il varo del decreto legge, oggi si ritrova nella sgradevole situazione di dover da un lato prendere le distanze dal suo alleato di ferro quando arriva a chiedere addirittura l'impeachment per Giorgio Napolitano - definito dall'ex pm «correo, non arbitro imparziale» - e dall'altro lato di garantire comunque l'adesione del Pd alla manifestazione di piazza annunciata per il prossimo sabato, dove è prevedibile che il capo dello Stato continuerà ad essere preso di mira dal popolo viola e dai militanti della sinistra, e dove il leader dell'Idv giocherà ancora una volta con astuzia il suo ruolo incontrastato di arruffapopoli per conquistare consensi in vista del voto.
Sono questi i risultati inevitabili di una strategia confusa, incerta e sempre oscillante tra il «vorrei ma non posso» di un rapporto non perennemente guerreggiato con la maggioranza e la tentazione di cedere agli istinti belluini di una piazza antipolitica e antiberlusconiana considerata come un serbatoio di voti irrinunciabile per il Pd. Nei giorni scorsi, subito dopo l'annuncio dell'esclusione delle liste del Pdl, il partito di Bersani era convinto di poter cavalcare la cresta dell'onda e di navigare col vento in poppa verso un inaspettato trionfo alle elezioni di fine marzo, soprattutto in una Regione come la Lombardia, da sempre feudo indiscusso del centrodestra. Oggi, dopo il sì del presidente della Repubblica al decreto del governo, la riammissione del listino di Formigoni e l'immediata offensiva di piazza di Di Pietro, l'entusiasmo lascia il passo alla delusione e alla disillusione: i nodi vengono al pettine e il Partito Democratico è costretto a tornare coi piedi per terra, a fare i conti con le sue contraddizioni e con l'incapacità congenita di porsi come soggetto che traccia la rotta stabile di una coalizione e che rinuncia a farsi guidare dalla prima nave pirata di passaggio.
Gianteo Bordero
Invece delle «forze armate per fermare il dittatore», come auspicava il solito Antonio Di Pietro, venerdì sera è arrivata la firma del presidente della Repubblica al decreto legge del governo finalizzato a garantire il regolare svolgimento delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo. Così la sinistra, che negli ultimi giorni aveva gridato all'abuso di potere, al golpe strisciante, all'imminente attentato alla democrazia messo in atto dal Cavaliere Nero, si ritrova oggi, per l'ennesima volta, con il proverbiale pugno di mosche in mano, costretta nuovamente a ricorrere alla piazza per mascherare la sua inconsistenza politica e la sua incapacità di confrontarsi seriamente e responsabilmente con le forze di maggioranza.
Il discorso vale in particolar modo per il Partito Democratico di Pier Luigi Bersani, che ha mantenuto un atteggiamento di chiusura preconcetta alle proposte del centrodestra, con la tacita speranza di poter trarre profitto dal caos sorto in seguito alla bocciatura della lista del Pdl nella Provincia di Roma e del listino di Formigoni in Lombardia ed ottenere così un successo a tavolino, in una gara senza competitori, in due Regioni chiave per stabilire vincitori e vinti della consultazione di fine marzo. Ha fatto ancora una volta capolino il solito vizietto post-comunista di gareggiare azzoppando gli avversari o escludendoli dall'agone. L'inebriante odore della conquista del potere fine a se stessa ha avuto la meglio sulle voci sagge e ragionevoli (su tutte quella di Massimo Cacciari) che consigliavano alla dirigenza del Pd di considerare gli effetti di un voto di fatto falsato dalla mancata partecipazione del partito di maggioranza relativa.
Così Bersani si è infilato in un vicolo cieco. Messosi al traino di Di Pietro nei giorni precedenti il varo del decreto legge, oggi si ritrova nella sgradevole situazione di dover da un lato prendere le distanze dal suo alleato di ferro quando arriva a chiedere addirittura l'impeachment per Giorgio Napolitano - definito dall'ex pm «correo, non arbitro imparziale» - e dall'altro lato di garantire comunque l'adesione del Pd alla manifestazione di piazza annunciata per il prossimo sabato, dove è prevedibile che il capo dello Stato continuerà ad essere preso di mira dal popolo viola e dai militanti della sinistra, e dove il leader dell'Idv giocherà ancora una volta con astuzia il suo ruolo incontrastato di arruffapopoli per conquistare consensi in vista del voto.
Sono questi i risultati inevitabili di una strategia confusa, incerta e sempre oscillante tra il «vorrei ma non posso» di un rapporto non perennemente guerreggiato con la maggioranza e la tentazione di cedere agli istinti belluini di una piazza antipolitica e antiberlusconiana considerata come un serbatoio di voti irrinunciabile per il Pd. Nei giorni scorsi, subito dopo l'annuncio dell'esclusione delle liste del Pdl, il partito di Bersani era convinto di poter cavalcare la cresta dell'onda e di navigare col vento in poppa verso un inaspettato trionfo alle elezioni di fine marzo, soprattutto in una Regione come la Lombardia, da sempre feudo indiscusso del centrodestra. Oggi, dopo il sì del presidente della Repubblica al decreto del governo, la riammissione del listino di Formigoni e l'immediata offensiva di piazza di Di Pietro, l'entusiasmo lascia il passo alla delusione e alla disillusione: i nodi vengono al pettine e il Partito Democratico è costretto a tornare coi piedi per terra, a fare i conti con le sue contraddizioni e con l'incapacità congenita di porsi come soggetto che traccia la rotta stabile di una coalizione e che rinuncia a farsi guidare dalla prima nave pirata di passaggio.
Gianteo Bordero
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lunedì 8 febbraio 2010
QUELLI CHE VOGLIONO RIFARE L'UNIONE
da Ragionpolitica.it dell'8 febbraio 2010
Baci e abbracci, al congresso dell'Italia dei Valori, tra Antonio Di Pietro e il segretario del Partito Democratico, Pierluigi Bersani. E in platea applaude Nichi Vendola, nuova icona della gauche nostrana dopo l'eclatante vittoria alle primarie pugliesi. Sarà dunque questa la nuova troika (Di Pietro, Bersani, Vendola) chiamata a risollevare le sorti della sinistra italiana dopo i rovesci elettorali di questi ultimi anni. In realtà, di nuovo c'è ben poco: il film a cui stiamo assistendo in questi giorni non ha il sapore di un'inedita alleanza politica fondata su una chiara e condivisa proposta programmatica per il governo del paese, ma è la riproposizione della vecchia formula tanto cara a Romano Prodi, l'Unione di tutti coloro che non hanno altro obiettivo oltre alla cacciata di Berlusconi.
Insomma, la sinistra, invece che proiettarsi verso il futuro sulla base di un'analisi radicale delle cause che l'hanno condannata alla minorità politica, riavvolge la pellicola e ritorna al 2006. Come se niente fosse accaduto. Come se i due anni di esecutivo Prodi non fossero mai esistiti. Come se quell'accozzaglia di forze tenute insieme soltanto dall'odio nei confronti del Cavaliere non avesse già dimostrato, alla prova dei fatti, di non poter produrre nulla di buono e di duraturo sotto il profilo dell'elaborazione politica e dell'azione di governo. Invece che prendere atto delle ragioni profonde della sua crisi, la sinistra sceglie di mettere da parte la politica e di affidarsi, ancora una volta, all'aritmetica, alla mera sommatoria dei voti sulla carta, immemore di quanto questo atteggiamento le sia già costato caro nel recente passato.
Alla vigilia delle elezioni del 2006, tale mentalità aveva fatto illudere i dirigenti dell'Unione di portare a casa una vittoria talmente ampia e netta da costringere alla resa definitiva l'uomo di Arcore. Sappiamo tutti come andò a finire: il trionfo non ci fu, le previsioni sulla carta furono smentite dai voti reali degli italiani, Berlusconi ne uscì a testa alta dimostrando di saper parlare meglio di chiunque altro agli elettori, ma la sinistra fece finta di nulla e pensò che quei 24 mila voti di vantaggio (lo 0,01% del corpo elettorale) le dessero il titolo di governare e di occupare tutto il potere disponibile come se la vittoria fosse stata totale. Fu quello, ancor prima del dispiegarsi dell'azione di governo, l'inizio della fine dell'Unione.
E fa specie che oggi la suddetta troika non sappia far tesoro di quell'esperienza e la riproponga, senza senso della realtà e della storia, come il rimedio a tutti i mali della sinistra. Con l'aggravante che questa volta anche i numeri sembrano remar contro i sogni di gloria di Di Pietro, Bersani e Vendola. I quali dovrebbero, tra le altre cose, tener conto di tre dati: in primis del fatto che l'Unione, quattro anni or sono, ha raccolto il massimo dei consensi che la gauche italiana ha mai potuto racimolare; in secondo luogo che, per fare ciò, Prodi ha dovuto mettere assieme ben dieci partiti (Ds, Margherita, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Verdi, Italia dei Valori, Udeur, Socialisti Democratici italiani, Radicali, Repubblicani europei); in terzo luogo, che il risultato del 2006 fu reso possibile anche, se non soprattutto, dallo stato di debolezza e di calo dei consensi di un centrodestra diviso e litigioso. Basta poco per capire quanto la realtà odierna sia diversa da quella di allora e per ipotizzare che le situazioni congiunturali che quattro anni fa portarono alla vittoria del centrosinistra difficilmente potranno prendere nuovamente forma nel prossimo futuro.
E allora è chiaro che quello a cui si apprestano a dar vita Di Pietro, Bersani e Vendola assomiglia più alla classica mossa della disperazione che a un progetto politico degno di tal nome. E se è vero che oggi questa alleanza può essere utile per garantire alla sinistra un risultato decoroso alle elezioni regionali di marzo, domani, cioè da aprile in poi, non potrà non mostrarsi per quello che realmente è: l'illusione di poter sconfiggere il centrodestra non in forza di un disegno politico organico e capace di parlare al paese sui grandi temi dell'economia, del lavoro, della scuola, della giustizia, ma sulla base di una semplice addizione di voti - che potrebbero non bastare.
Gianteo Bordero
Baci e abbracci, al congresso dell'Italia dei Valori, tra Antonio Di Pietro e il segretario del Partito Democratico, Pierluigi Bersani. E in platea applaude Nichi Vendola, nuova icona della gauche nostrana dopo l'eclatante vittoria alle primarie pugliesi. Sarà dunque questa la nuova troika (Di Pietro, Bersani, Vendola) chiamata a risollevare le sorti della sinistra italiana dopo i rovesci elettorali di questi ultimi anni. In realtà, di nuovo c'è ben poco: il film a cui stiamo assistendo in questi giorni non ha il sapore di un'inedita alleanza politica fondata su una chiara e condivisa proposta programmatica per il governo del paese, ma è la riproposizione della vecchia formula tanto cara a Romano Prodi, l'Unione di tutti coloro che non hanno altro obiettivo oltre alla cacciata di Berlusconi.
Insomma, la sinistra, invece che proiettarsi verso il futuro sulla base di un'analisi radicale delle cause che l'hanno condannata alla minorità politica, riavvolge la pellicola e ritorna al 2006. Come se niente fosse accaduto. Come se i due anni di esecutivo Prodi non fossero mai esistiti. Come se quell'accozzaglia di forze tenute insieme soltanto dall'odio nei confronti del Cavaliere non avesse già dimostrato, alla prova dei fatti, di non poter produrre nulla di buono e di duraturo sotto il profilo dell'elaborazione politica e dell'azione di governo. Invece che prendere atto delle ragioni profonde della sua crisi, la sinistra sceglie di mettere da parte la politica e di affidarsi, ancora una volta, all'aritmetica, alla mera sommatoria dei voti sulla carta, immemore di quanto questo atteggiamento le sia già costato caro nel recente passato.
Alla vigilia delle elezioni del 2006, tale mentalità aveva fatto illudere i dirigenti dell'Unione di portare a casa una vittoria talmente ampia e netta da costringere alla resa definitiva l'uomo di Arcore. Sappiamo tutti come andò a finire: il trionfo non ci fu, le previsioni sulla carta furono smentite dai voti reali degli italiani, Berlusconi ne uscì a testa alta dimostrando di saper parlare meglio di chiunque altro agli elettori, ma la sinistra fece finta di nulla e pensò che quei 24 mila voti di vantaggio (lo 0,01% del corpo elettorale) le dessero il titolo di governare e di occupare tutto il potere disponibile come se la vittoria fosse stata totale. Fu quello, ancor prima del dispiegarsi dell'azione di governo, l'inizio della fine dell'Unione.
E fa specie che oggi la suddetta troika non sappia far tesoro di quell'esperienza e la riproponga, senza senso della realtà e della storia, come il rimedio a tutti i mali della sinistra. Con l'aggravante che questa volta anche i numeri sembrano remar contro i sogni di gloria di Di Pietro, Bersani e Vendola. I quali dovrebbero, tra le altre cose, tener conto di tre dati: in primis del fatto che l'Unione, quattro anni or sono, ha raccolto il massimo dei consensi che la gauche italiana ha mai potuto racimolare; in secondo luogo che, per fare ciò, Prodi ha dovuto mettere assieme ben dieci partiti (Ds, Margherita, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Verdi, Italia dei Valori, Udeur, Socialisti Democratici italiani, Radicali, Repubblicani europei); in terzo luogo, che il risultato del 2006 fu reso possibile anche, se non soprattutto, dallo stato di debolezza e di calo dei consensi di un centrodestra diviso e litigioso. Basta poco per capire quanto la realtà odierna sia diversa da quella di allora e per ipotizzare che le situazioni congiunturali che quattro anni fa portarono alla vittoria del centrosinistra difficilmente potranno prendere nuovamente forma nel prossimo futuro.
E allora è chiaro che quello a cui si apprestano a dar vita Di Pietro, Bersani e Vendola assomiglia più alla classica mossa della disperazione che a un progetto politico degno di tal nome. E se è vero che oggi questa alleanza può essere utile per garantire alla sinistra un risultato decoroso alle elezioni regionali di marzo, domani, cioè da aprile in poi, non potrà non mostrarsi per quello che realmente è: l'illusione di poter sconfiggere il centrodestra non in forza di un disegno politico organico e capace di parlare al paese sui grandi temi dell'economia, del lavoro, della scuola, della giustizia, ma sulla base di una semplice addizione di voti - che potrebbero non bastare.
Gianteo Bordero
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sabato 30 gennaio 2010
BERSANI-DI PIETRO. RITORNO AL PASSATO
da Ragionpolitica.it del 30 gennaio 2010
Gira che ti rigira, alla fine il segretario del Partito Democratico ha deciso di riannodare i legami con l'Italia dei Valori in vista delle elezioni regionali del prossimo marzo. Una scelta per certi versi scontata, se si tiene conto del fatto che senza l'apporto del voto dipietrista il Pd rischia di capitolare in numerose Regioni nelle quali oggi è al governo e che i sondaggi più recenti danno in bilico tra centrosinistra e centrodestra. Così, dopo le liti dei mesi scorsi, dopo le ripetute prese di distanza di molti esponenti democratici dai toni e dai contenuti delle battaglie condotte dall'ex pm, improntate a un antiberlusconismo totale e dogmatico dal quale Bersani aveva annunciato di volersi affrancare, ecco che, come se nulla fosse accaduto, i leader dei due partiti si sono presentati insieme in conferenza stampa per annunciare un nuovo patto politico. Un accordo che - precisano - non riguarderà soltanto la prossima scadenza elettorale, ma anche il prosieguo della legislatura, in vista della creazione di una larga alleanza di centrosinistra capace di contendere al centrodestra la vittoria alle politiche del 2013.
Si tratta non soltanto di una sconfessione in piena regola della strategia annunciata a parole da Bersani nella fase pre-congressuale del Partito Democratico e finalizzata a dare vita ad un nuovo centro-sinistra fondato sull'asse tra Pd e Udc, con un'Italia dei Valori relegata al ruolo di gregario, ma anche di un ritorno al passato senza se e senza ma. In primis un ritorno all'alleanza stipulata da Veltroni con Di Pietro alla vigilia delle elezioni politiche del 2008, che ha avuto come conseguenza quella di regalare all'ex pm una corposa rappresentanza parlamentare e di consentirgli, con l'estrema sinistra rimasta fuori dal Palazzo, di autonominarsi, agli occhi dell'opinione pubblica, rappresentante unico della gauche massimalista. Ma è anche un ritorno de facto all'Unione prodiana, cioè - in sostanza - alla volontà di mettere insieme forze che hanno come solo denominatore comune l'avversione a Berlusconi. Idee, contenuti e proposte passano così in secondo piano, anzi divengono ininfluenti alla luce dell'unico punto programmatico capace di tenere uniti partiti tanto diversi tra loro: abbattere il Cavaliere Nero, costi quel che costi.
A soli quattro mesi dal suo insediamento alla segreteria del Pd, Bersani si trova dunque in un evidente stato confusionale: a parole dice di voler seguire una determinata direzione (quella del riformismo socialdemocratico e del confronto con la maggioranza sui grandi temi dell'agenda di governo) ma poi, nei fatti, sceglie di percorrere quella opposta (l'arroccamento nell'antiberlusconismo ideologico, chiuso ad ogni ipotesi di collaborazione istituzionale tra i due schieramenti). L'impressione è che il leader del Partito Democratico non sappia che pesci prendere e che, temendo una pesante sconfitta alle regionali, potenzialmente devastante per le sorti della sua segreteria, sia alla disperata ricerca di alleati con i quali mettere assieme i numeri necessari per rendere sopportabile e in qualche modo digeribile il risultato delle urne. L'elaborazione di una proposta politica seria e credibile, quindi, lascia nuovamente spazio alla mera aritmetica elettorale, cioè alla volontà di conquista del potere fine a se stessa. Come se non avesse insegnato nulla, ai dirigenti del Pd, l'esperienza degli ultimi sedici anni, a partire dalla bocciatura della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto nel 1994. I postcomunisti sembrano aver dimenticato persino gli insegnamenti del loro maestro di un tempo, quel Karl Marx il quale profeticamente affermò che «la storia si ripete sempre due volte: la prima volta in tragedia, la seconda in farsa». Dopo il fallimento dell'Unione prodiana, giunta al minimo storico dei consensi tra gli stessi elettori di sinistra a causa della sua insostenibilità e assurdità politica, il rischio è proprio quello descritto dall'autore del Capitale: arrivare alle comiche finali della sinistra in Italia.
Bersani, infatti, siglando un nuovo patto di reciproca fedeltà con un partito che in alcun modo, a causa del suo stesso Dna, può essere partecipe di un progetto di modernizzazione del paese, non si rende conto di sacrificare sull'altare della convenienza e del tornaconto immediato del partito quel poco di prospettiva riformista lasciata intravedere al momento della sua elezione a leader del Pd. Siamo alle solite: niente di nuovo sul fronte gauchista. Con l'aggravante che questa volta, considerato il progressivo stato di disgregazione interna del Partito Democratico (si pensi, ad esempio, all'addio di Rutelli, Lanzillotta, Dellai, Carra, Lusetti), i fili che il segretario ha riannodato con Di Pietro rischiano di trasformarsi nel cappio capace di soffocare definitivamente il già affannoso e stentato respiro del Pd. Perché l'ex pm, come un avvoltoio, è pronto a fare caccia grossa nell'elettorato orfano del «grande partito» che fu.
Gianteo Bordero
Gira che ti rigira, alla fine il segretario del Partito Democratico ha deciso di riannodare i legami con l'Italia dei Valori in vista delle elezioni regionali del prossimo marzo. Una scelta per certi versi scontata, se si tiene conto del fatto che senza l'apporto del voto dipietrista il Pd rischia di capitolare in numerose Regioni nelle quali oggi è al governo e che i sondaggi più recenti danno in bilico tra centrosinistra e centrodestra. Così, dopo le liti dei mesi scorsi, dopo le ripetute prese di distanza di molti esponenti democratici dai toni e dai contenuti delle battaglie condotte dall'ex pm, improntate a un antiberlusconismo totale e dogmatico dal quale Bersani aveva annunciato di volersi affrancare, ecco che, come se nulla fosse accaduto, i leader dei due partiti si sono presentati insieme in conferenza stampa per annunciare un nuovo patto politico. Un accordo che - precisano - non riguarderà soltanto la prossima scadenza elettorale, ma anche il prosieguo della legislatura, in vista della creazione di una larga alleanza di centrosinistra capace di contendere al centrodestra la vittoria alle politiche del 2013.
Si tratta non soltanto di una sconfessione in piena regola della strategia annunciata a parole da Bersani nella fase pre-congressuale del Partito Democratico e finalizzata a dare vita ad un nuovo centro-sinistra fondato sull'asse tra Pd e Udc, con un'Italia dei Valori relegata al ruolo di gregario, ma anche di un ritorno al passato senza se e senza ma. In primis un ritorno all'alleanza stipulata da Veltroni con Di Pietro alla vigilia delle elezioni politiche del 2008, che ha avuto come conseguenza quella di regalare all'ex pm una corposa rappresentanza parlamentare e di consentirgli, con l'estrema sinistra rimasta fuori dal Palazzo, di autonominarsi, agli occhi dell'opinione pubblica, rappresentante unico della gauche massimalista. Ma è anche un ritorno de facto all'Unione prodiana, cioè - in sostanza - alla volontà di mettere insieme forze che hanno come solo denominatore comune l'avversione a Berlusconi. Idee, contenuti e proposte passano così in secondo piano, anzi divengono ininfluenti alla luce dell'unico punto programmatico capace di tenere uniti partiti tanto diversi tra loro: abbattere il Cavaliere Nero, costi quel che costi.
A soli quattro mesi dal suo insediamento alla segreteria del Pd, Bersani si trova dunque in un evidente stato confusionale: a parole dice di voler seguire una determinata direzione (quella del riformismo socialdemocratico e del confronto con la maggioranza sui grandi temi dell'agenda di governo) ma poi, nei fatti, sceglie di percorrere quella opposta (l'arroccamento nell'antiberlusconismo ideologico, chiuso ad ogni ipotesi di collaborazione istituzionale tra i due schieramenti). L'impressione è che il leader del Partito Democratico non sappia che pesci prendere e che, temendo una pesante sconfitta alle regionali, potenzialmente devastante per le sorti della sua segreteria, sia alla disperata ricerca di alleati con i quali mettere assieme i numeri necessari per rendere sopportabile e in qualche modo digeribile il risultato delle urne. L'elaborazione di una proposta politica seria e credibile, quindi, lascia nuovamente spazio alla mera aritmetica elettorale, cioè alla volontà di conquista del potere fine a se stessa. Come se non avesse insegnato nulla, ai dirigenti del Pd, l'esperienza degli ultimi sedici anni, a partire dalla bocciatura della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto nel 1994. I postcomunisti sembrano aver dimenticato persino gli insegnamenti del loro maestro di un tempo, quel Karl Marx il quale profeticamente affermò che «la storia si ripete sempre due volte: la prima volta in tragedia, la seconda in farsa». Dopo il fallimento dell'Unione prodiana, giunta al minimo storico dei consensi tra gli stessi elettori di sinistra a causa della sua insostenibilità e assurdità politica, il rischio è proprio quello descritto dall'autore del Capitale: arrivare alle comiche finali della sinistra in Italia.
Bersani, infatti, siglando un nuovo patto di reciproca fedeltà con un partito che in alcun modo, a causa del suo stesso Dna, può essere partecipe di un progetto di modernizzazione del paese, non si rende conto di sacrificare sull'altare della convenienza e del tornaconto immediato del partito quel poco di prospettiva riformista lasciata intravedere al momento della sua elezione a leader del Pd. Siamo alle solite: niente di nuovo sul fronte gauchista. Con l'aggravante che questa volta, considerato il progressivo stato di disgregazione interna del Partito Democratico (si pensi, ad esempio, all'addio di Rutelli, Lanzillotta, Dellai, Carra, Lusetti), i fili che il segretario ha riannodato con Di Pietro rischiano di trasformarsi nel cappio capace di soffocare definitivamente il già affannoso e stentato respiro del Pd. Perché l'ex pm, come un avvoltoio, è pronto a fare caccia grossa nell'elettorato orfano del «grande partito» che fu.
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martedì 15 dicembre 2009
LA “GRANDE ALLEANZA DEMOCRATICA”? FACCIAMOLA PER ISOLARE DI PIETRO
da Ragionpolitica.it del 15 dicembre 2009
Intervistato da La Stampa sabato scorso, Pier Ferdinando Casini aveva lanciato la proposta di una Grande Alleanza Democratica contro Berlusconi. Una sorta di riedizione del Comitato di Liberazione Nazionale che lottò contro il fascismo e il suo Duce: «Se Berlusconi vuole andare al voto anticipato - aveva detto il leader dell'Udc - sappia che si troverà di fronte uno schieramento repubblicano in difesa della democrazia». Una coalizione in cui mettere insieme, come nei bei tempi andati dell'Unione prodiana, tutti coloro che si oppongono all'uomo di Arcore. Nessuna piattaforma politica comune, nessuna idea condivisa sull'amministrazione del paese, nessun programma di governo, se non quello di cacciare da Palazzo Chigi il suo attuale inquilino. Il resto, come si suol dire, verrà dopo. Per disarcionare il Cavaliere il fondatore dell'Unione di Centro si era detto disposto a tutto. Anche ad allearsi con Antonio Di Pietro. Cioè con colui che, nel 1992-93, contribuì alla distruzione per via giudiziaria della Democrazia Cristiana (partito nel quale Casini militava) dopo averne messo alla gogna in diretta tv i principali dirigenti (tra cui il mentore politico dell'allora giovane Pierferdi, Arnaldo Forlani).
Probabilmente le parole di Casini al quotidiano torinese nascevano soltanto dall'esigenza tattica di scongiurare ogni ipotesi di elezioni anticipate e, più che una proposta, erano un avvertimento a Berlusconi a non lasciarsi ammaliare dalle sirene del «voto subito». Il fatto è che quelle dichiarazioni «tattiche» sono arrivate nel peggior momento possibile. E stupisce che un politico navigato, e che ha fatto della moderazione il suo fiore all'occhiello, non se ne sia reso conto. Soltanto il giorno prima, infatti, scendendo in piazza al fianco della Cgil, un urlante Di Pietro aveva annunciato ai quattro venti che «se il governo continua ad essere sordo ai bisogni dei cittadini, si andrà allo scontro di piazza, e lì ci scapperà l'azione violenta se il governo non si assume la responsabilità di rispondere ai bisogni del paese». Invece che cercare di spegnere l'incendio che il capo dell'Idv appiccava con le sue parole, Casini il giorno dopo si diceva disposto a stringere anche con lui, il nemico di sempre, il sacro patto antiberlusconiano in difesa della democrazia. E ancora domenica mattina ribadiva, in un'intervista rilasciata al Tg2: «Se Berlusconi pensa di intimorirci, di poter convertire la Repubblica in Monarchia, sappia che la nostra risposta sarà chiara, ferma ed univoca. Perché a proposte d'emergenza, soluzioni d'emergenza».
Se dunque sin da sabato le frasi pronunciate dal leader dell'Udc apparivano quanto mai fuori luogo e irresponsabili - considerato il pesante clima di scontro che già si respirava in seguito alle esternazioni di Di Pietro al corteo della Cgil e alle contestazioni dei centri sociali in Piazza Fontana -, dopo la violenta aggressione al presidente del Consiglio in piazza del Duomo e le vergognose parole di commento dell'ex pm («Io non voglio che ci si mai violenza, ma Berlusconi con i suoi comportamenti e il suo menefreghismo istiga alla violenza») le dichiarazioni di Casini alla Stampa e al Tg2 si sono rivelate totalmente prive di qualsivoglia senso della realtà e di polso della situazione. Fino al tardo pomeriggio di domenica Pier Ferdinando non ha fatto nulla per contribuire a placare gli animi e per gettare acqua sul fuoco delle sempre più scomposte polemiche contro il premier. Anzi, affermando che bisognava dar vita a un fronte unico «a presidio della democrazia» ha finito con lo scendere sullo stesso terreno demagogico e con l'usare gli stessi argomenti del leader dell'Idv. Un errore capitale, di cui è augurabile che Casini si sia reso conto dopo i fatti di piazza del Duomo.
Che dire quindi oggi al leader dell'Unione di Centro? Che la Grande Alleanza Democratica che egli ha auspicato è da organizzare non contro il presidente del Consiglio e contro un governo che porta avanti molte delle battaglie politiche già iniziate nella legislatura in cui il partito di Casini era alleato del Cavaliere, ma semmai per isolare Di Pietro e i suoi compagni, cioè tutti coloro che in questi giorni hanno dimostrato di che pasta (umana e politica) sono fatti, negando la loro piena solidarietà al premier e condannando con qualche «se» e con più di un «ma» quanto accaduto domenica a Milano. Dev'essere chiaro a tutti, e tanto più a un uomo intelligente ed esperto come Pier Ferdinando, che il nemico della democrazia non abita a Palazzo Chigi. Casini ha puntato lo sguardo dalla parte sbagliata.
Gianteo Bordero
Intervistato da La Stampa sabato scorso, Pier Ferdinando Casini aveva lanciato la proposta di una Grande Alleanza Democratica contro Berlusconi. Una sorta di riedizione del Comitato di Liberazione Nazionale che lottò contro il fascismo e il suo Duce: «Se Berlusconi vuole andare al voto anticipato - aveva detto il leader dell'Udc - sappia che si troverà di fronte uno schieramento repubblicano in difesa della democrazia». Una coalizione in cui mettere insieme, come nei bei tempi andati dell'Unione prodiana, tutti coloro che si oppongono all'uomo di Arcore. Nessuna piattaforma politica comune, nessuna idea condivisa sull'amministrazione del paese, nessun programma di governo, se non quello di cacciare da Palazzo Chigi il suo attuale inquilino. Il resto, come si suol dire, verrà dopo. Per disarcionare il Cavaliere il fondatore dell'Unione di Centro si era detto disposto a tutto. Anche ad allearsi con Antonio Di Pietro. Cioè con colui che, nel 1992-93, contribuì alla distruzione per via giudiziaria della Democrazia Cristiana (partito nel quale Casini militava) dopo averne messo alla gogna in diretta tv i principali dirigenti (tra cui il mentore politico dell'allora giovane Pierferdi, Arnaldo Forlani).
Probabilmente le parole di Casini al quotidiano torinese nascevano soltanto dall'esigenza tattica di scongiurare ogni ipotesi di elezioni anticipate e, più che una proposta, erano un avvertimento a Berlusconi a non lasciarsi ammaliare dalle sirene del «voto subito». Il fatto è che quelle dichiarazioni «tattiche» sono arrivate nel peggior momento possibile. E stupisce che un politico navigato, e che ha fatto della moderazione il suo fiore all'occhiello, non se ne sia reso conto. Soltanto il giorno prima, infatti, scendendo in piazza al fianco della Cgil, un urlante Di Pietro aveva annunciato ai quattro venti che «se il governo continua ad essere sordo ai bisogni dei cittadini, si andrà allo scontro di piazza, e lì ci scapperà l'azione violenta se il governo non si assume la responsabilità di rispondere ai bisogni del paese». Invece che cercare di spegnere l'incendio che il capo dell'Idv appiccava con le sue parole, Casini il giorno dopo si diceva disposto a stringere anche con lui, il nemico di sempre, il sacro patto antiberlusconiano in difesa della democrazia. E ancora domenica mattina ribadiva, in un'intervista rilasciata al Tg2: «Se Berlusconi pensa di intimorirci, di poter convertire la Repubblica in Monarchia, sappia che la nostra risposta sarà chiara, ferma ed univoca. Perché a proposte d'emergenza, soluzioni d'emergenza».
Se dunque sin da sabato le frasi pronunciate dal leader dell'Udc apparivano quanto mai fuori luogo e irresponsabili - considerato il pesante clima di scontro che già si respirava in seguito alle esternazioni di Di Pietro al corteo della Cgil e alle contestazioni dei centri sociali in Piazza Fontana -, dopo la violenta aggressione al presidente del Consiglio in piazza del Duomo e le vergognose parole di commento dell'ex pm («Io non voglio che ci si mai violenza, ma Berlusconi con i suoi comportamenti e il suo menefreghismo istiga alla violenza») le dichiarazioni di Casini alla Stampa e al Tg2 si sono rivelate totalmente prive di qualsivoglia senso della realtà e di polso della situazione. Fino al tardo pomeriggio di domenica Pier Ferdinando non ha fatto nulla per contribuire a placare gli animi e per gettare acqua sul fuoco delle sempre più scomposte polemiche contro il premier. Anzi, affermando che bisognava dar vita a un fronte unico «a presidio della democrazia» ha finito con lo scendere sullo stesso terreno demagogico e con l'usare gli stessi argomenti del leader dell'Idv. Un errore capitale, di cui è augurabile che Casini si sia reso conto dopo i fatti di piazza del Duomo.
Che dire quindi oggi al leader dell'Unione di Centro? Che la Grande Alleanza Democratica che egli ha auspicato è da organizzare non contro il presidente del Consiglio e contro un governo che porta avanti molte delle battaglie politiche già iniziate nella legislatura in cui il partito di Casini era alleato del Cavaliere, ma semmai per isolare Di Pietro e i suoi compagni, cioè tutti coloro che in questi giorni hanno dimostrato di che pasta (umana e politica) sono fatti, negando la loro piena solidarietà al premier e condannando con qualche «se» e con più di un «ma» quanto accaduto domenica a Milano. Dev'essere chiaro a tutti, e tanto più a un uomo intelligente ed esperto come Pier Ferdinando, che il nemico della democrazia non abita a Palazzo Chigi. Casini ha puntato lo sguardo dalla parte sbagliata.
Gianteo Bordero
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sabato 12 dicembre 2009
LA MISCELA ESTREMISTA
da Ragionpolitica.it del 12 dicembre 2009
La svolta a sinistra di Di Pietro, iniziata all'indomani delle elezioni politiche dell'aprile 2008 e proseguita, con un crescendo quotidiano, nei mesi successivi fino alla definitiva consacrazione del «compagno» Tonino avvenuta lo scorso novembre durante una conferenza stampa congiunta con il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, conosce oggi una nuova, robusta accelerazione. Dalla toga alla falce e martello, il passo non è stato semplice, ma il caparbio leader dell'Italia dei Valori ci s'è messo d'impegno, e oggi la metamorfosi può dirsi compiuta. Non che Di Pietro abbia smesso l'abito mentale e ideologico dell'ex pm - basta leggere le sue dichiarazioni giornaliere in difesa della sacralità e dell'intangibilità della magistratura di qualsiasi ordine e grado per rendersene conto - ma egli ha capito che per riuscire a raggranellare nuovi consensi e fare breccia in settori inesplorati dell'elettorato italiano ci voleva il salto - si fa per dire - di qualità.
Così l'astuto Tonino si è guardato in giro e ha visto che l'unico spazio nel quale ci si poteva avventurare per fare man bassa di voti era quello della sinistra dura e pura, uscita con le ossa rotta dalle elezioni del 2008 e priva di rappresentanza parlamentare non avendo raggiunto la soglia minima per entrare a Palazzo. Resta esemplare, in tal senso, l'intervista che Di Pietro ha concesso al giornale di Piero Sansonetti, Gli Altri, il 7 ottobre scorso: «La sinistra sono io», annunciava, spiegando che «l'Italia dei Valori, nel proporsi come forza alternativa di governo, e nel prendere atto che ci sono larghe fasce della popolazione senza rappresentanza, ha allargato i propri orizzonti anche verso quella parte dell'elettorato tradizionalmente di sinistra, anche comunista». Una scelta strategica e non solo tattica - precisava - perché «siamo una forza antagonista al sistema ma che non vuole essere extra-parlamentare».
Scorribanda dopo scorribanda nella terra desolata dei nostalgici del comunismo, siamo dunque arrivati all'oggi, giorno in cui l'annunciata svolta «antagonista» di Di Pietro è emersa in tutta la sua portata. L'occasione è stata la manifestazione romana organizzata dalla Cgil scuola e pubblico impiego. Dove c'è protesta c'è Tonino, il quale, reduce dai fumi estremisti e dai fiumi di retorica massimalista respirati al «No B-day» dello scorso sabato, si è presentato al corteo sindacale per lanciare i suoi strali contro la Finanziaria del governo e per far sentire - così egli ha affermato - la sua vicinanza ai lavoratori scesi in piazza. Non contento delle sue esternazioni, per far comprendere in modo chiaro e inequivocabile la sua osmosi politica con le bandiere rosse sventolate dai manifestanti, ha sganciato la bomba atomica, facendo apparire come timidi moderati e come rivoluzionari all'acqua di rose gli attuali leader dell'estrema sinistra. Ha detto: «Se il governo continua ad essere sordo ai bisogni dei cittadini, si andrà allo scontro di piazza, e lì ci scapperà l'azione violenta se il governo non si assume la responsabilità di rispondere ai bisogni del paese». Boom!
Scontri di piazza? Azioni violente? Non c'è male, per uno che si era presentato sulla scena pubblica italiana come il paladino dell'ordine e della legalità, come il poliziotto duro e inflessibile, come l'espressione di una sensibilità che senza tema di errore poteva essere definita di estrema destra. Ma visto che, come si suol dire, a volte gli estremi - e gli estremismi - si toccano, ciò è avvenuto anche nel caso di Di Pietro. Che uomo di piazza, o che usa la piazza - anche mediatica - in fondo lo è sempre stato, già ai tempi delle sue requisitorie-show contro i dirigenti dei partiti della Prima Repubblica, rilanciate nelle case degli italiani dalle televisioni con lunghe dirette da Palazzo di Giustizia, e capaci così di far ribollire e poi esplodere in piazza, come nel caso di Craxi, il risentimento popolare contro la classe politica di allora.
Perciò possiamo dire che, nella sostanza, non v'è cesura tra il Di Pietro di ieri e quello di oggi, quello del 1992 e quello del 2009, tra il massimalista di destra e il massimalista di sinistra. Perché è un dato inconfutabile della storia quello per cui chi si nutre di estremismo ha sempre bisogno di nuovo sangue fresco per non far sciogliere come neve al sole la sua immagine di più duro e di più puro nella guerra contro il nemico, di condottiero incontrastato nella lotta contro l'ingiustizia e contro l'oppressore, di leader assoluto della moralità e della resistenza al male. Oggi nel capo dell'Idv si fondono dunque a caldo il giustizialismo e il comunismo, e ne viene fuori questa miscela esplosiva di giacobinismo e rivoluzione proletaria, di Robespierre e Marx, con esiti che, date le premesse, non potranno che essere nefasti per la nostra democrazia e per la nostra amata Repubblica.
Gianteo Bordero
La svolta a sinistra di Di Pietro, iniziata all'indomani delle elezioni politiche dell'aprile 2008 e proseguita, con un crescendo quotidiano, nei mesi successivi fino alla definitiva consacrazione del «compagno» Tonino avvenuta lo scorso novembre durante una conferenza stampa congiunta con il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero, conosce oggi una nuova, robusta accelerazione. Dalla toga alla falce e martello, il passo non è stato semplice, ma il caparbio leader dell'Italia dei Valori ci s'è messo d'impegno, e oggi la metamorfosi può dirsi compiuta. Non che Di Pietro abbia smesso l'abito mentale e ideologico dell'ex pm - basta leggere le sue dichiarazioni giornaliere in difesa della sacralità e dell'intangibilità della magistratura di qualsiasi ordine e grado per rendersene conto - ma egli ha capito che per riuscire a raggranellare nuovi consensi e fare breccia in settori inesplorati dell'elettorato italiano ci voleva il salto - si fa per dire - di qualità.
Così l'astuto Tonino si è guardato in giro e ha visto che l'unico spazio nel quale ci si poteva avventurare per fare man bassa di voti era quello della sinistra dura e pura, uscita con le ossa rotta dalle elezioni del 2008 e priva di rappresentanza parlamentare non avendo raggiunto la soglia minima per entrare a Palazzo. Resta esemplare, in tal senso, l'intervista che Di Pietro ha concesso al giornale di Piero Sansonetti, Gli Altri, il 7 ottobre scorso: «La sinistra sono io», annunciava, spiegando che «l'Italia dei Valori, nel proporsi come forza alternativa di governo, e nel prendere atto che ci sono larghe fasce della popolazione senza rappresentanza, ha allargato i propri orizzonti anche verso quella parte dell'elettorato tradizionalmente di sinistra, anche comunista». Una scelta strategica e non solo tattica - precisava - perché «siamo una forza antagonista al sistema ma che non vuole essere extra-parlamentare».
Scorribanda dopo scorribanda nella terra desolata dei nostalgici del comunismo, siamo dunque arrivati all'oggi, giorno in cui l'annunciata svolta «antagonista» di Di Pietro è emersa in tutta la sua portata. L'occasione è stata la manifestazione romana organizzata dalla Cgil scuola e pubblico impiego. Dove c'è protesta c'è Tonino, il quale, reduce dai fumi estremisti e dai fiumi di retorica massimalista respirati al «No B-day» dello scorso sabato, si è presentato al corteo sindacale per lanciare i suoi strali contro la Finanziaria del governo e per far sentire - così egli ha affermato - la sua vicinanza ai lavoratori scesi in piazza. Non contento delle sue esternazioni, per far comprendere in modo chiaro e inequivocabile la sua osmosi politica con le bandiere rosse sventolate dai manifestanti, ha sganciato la bomba atomica, facendo apparire come timidi moderati e come rivoluzionari all'acqua di rose gli attuali leader dell'estrema sinistra. Ha detto: «Se il governo continua ad essere sordo ai bisogni dei cittadini, si andrà allo scontro di piazza, e lì ci scapperà l'azione violenta se il governo non si assume la responsabilità di rispondere ai bisogni del paese». Boom!
Scontri di piazza? Azioni violente? Non c'è male, per uno che si era presentato sulla scena pubblica italiana come il paladino dell'ordine e della legalità, come il poliziotto duro e inflessibile, come l'espressione di una sensibilità che senza tema di errore poteva essere definita di estrema destra. Ma visto che, come si suol dire, a volte gli estremi - e gli estremismi - si toccano, ciò è avvenuto anche nel caso di Di Pietro. Che uomo di piazza, o che usa la piazza - anche mediatica - in fondo lo è sempre stato, già ai tempi delle sue requisitorie-show contro i dirigenti dei partiti della Prima Repubblica, rilanciate nelle case degli italiani dalle televisioni con lunghe dirette da Palazzo di Giustizia, e capaci così di far ribollire e poi esplodere in piazza, come nel caso di Craxi, il risentimento popolare contro la classe politica di allora.
Perciò possiamo dire che, nella sostanza, non v'è cesura tra il Di Pietro di ieri e quello di oggi, quello del 1992 e quello del 2009, tra il massimalista di destra e il massimalista di sinistra. Perché è un dato inconfutabile della storia quello per cui chi si nutre di estremismo ha sempre bisogno di nuovo sangue fresco per non far sciogliere come neve al sole la sua immagine di più duro e di più puro nella guerra contro il nemico, di condottiero incontrastato nella lotta contro l'ingiustizia e contro l'oppressore, di leader assoluto della moralità e della resistenza al male. Oggi nel capo dell'Idv si fondono dunque a caldo il giustizialismo e il comunismo, e ne viene fuori questa miscela esplosiva di giacobinismo e rivoluzione proletaria, di Robespierre e Marx, con esiti che, date le premesse, non potranno che essere nefasti per la nostra democrazia e per la nostra amata Repubblica.
Gianteo Bordero
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sabato 26 settembre 2009
SE IL PARLAMENTO È «MAFIOSO», CHE CI STA A FARE DI PIETRO?
da Ragionpolitica.it del 26 settembre 2009
Se il parlamento è «mafioso» e vota «provvedimenti criminali», che cosa ci sta a fare ancora l'onorevole Tonino Di Pietro? Lui, che si proclama puro e incontaminato, lui paladino della moralità, lui che combatte ogni giorno la dura battaglia contro i disonesti, i corrotti e i faccendieri? Se veramente è convinto di quanto ha affermato venerdì, se davvero ritiene che la Camera e il Senato siano congreghe di malavitosi, perché non si dimette? Perché continua a rimanere nel gioco sporco della politica? Perché non torna ad indossare la toga (che infondo non ha mai dismesso) ed inquisisce tutto il sistema dei partiti come già fece quindici anni fa, durante i bei giorni andati di Mani Pulite? Perché non sceglie di calcare nuovamente le aule dei tribunali nella veste che meglio gli si addice, quella di pubblico accusatore, per interrogare a reti unificate il potente di turno ed umiliarlo come fece con i big della defunta Prima Repubblica? Perché continua a frequentare un ambiente nel quale rischia seriamente di contaminarsi con tutte le zozzerie di questo mondo? Perché non viene via da Montecitorio, convocando gli amici di un tempo per abbattere il sistema politico vigente dal sacro scranno del giudice? Perché non organizza un blitz dell'antimafia nelle aule parlamentari, una bella retata per portar via i suoi attuali colleghi, esclusi ovviamente quelli immacolati dell'Italia dei Valori?
Facile criticare, facile denunciare, facile accusare, quando poi le parole rimangono parole, e invece di diventare corposi faldoni d'inchiesta restano cibo per le agenzie di stampa e per i pastoni politici del giorno dopo. Facile urlare ai quattro venti, facile ergersi a Savonarola di turno, facile moraleggiare su questo e su quello, quando tutto ciò è in funzione del mero consenso elettorale. Facile puntare il dito, facile giudicare, facile costruire teoremi quando poi tutto questo rimane dentro al grande circo della politica politicante. Troppo facile, onorevole Di Pietro, inquisire il «sistema» e poi starsene comodamente seduti sul proprio seggio di parlamentare. Troppo facile, andare in piazza contro la «Casta» e poi continuare a farne parte come se niente fosse. Troppo facile organizzare alla sera le crociate della moralità antipolitica assieme ai grandi moralisti Grillo, Travaglio e Santoro, e poi, la mattina successiva, prendere posto nel proprio banco come se niente fosse. Se fosse coerente fino in fondo, se veramente tirasse le conseguenze del suo dire, allora dovrebbe andarsene alla svelta, aprire subito i processi, raccogliere e mostrare le prove delle sue affermazioni di fronte agli italiani tutti, in modo che possano toccare con mano la verità delle sue dichiarazioni, la solidità delle sue accuse. Sarebbe un servizio di cui il paese le sarebbe grato.
Invece no. Lei resta, all'insegna del motto «hic manebimus optime». Resta e denuncia disegni oscuri e complotti ai suoi danni. Parla di un assalto alla libertà d'espressione, salvo poi presentarsi liberamente in televisione e altrettanto liberamente dire che la stampa è imbavagliata. Parla di un regime in atto, di un novello Mussolini che siede a Palazzo Chigi, di un dittatore che soffoca il paese, salvo poi presentarsi tranquillamente alle elezioni per raccogliere i frutti della sua propaganda. E' davvero un liberticida da barzelletta colui che consente ai suoi nemici di attaccarlo un giorno sì e l'altro pure! Ed è davvero un regime di cartapesta quello che permette ai suoi oppositori di candidarsi e di accrescere la propria presenza nelle istituzioni!
Forse la verità, onorevole Di Pietro, è che neppure lei crede fino in fondo alle cose che con tanta foga, rabbia ed energia sostiene in pubblico. Perché se ci credesse, come detto poc'anzi, tornerebbe a fare il magistrato per poterle dimostrare. Il fatto che rimanga è la prova provata che la realtà della politica italiana non è quella che lei dipinge. E infine un nota bene consclusivo: prima di rovesciare sugli altri ogni genere di accusa, farebbe bene a guardare in casa sua: la rivista Micromega, una delle più anti-berlusconiane e pro-dipietriste del pianeta, dedica un saggio di cinquanta pagine al suo partito, l'Idv, dall'eloquente titolo: «C'è del marcio in Danimarca. L'Italia dei Valori regione per regione». Vi si legge: «Deficit di democrazia interna e strapotere in mano a pochi e discussi professionisti della politica. È il risultato della passata strategia di corto respiro dell'Idv imbarcare a destra e a manca (e soprattutto al centro) transfughi di altre formazioni politiche, consegnando loro le chiavi delle federazioni locali. Questo emerge dall'inchiesta sulle strutture locali del "partito dell'anticasta". Alla vigilia di una lunga stagione congressuale e dopo candidature come quella di De Magistris, il partito di Di Pietro deve scegliere se rinnovarsi davvero o precipitare nella "sindrome Occhetto"». Chi di giustizialismo ferisce...
Gianteo Bordero
Se il parlamento è «mafioso» e vota «provvedimenti criminali», che cosa ci sta a fare ancora l'onorevole Tonino Di Pietro? Lui, che si proclama puro e incontaminato, lui paladino della moralità, lui che combatte ogni giorno la dura battaglia contro i disonesti, i corrotti e i faccendieri? Se veramente è convinto di quanto ha affermato venerdì, se davvero ritiene che la Camera e il Senato siano congreghe di malavitosi, perché non si dimette? Perché continua a rimanere nel gioco sporco della politica? Perché non torna ad indossare la toga (che infondo non ha mai dismesso) ed inquisisce tutto il sistema dei partiti come già fece quindici anni fa, durante i bei giorni andati di Mani Pulite? Perché non sceglie di calcare nuovamente le aule dei tribunali nella veste che meglio gli si addice, quella di pubblico accusatore, per interrogare a reti unificate il potente di turno ed umiliarlo come fece con i big della defunta Prima Repubblica? Perché continua a frequentare un ambiente nel quale rischia seriamente di contaminarsi con tutte le zozzerie di questo mondo? Perché non viene via da Montecitorio, convocando gli amici di un tempo per abbattere il sistema politico vigente dal sacro scranno del giudice? Perché non organizza un blitz dell'antimafia nelle aule parlamentari, una bella retata per portar via i suoi attuali colleghi, esclusi ovviamente quelli immacolati dell'Italia dei Valori?
Facile criticare, facile denunciare, facile accusare, quando poi le parole rimangono parole, e invece di diventare corposi faldoni d'inchiesta restano cibo per le agenzie di stampa e per i pastoni politici del giorno dopo. Facile urlare ai quattro venti, facile ergersi a Savonarola di turno, facile moraleggiare su questo e su quello, quando tutto ciò è in funzione del mero consenso elettorale. Facile puntare il dito, facile giudicare, facile costruire teoremi quando poi tutto questo rimane dentro al grande circo della politica politicante. Troppo facile, onorevole Di Pietro, inquisire il «sistema» e poi starsene comodamente seduti sul proprio seggio di parlamentare. Troppo facile, andare in piazza contro la «Casta» e poi continuare a farne parte come se niente fosse. Troppo facile organizzare alla sera le crociate della moralità antipolitica assieme ai grandi moralisti Grillo, Travaglio e Santoro, e poi, la mattina successiva, prendere posto nel proprio banco come se niente fosse. Se fosse coerente fino in fondo, se veramente tirasse le conseguenze del suo dire, allora dovrebbe andarsene alla svelta, aprire subito i processi, raccogliere e mostrare le prove delle sue affermazioni di fronte agli italiani tutti, in modo che possano toccare con mano la verità delle sue dichiarazioni, la solidità delle sue accuse. Sarebbe un servizio di cui il paese le sarebbe grato.
Invece no. Lei resta, all'insegna del motto «hic manebimus optime». Resta e denuncia disegni oscuri e complotti ai suoi danni. Parla di un assalto alla libertà d'espressione, salvo poi presentarsi liberamente in televisione e altrettanto liberamente dire che la stampa è imbavagliata. Parla di un regime in atto, di un novello Mussolini che siede a Palazzo Chigi, di un dittatore che soffoca il paese, salvo poi presentarsi tranquillamente alle elezioni per raccogliere i frutti della sua propaganda. E' davvero un liberticida da barzelletta colui che consente ai suoi nemici di attaccarlo un giorno sì e l'altro pure! Ed è davvero un regime di cartapesta quello che permette ai suoi oppositori di candidarsi e di accrescere la propria presenza nelle istituzioni!
Forse la verità, onorevole Di Pietro, è che neppure lei crede fino in fondo alle cose che con tanta foga, rabbia ed energia sostiene in pubblico. Perché se ci credesse, come detto poc'anzi, tornerebbe a fare il magistrato per poterle dimostrare. Il fatto che rimanga è la prova provata che la realtà della politica italiana non è quella che lei dipinge. E infine un nota bene consclusivo: prima di rovesciare sugli altri ogni genere di accusa, farebbe bene a guardare in casa sua: la rivista Micromega, una delle più anti-berlusconiane e pro-dipietriste del pianeta, dedica un saggio di cinquanta pagine al suo partito, l'Idv, dall'eloquente titolo: «C'è del marcio in Danimarca. L'Italia dei Valori regione per regione». Vi si legge: «Deficit di democrazia interna e strapotere in mano a pochi e discussi professionisti della politica. È il risultato della passata strategia di corto respiro dell'Idv imbarcare a destra e a manca (e soprattutto al centro) transfughi di altre formazioni politiche, consegnando loro le chiavi delle federazioni locali. Questo emerge dall'inchiesta sulle strutture locali del "partito dell'anticasta". Alla vigilia di una lunga stagione congressuale e dopo candidature come quella di De Magistris, il partito di Di Pietro deve scegliere se rinnovarsi davvero o precipitare nella "sindrome Occhetto"». Chi di giustizialismo ferisce...
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giovedì 23 luglio 2009
IL DISTRUTTORE
da Ragionpolitica.it del 23 luglio 2009
Fino a poco tempo fa, nel vocabolario politologico italiano la definizione di «forza anti-sistema» era appannaggio pressoché esclusivo della Lega Nord. Negli anni ruggenti del secessionismo, del padanismo esasperato, della «Roma ladrona», vi era qualche motivo oggettivamente fondato per catalogare in questo modo il partito di Bossi. Oggi le cose sono profondamente mutate, e il Carroccio, passo dopo passo, si è «istituzionalizzato», divenendo, da semplice forza di lotta, di piazza e di protesta, anche una responsabile forza di governo: negli Enti locali, nei Comuni, nelle Province, su su fino al potere centrale romano. Pur non perdendo l'originaria spinta «rivoluzionaria», e senza rinunciare ai suoi cavalli di battaglia, la Lega ha saputo, grazie all'abilità politica e strategica del suo leader da un lato, e all'intelligenza lungimirante di Silvio Berlusconi dall'altro, inserirsi da protagonista nella vita istituzionale del paese, assumendo una dimensione nazionale e non più soltanto «padana». Prova ne è stata, da ultimo, la scelta di presentare, alle recenti elezioni europee ed amministrative, liste che andassero oltre i semplici confini del Settentrione. E i risultati non possono certo essere definiti deludenti. Quindi, parlare oggi - come molti osservatori ancora si ostinano a fare - del Carroccio come di un «partito anti-sistema» significa continuare a non comprendere la realtà, utilizzando schemi ormai vetusti a soli fini propagandistici. Del resto, che la Lega sarebbe potuta diventare un perno del sistema politico e istituzionale non lo aveva compreso soltanto Silvio Berlusconi, ma anche, nell'opposto schieramento politico, Massimo D'Alema, che provò in più occasioni a corteggiare Bossi, contribuendo di fatto a quello «sdoganamento» che ora è realtà compiuta.
Se oggi, dunque, si vuole rintracciare nel panorama italiano dei partiti una forza antisistema, bisogna volgere lo sguardo altrove. Perché esiste un movimento che a tutti gli effetti rappresenta una rivolta generale contro le istituzioni, una protesta radicale contro la configurazione dei poteri politici prevista dalla Costituzione, una critica sostanziale alla democrazia rappresentativa su cui si regge la Repubblica italiana. Questo movimento, pur essendo presente in parlamento e pur avendo negli anni scorsi fatto parte di un governo di centrosinistra, incarna, allo stato attuale delle cose, il sentimento - sempre vivo in fasce della popolazione italiana, e oggi assai in voga - dell'inutilità delle procedure su cui si regge la vita delle istituzioni; dell'insensatezza delle garanzie previste dalla Carta costituzionale a difesa dei rappresentanti del popolo; della vacuità delle «liturgie» attraverso le quali si raggiunge un accordo tra partiti per la definizione delle leggi e dei provvedimenti governativi. Il tutto nel nome di una «democrazia diretta» in cui il processo decisionale è affidato senza filtri alla «rete» dei cittadini collegati tra loro da internet, dai blog, dai meet-up.
Questo è, in soldoni, il sostrato ideologico che sta alla base dell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e del movimento anti-politico, guidato da Beppe Grillo, di cui l'ex pubblico ministero rilancia le parole d'ordine, gli appelli, le battaglie. Si tratta, in fondo, di un progetto assai più «anti-sistema» di quello portato avanti dalla Lega Nord nei suoi primi anni di attività, perché, se nel caso del Carroccio il problema era sostanzialmente quello di dare una degna rappresentanza a un Settentrione per troppo tempo dimenticato dal potere centrale a tutto vantaggio del Mezzogiorno, con l'Italia dei Valori ci troviamo di fronte una delegittimazione in piena regola della stessa organizzazione democratica dello Stato. Mentre la Lega delle origini era un partito ferocemente anti-statalista e anti-centralista, l'Idv appare a tutti gli effetti come un partito tout court anti-democratico, almeno secondo il senso che la parola «democrazia» ha assunto da tre secoli a questa parte.
Se questa lettura, come pensiamo, ha un qualche fondamento, allora è necessario riconsiderare sotto un'altra luce la storia politica italiana degli ultimi anni. A partire, certo, dal 1992-93, quando Di Pietro diviene il simbolo della cancellazione dei partiti democratici della prima Repubblica per via giudiziaria, con Mani Pulite, per finire con la caduta del governo Prodi e la successiva scelta di Walter Veltroni di far alleare il Partito Democratico con l'Italia dei Valori alle elezioni politiche del 2008. Per quanto riguarda la fine dell'esecutivo prodiano, diventa chiaro che il motivo ultimo della crisi non fu tanto la vicenda personale di Clemente Mastella, quanto l'incapacità, dovuta alla debolezza congenita nell'Unione, di reggere l'urto dell'ondata anti-politica, sposata da Di Pietro, che proprio nel 2007 ebbe il suo momento apicale. Infine, per quel che concerne la decisione di Veltroni di apparentare il Pd con l'Idv nel 2008, appare oggi evidente come quella scelta non soltanto ha segnato l'inizio della fine della segreteria veltroniana, ma anche e soprattutto ha impedito al nuovo soggetto di centrosinistra di elaborare una propria politica di opposizione diversa dall'antiberlusconismo fanatico e dal qualunquismo esasperato dell'ex pm. Al punto che ora il Pd annaspa su percentuali di consenso molto basse e si trova costretto, suo malgrado, a occupare gran parte del tempo cercando di non farsi fagocitare del tutto dall'Italia dei Valori. E la «questione Di Pietro», che lo si voglia o no, sarà uno dei più intricati nodi da sciogliere al congresso prossimo venturo.
Questa rapida disamina mostra che, da quando Di Pietro è sceso - più o meno direttamente - in politica, l'esito della sua azione è stato, a conti fatti, soltanto quello della distruzione dell'esistente, e mai la costruzione di qualche cosa di democraticamente più avanzato e maturo. Per questo oggi occorre che tutti, e in particolare chi non ha ancora compreso la vera natura del movimento dipietrista, trattino l'Idv - e ciò che le ruota attorno - per quello che è: un partito che rigetta le fondamenta comuni della democrazia italiana così come noi l'abbiamo conosciuta a partire dalla nascita della Repubblica. Il vero partito anti-sistema.
Gianteo Bordero
Fino a poco tempo fa, nel vocabolario politologico italiano la definizione di «forza anti-sistema» era appannaggio pressoché esclusivo della Lega Nord. Negli anni ruggenti del secessionismo, del padanismo esasperato, della «Roma ladrona», vi era qualche motivo oggettivamente fondato per catalogare in questo modo il partito di Bossi. Oggi le cose sono profondamente mutate, e il Carroccio, passo dopo passo, si è «istituzionalizzato», divenendo, da semplice forza di lotta, di piazza e di protesta, anche una responsabile forza di governo: negli Enti locali, nei Comuni, nelle Province, su su fino al potere centrale romano. Pur non perdendo l'originaria spinta «rivoluzionaria», e senza rinunciare ai suoi cavalli di battaglia, la Lega ha saputo, grazie all'abilità politica e strategica del suo leader da un lato, e all'intelligenza lungimirante di Silvio Berlusconi dall'altro, inserirsi da protagonista nella vita istituzionale del paese, assumendo una dimensione nazionale e non più soltanto «padana». Prova ne è stata, da ultimo, la scelta di presentare, alle recenti elezioni europee ed amministrative, liste che andassero oltre i semplici confini del Settentrione. E i risultati non possono certo essere definiti deludenti. Quindi, parlare oggi - come molti osservatori ancora si ostinano a fare - del Carroccio come di un «partito anti-sistema» significa continuare a non comprendere la realtà, utilizzando schemi ormai vetusti a soli fini propagandistici. Del resto, che la Lega sarebbe potuta diventare un perno del sistema politico e istituzionale non lo aveva compreso soltanto Silvio Berlusconi, ma anche, nell'opposto schieramento politico, Massimo D'Alema, che provò in più occasioni a corteggiare Bossi, contribuendo di fatto a quello «sdoganamento» che ora è realtà compiuta.
Se oggi, dunque, si vuole rintracciare nel panorama italiano dei partiti una forza antisistema, bisogna volgere lo sguardo altrove. Perché esiste un movimento che a tutti gli effetti rappresenta una rivolta generale contro le istituzioni, una protesta radicale contro la configurazione dei poteri politici prevista dalla Costituzione, una critica sostanziale alla democrazia rappresentativa su cui si regge la Repubblica italiana. Questo movimento, pur essendo presente in parlamento e pur avendo negli anni scorsi fatto parte di un governo di centrosinistra, incarna, allo stato attuale delle cose, il sentimento - sempre vivo in fasce della popolazione italiana, e oggi assai in voga - dell'inutilità delle procedure su cui si regge la vita delle istituzioni; dell'insensatezza delle garanzie previste dalla Carta costituzionale a difesa dei rappresentanti del popolo; della vacuità delle «liturgie» attraverso le quali si raggiunge un accordo tra partiti per la definizione delle leggi e dei provvedimenti governativi. Il tutto nel nome di una «democrazia diretta» in cui il processo decisionale è affidato senza filtri alla «rete» dei cittadini collegati tra loro da internet, dai blog, dai meet-up.
Questo è, in soldoni, il sostrato ideologico che sta alla base dell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e del movimento anti-politico, guidato da Beppe Grillo, di cui l'ex pubblico ministero rilancia le parole d'ordine, gli appelli, le battaglie. Si tratta, in fondo, di un progetto assai più «anti-sistema» di quello portato avanti dalla Lega Nord nei suoi primi anni di attività, perché, se nel caso del Carroccio il problema era sostanzialmente quello di dare una degna rappresentanza a un Settentrione per troppo tempo dimenticato dal potere centrale a tutto vantaggio del Mezzogiorno, con l'Italia dei Valori ci troviamo di fronte una delegittimazione in piena regola della stessa organizzazione democratica dello Stato. Mentre la Lega delle origini era un partito ferocemente anti-statalista e anti-centralista, l'Idv appare a tutti gli effetti come un partito tout court anti-democratico, almeno secondo il senso che la parola «democrazia» ha assunto da tre secoli a questa parte.
Se questa lettura, come pensiamo, ha un qualche fondamento, allora è necessario riconsiderare sotto un'altra luce la storia politica italiana degli ultimi anni. A partire, certo, dal 1992-93, quando Di Pietro diviene il simbolo della cancellazione dei partiti democratici della prima Repubblica per via giudiziaria, con Mani Pulite, per finire con la caduta del governo Prodi e la successiva scelta di Walter Veltroni di far alleare il Partito Democratico con l'Italia dei Valori alle elezioni politiche del 2008. Per quanto riguarda la fine dell'esecutivo prodiano, diventa chiaro che il motivo ultimo della crisi non fu tanto la vicenda personale di Clemente Mastella, quanto l'incapacità, dovuta alla debolezza congenita nell'Unione, di reggere l'urto dell'ondata anti-politica, sposata da Di Pietro, che proprio nel 2007 ebbe il suo momento apicale. Infine, per quel che concerne la decisione di Veltroni di apparentare il Pd con l'Idv nel 2008, appare oggi evidente come quella scelta non soltanto ha segnato l'inizio della fine della segreteria veltroniana, ma anche e soprattutto ha impedito al nuovo soggetto di centrosinistra di elaborare una propria politica di opposizione diversa dall'antiberlusconismo fanatico e dal qualunquismo esasperato dell'ex pm. Al punto che ora il Pd annaspa su percentuali di consenso molto basse e si trova costretto, suo malgrado, a occupare gran parte del tempo cercando di non farsi fagocitare del tutto dall'Italia dei Valori. E la «questione Di Pietro», che lo si voglia o no, sarà uno dei più intricati nodi da sciogliere al congresso prossimo venturo.
Questa rapida disamina mostra che, da quando Di Pietro è sceso - più o meno direttamente - in politica, l'esito della sua azione è stato, a conti fatti, soltanto quello della distruzione dell'esistente, e mai la costruzione di qualche cosa di democraticamente più avanzato e maturo. Per questo oggi occorre che tutti, e in particolare chi non ha ancora compreso la vera natura del movimento dipietrista, trattino l'Idv - e ciò che le ruota attorno - per quello che è: un partito che rigetta le fondamenta comuni della democrazia italiana così come noi l'abbiamo conosciuta a partire dalla nascita della Repubblica. Il vero partito anti-sistema.
Gianteo Bordero
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mercoledì 15 luglio 2009
LA STRATEGIA ESTREMISTA DI ANTONIO DI PIETRO
da Ragionpolitica.it del 14 luglio 2009
Antonio Di Pietro ha respinto al mittente l'appello del presidente della Repubblica per un «clima più civile, corretto e costruttivo tra governo ed opposizione». L'ex pm ha risposto a muso duro all'invito del capo dello Stato con un post pubblicato sul suo blog, nel quale afferma: «Non so cosa ci trovi Lei, signor presidente, ma noi non ci troviamo nulla di "civile, corretto e costruttivo" nei comportamenti del governo e della sua maggioranza parlamentare e per questa ragione continueremo a fare opposizione senza sconti alcuno, dentro e fuori del parlamento».
Che i rapporti tra il leader dell'Italia dei Valori e l'inquilino del Colle non fossero dei migliori - per usare un eufemismo - è cosa nota da tempo: più volte, a partire dalla manifestazione di Piazza Navona di qualche mese fa, Di Pietro ha accusato Napolitano di non esercitare fino in fondo il suo compito, che, secondo le curiose teorie costituzionali del capo dell'Idv, dovrebbe essere quello di impedire al governo Berlusconi di svolgere il suo mandato bloccandone ogni provvedimento. Da ultimo, basti ricordare le parole rivolte dall'ex pm al presidente della Repubblica, sempre tramite il suo blog, la settimana scorsa, in seguito al mancato stop di Napolitano al ddl intercettazioni: «Signor presidente, lei sta usando una piuma d'oca per difendere la Costituzione dall'assalto di un manipolo piuttosto numeroso di golpisti». Secondo Di Pietro, dunque, il Quirinale sarebbe in ultima analisi complice, con i suoi «silenzi», di un disegno eversivo finalizzato a smantellare le garanzie democratiche sancite dalla Carta costituzionale. Ne dobbiamo dedurre, quindi, che anche gli appelli presidenziali per un «clima più civile» fanno parte di questa complicità della prima carica dello Stato con il governo Berlusconi.
Ora, è evidente a chiunque non sia accecato dall'odio antiberlusconiano che affiliare il presidente della Repubblica al presunto complotto antidemocratico del Cavaliere è una cosa semplicemente fuori dalla realtà, non soltanto perché non esiste alcun progetto di smantellamento della Costituzione da parte dell'attuale maggioranza, ma anche perché il capo dello Stato, da quando è in carica il Berlusconi IV, non ha certo mancato di intervenire in modo critico nei confronti dell'esecutivo quando ha ritenuto che ciò fosse conforme ai compiti assegnatigli dalla Carta. E, a volerla dire tutta, in un caso Napolitano è andato persino oltre le prerogative costituzionali in merito al giudizio sulla decretazione d'urgenza di iniziativa governativa: lo ha fatto nella vicenda di Eluana Englaro, quando dapprima è intervenuto con una inusuale missiva inviata a Consiglio dei ministri in corso per annunciare che, qualora l'esecutivo avesse percorso la strada del decreto per bloccare il protocollo medico di interruzione della nutrizione e dell'idratazione, egli avrebbe fatto mancare la sua controfirma; e poi, una volta che il decreto è stato approvato dal governo, lo ha rigettato sostenendo che nel caso in questione non sussistevano i requisiti di necessità ed urgenza previsti dalla Costituzione, entrando così in un campo di valutazione governativa e non presidenziale. Quindi, affermare che Napolitano regge il gioco dell'esecutivo è un'evidente assurdità.
A preoccupare, semmai, dovrebbero essere le idee sottese alle dichiarazioni di guerra di Di Pietro contro tutto e contro tutti. Come ha osservato Piero Ostellino (Corriere della Sera, 10 luglio) commentando l'«appello alla comunità internazione» dell'ex pm pubblicato su una pagina a pagamento dell'Herald Tribune, il leader dell'Idv mostra «sfiducia nelle istituzioni repubblicane alle quali, come parlamentare, ha giurato fedeltà». E, soprattutto, egli «ha un'idea della democrazia alquanto inquietante... Siamo di fronte a un parlamentare che delegittima - oltre che una maggioranza di governo liberamente eletta, la qual cosa rimane ancora nei limiti del confronto politico - anche il parlamento, il presidente della Repubblica e dubita persino della legittimità della Corte costituzionale... Uno spirito, quello di Di Pietro, autoritario che mal sopporta, oggi, di fare politica dentro il perimetro costituzionale, e che così facendo getta anche qualche ombra sul suo passato di magistrato».
Parole e concetti - quelli espressi da Ostellino - da sottoscrivere in pieno, e che bene spiegano perché il capo dell'Italia dei Valori abbia scelto di dire «no» all'appello di Napolitano per un clima politico «più civile»: con questa mossa Di Pietro, oltre a ribadire la sua strategia di presentarsi all'opinione pubblica come l'unica, vera opposizione, conferma di voler andare a pescare consensi in un'area estremista, dogmaticamente giustizialista, fanaticamente antiberlusconiana, in un elettorato che mal sopporta le garanzie democratiche a tutela della volontà espressa dai cittadini e non da qualche magistrato d'assalto.
Gianteo Bordero
Antonio Di Pietro ha respinto al mittente l'appello del presidente della Repubblica per un «clima più civile, corretto e costruttivo tra governo ed opposizione». L'ex pm ha risposto a muso duro all'invito del capo dello Stato con un post pubblicato sul suo blog, nel quale afferma: «Non so cosa ci trovi Lei, signor presidente, ma noi non ci troviamo nulla di "civile, corretto e costruttivo" nei comportamenti del governo e della sua maggioranza parlamentare e per questa ragione continueremo a fare opposizione senza sconti alcuno, dentro e fuori del parlamento».
Che i rapporti tra il leader dell'Italia dei Valori e l'inquilino del Colle non fossero dei migliori - per usare un eufemismo - è cosa nota da tempo: più volte, a partire dalla manifestazione di Piazza Navona di qualche mese fa, Di Pietro ha accusato Napolitano di non esercitare fino in fondo il suo compito, che, secondo le curiose teorie costituzionali del capo dell'Idv, dovrebbe essere quello di impedire al governo Berlusconi di svolgere il suo mandato bloccandone ogni provvedimento. Da ultimo, basti ricordare le parole rivolte dall'ex pm al presidente della Repubblica, sempre tramite il suo blog, la settimana scorsa, in seguito al mancato stop di Napolitano al ddl intercettazioni: «Signor presidente, lei sta usando una piuma d'oca per difendere la Costituzione dall'assalto di un manipolo piuttosto numeroso di golpisti». Secondo Di Pietro, dunque, il Quirinale sarebbe in ultima analisi complice, con i suoi «silenzi», di un disegno eversivo finalizzato a smantellare le garanzie democratiche sancite dalla Carta costituzionale. Ne dobbiamo dedurre, quindi, che anche gli appelli presidenziali per un «clima più civile» fanno parte di questa complicità della prima carica dello Stato con il governo Berlusconi.
Ora, è evidente a chiunque non sia accecato dall'odio antiberlusconiano che affiliare il presidente della Repubblica al presunto complotto antidemocratico del Cavaliere è una cosa semplicemente fuori dalla realtà, non soltanto perché non esiste alcun progetto di smantellamento della Costituzione da parte dell'attuale maggioranza, ma anche perché il capo dello Stato, da quando è in carica il Berlusconi IV, non ha certo mancato di intervenire in modo critico nei confronti dell'esecutivo quando ha ritenuto che ciò fosse conforme ai compiti assegnatigli dalla Carta. E, a volerla dire tutta, in un caso Napolitano è andato persino oltre le prerogative costituzionali in merito al giudizio sulla decretazione d'urgenza di iniziativa governativa: lo ha fatto nella vicenda di Eluana Englaro, quando dapprima è intervenuto con una inusuale missiva inviata a Consiglio dei ministri in corso per annunciare che, qualora l'esecutivo avesse percorso la strada del decreto per bloccare il protocollo medico di interruzione della nutrizione e dell'idratazione, egli avrebbe fatto mancare la sua controfirma; e poi, una volta che il decreto è stato approvato dal governo, lo ha rigettato sostenendo che nel caso in questione non sussistevano i requisiti di necessità ed urgenza previsti dalla Costituzione, entrando così in un campo di valutazione governativa e non presidenziale. Quindi, affermare che Napolitano regge il gioco dell'esecutivo è un'evidente assurdità.
A preoccupare, semmai, dovrebbero essere le idee sottese alle dichiarazioni di guerra di Di Pietro contro tutto e contro tutti. Come ha osservato Piero Ostellino (Corriere della Sera, 10 luglio) commentando l'«appello alla comunità internazione» dell'ex pm pubblicato su una pagina a pagamento dell'Herald Tribune, il leader dell'Idv mostra «sfiducia nelle istituzioni repubblicane alle quali, come parlamentare, ha giurato fedeltà». E, soprattutto, egli «ha un'idea della democrazia alquanto inquietante... Siamo di fronte a un parlamentare che delegittima - oltre che una maggioranza di governo liberamente eletta, la qual cosa rimane ancora nei limiti del confronto politico - anche il parlamento, il presidente della Repubblica e dubita persino della legittimità della Corte costituzionale... Uno spirito, quello di Di Pietro, autoritario che mal sopporta, oggi, di fare politica dentro il perimetro costituzionale, e che così facendo getta anche qualche ombra sul suo passato di magistrato».
Parole e concetti - quelli espressi da Ostellino - da sottoscrivere in pieno, e che bene spiegano perché il capo dell'Italia dei Valori abbia scelto di dire «no» all'appello di Napolitano per un clima politico «più civile»: con questa mossa Di Pietro, oltre a ribadire la sua strategia di presentarsi all'opinione pubblica come l'unica, vera opposizione, conferma di voler andare a pescare consensi in un'area estremista, dogmaticamente giustizialista, fanaticamente antiberlusconiana, in un elettorato che mal sopporta le garanzie democratiche a tutela della volontà espressa dai cittadini e non da qualche magistrato d'assalto.
Gianteo Bordero
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giovedì 21 maggio 2009
DI PIETRO IL CANNIBALE
da Ragionpolitica.it del 21 maggio 2009
Per quanto paradossale possa apparire, a pagare il dazio politico più pesante dopo la sentenza Mills e a rischiare un significativo calo dei consensi in vista delle prossime elezioni del 6 e 7 giugno non sono il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il Popolo della Libertà, bensì il Partito Democratico. Come faceva notare martedì sera a Ballarò il sondaggista Nando Pagnoncelli, una sentenza come quella emessa dai giudici milanesi non produce spostamento di voti da uno schieramento all'altro, ma ha soltanto l'effetto di radicalizzare ancor di più lo scontro attorno alla figura del Cavaliere. Ergo: se travaso di consensi vi sarà, esso avverrà all'interno dello schieramento di opposizione. E va da sé che avrà la meglio chi urlerà più forte contro il capo del governo, soddisfacendo l'atavico e mai domo antiberlusconismo che ancora alberga in larga parte della sinistra italiana.
Ci vuole poco per capire chi uscirà vincitore da questa battaglia per spartirsi i voti destinati a quel che resta della gauche italiana: colui che dall'inizio della legislatura si è presentato come l'unico in grado di fare vera opposizione al Caimano; come l'unico che non avrebbe ceduto alle lusinghe della «nuova stagione» veltroniana del dialogo e non si sarebbe sporcato le mani (pulite) cercando accordi con il nemico sui grandi temi della politica nazionale; come colui che non avrebbe messo nel cassetto la lotta alla Casta, la retorica grillante, la guerra ai privilegi; come l'unico che avrebbe resistito, senza se e senza ma, di fronte all'incedere del nuovo regime.
Antonio Di Pietro queste cose le disse in modo chiaro già nel suo primo discorso alla Camera dei deputati in occasione del dibattito sulla fiducia al Berlusconi IV, e non c'è dunque da stupirsi se oggi le riafferma in maniera se possibile ancor più radicale di fronte alla sentenza Mills, che è per lui come la famosa trippa per gatti o come il sangue per il conte Dracula. Quello che semmai deve, più che stupire, preoccupare, è la totale incapacità degli altri partiti di opposizione - Partito Democratico in primis - di assumere, di fronte a casi come quello in oggetto, un atteggiamento ben distinto e distante da quello forcaiolo, giustizialista e giacobino del leader dell'Italia dei Valori. Un'incapacità che è tutta nelle parole del segretario del Pd, Dario Franceschini, che prova nella sostanza a scimmiottare Di Pietro, ma non ci riesce fino in fondo, perché se l'Idv ha subito chiesto con voce ferma e tonante, dopo la sentenza, le dimissioni immediate del premier, i Democratici si sono limitati più timidamente a sollecitare la rinuncia, da parte dello stesso, allo scudo protettivo del lodo Alfano. Insomma, nella gara a chi è più antiberlusconiano, Tonino è destinato ad avere sempre la meglio nei confronti di un Pd ondivago, tentennante e indeciso sulla strategia di opposizione da adottare nei confronti del governo. Segno che la questione del rapporto con Berlusconi non ha ancora avuto risposta chiara da parte dei Democratici.
Così, nel vuoto politico a sinistra,il capo dell'Idv si trova dinanzi nuove terre di conquista, e può dichiarare con piglio da condottiero, di fronte a microfoni e telecamere, che ormai l'unica sinistra è lui; può presentarsi come la vera alternativa al Cavaliere ed evocare la nascita di un inedito bipolarismo Berlusconi-Di Pietro. Quello dell'ex pm è il tipico atteggiamento del cannibale, e lascia sbalorditi il fatto che le vittime predestinate facciano finta di niente o cerchino persino di mostrarsi condiscendenti con gli appetiti del loro carnefice, facilitandogli così il lavoro. Nessun accenno di rivolta, nessun tentativo di arginare lo strapotere di Tonino. I dirigenti del Partito Democratico dimenticano persino che le parole e i toni oggi usati dal leader Idv nei confronti di Berlusconi sono gli stessi che egli usò per molti mesi, sul finire del 2008, nei confronti di quegli amministratori locali del Pd finiti nel mirino dei magistrati. La ghigliottina che oggi Di Pietro vorrebbe azionare contro il presidente del Consiglio è la stessa che egli avrebbe volentieri azionato, sino a ieri, contro sindaci ed assessori democratici caduti nella rete delle inchieste giudiziarie. Ma mentre il premier tiene duro e ribatte colpo su colpo tanto ai magistrati politicizzati quanto al loro mentore Di Pietro, il Partito Democratico collabora volentieri all'opera e porge docile la testa al boia.
Di Pietro ha riscosso molto successo alla Fiera del Libro di Torino, assieme al suo ideologo Marco Travaglio, e tanti intellettuali della sinistra storica italiana hanno dichiarato di voler combattere al suo fianco la battaglia dell'antiberlusconismo. Abbandonato anche dall'intellighenzia dopo essere stato abbandonato dal popolo, il Partito Democratico sembra ormai totalmente passivo di fronte agli eventi, li subisce, incapace di esprimere quel coraggio e quell'ardore politico che fanno grandi i partiti, non solo dal punto di vista numerico. La vera vittima della sentenza Mills, in fondo, rischia di essere proprio il Pd.
Gianteo Bordero
Per quanto paradossale possa apparire, a pagare il dazio politico più pesante dopo la sentenza Mills e a rischiare un significativo calo dei consensi in vista delle prossime elezioni del 6 e 7 giugno non sono il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il Popolo della Libertà, bensì il Partito Democratico. Come faceva notare martedì sera a Ballarò il sondaggista Nando Pagnoncelli, una sentenza come quella emessa dai giudici milanesi non produce spostamento di voti da uno schieramento all'altro, ma ha soltanto l'effetto di radicalizzare ancor di più lo scontro attorno alla figura del Cavaliere. Ergo: se travaso di consensi vi sarà, esso avverrà all'interno dello schieramento di opposizione. E va da sé che avrà la meglio chi urlerà più forte contro il capo del governo, soddisfacendo l'atavico e mai domo antiberlusconismo che ancora alberga in larga parte della sinistra italiana.
Ci vuole poco per capire chi uscirà vincitore da questa battaglia per spartirsi i voti destinati a quel che resta della gauche italiana: colui che dall'inizio della legislatura si è presentato come l'unico in grado di fare vera opposizione al Caimano; come l'unico che non avrebbe ceduto alle lusinghe della «nuova stagione» veltroniana del dialogo e non si sarebbe sporcato le mani (pulite) cercando accordi con il nemico sui grandi temi della politica nazionale; come colui che non avrebbe messo nel cassetto la lotta alla Casta, la retorica grillante, la guerra ai privilegi; come l'unico che avrebbe resistito, senza se e senza ma, di fronte all'incedere del nuovo regime.
Antonio Di Pietro queste cose le disse in modo chiaro già nel suo primo discorso alla Camera dei deputati in occasione del dibattito sulla fiducia al Berlusconi IV, e non c'è dunque da stupirsi se oggi le riafferma in maniera se possibile ancor più radicale di fronte alla sentenza Mills, che è per lui come la famosa trippa per gatti o come il sangue per il conte Dracula. Quello che semmai deve, più che stupire, preoccupare, è la totale incapacità degli altri partiti di opposizione - Partito Democratico in primis - di assumere, di fronte a casi come quello in oggetto, un atteggiamento ben distinto e distante da quello forcaiolo, giustizialista e giacobino del leader dell'Italia dei Valori. Un'incapacità che è tutta nelle parole del segretario del Pd, Dario Franceschini, che prova nella sostanza a scimmiottare Di Pietro, ma non ci riesce fino in fondo, perché se l'Idv ha subito chiesto con voce ferma e tonante, dopo la sentenza, le dimissioni immediate del premier, i Democratici si sono limitati più timidamente a sollecitare la rinuncia, da parte dello stesso, allo scudo protettivo del lodo Alfano. Insomma, nella gara a chi è più antiberlusconiano, Tonino è destinato ad avere sempre la meglio nei confronti di un Pd ondivago, tentennante e indeciso sulla strategia di opposizione da adottare nei confronti del governo. Segno che la questione del rapporto con Berlusconi non ha ancora avuto risposta chiara da parte dei Democratici.
Così, nel vuoto politico a sinistra,il capo dell'Idv si trova dinanzi nuove terre di conquista, e può dichiarare con piglio da condottiero, di fronte a microfoni e telecamere, che ormai l'unica sinistra è lui; può presentarsi come la vera alternativa al Cavaliere ed evocare la nascita di un inedito bipolarismo Berlusconi-Di Pietro. Quello dell'ex pm è il tipico atteggiamento del cannibale, e lascia sbalorditi il fatto che le vittime predestinate facciano finta di niente o cerchino persino di mostrarsi condiscendenti con gli appetiti del loro carnefice, facilitandogli così il lavoro. Nessun accenno di rivolta, nessun tentativo di arginare lo strapotere di Tonino. I dirigenti del Partito Democratico dimenticano persino che le parole e i toni oggi usati dal leader Idv nei confronti di Berlusconi sono gli stessi che egli usò per molti mesi, sul finire del 2008, nei confronti di quegli amministratori locali del Pd finiti nel mirino dei magistrati. La ghigliottina che oggi Di Pietro vorrebbe azionare contro il presidente del Consiglio è la stessa che egli avrebbe volentieri azionato, sino a ieri, contro sindaci ed assessori democratici caduti nella rete delle inchieste giudiziarie. Ma mentre il premier tiene duro e ribatte colpo su colpo tanto ai magistrati politicizzati quanto al loro mentore Di Pietro, il Partito Democratico collabora volentieri all'opera e porge docile la testa al boia.
Di Pietro ha riscosso molto successo alla Fiera del Libro di Torino, assieme al suo ideologo Marco Travaglio, e tanti intellettuali della sinistra storica italiana hanno dichiarato di voler combattere al suo fianco la battaglia dell'antiberlusconismo. Abbandonato anche dall'intellighenzia dopo essere stato abbandonato dal popolo, il Partito Democratico sembra ormai totalmente passivo di fronte agli eventi, li subisce, incapace di esprimere quel coraggio e quell'ardore politico che fanno grandi i partiti, non solo dal punto di vista numerico. La vera vittima della sentenza Mills, in fondo, rischia di essere proprio il Pd.
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martedì 16 dicembre 2008
IL LUNEDÌ NERO DEL PD
da Ragionpolitica.it del 16 dicembre 2008
Già la mattina non prometteva bene, con i dati sulla bassa affluenza ai seggi che allarmava il quartier generale del partito. Poi il pomeriggio confermava le più cupe previsioni. Verso le 18, dopo 3 ore di scrutinio, iniziavano a delinearsi le dimensioni del patatrac. A quell'ora, infatti, non soltanto il candidato del centrodestra, Gianni Chiodi, si posizionava stabilmente tra i 6 e gli 8 punti percentuali di vantaggio sul suo avversario Carlo Costantini, ma soprattutto prendeva forma quello che sarebbe stato il vero dato politico della giornata: al crollo verticale del partito di Veltroni corrispondeva la crescita esponenziale dell'Italia dei Valori. I dati definitivi, a notte inoltrata, dicono che il Pd è affondato, passando dal 33,5% del 13-14 aprile a un misero 19,6%, mentre Antonio Di Pietro e la sua Idv sono saliti dal 7% al 15%. I democratici, dunque, hanno perso in 7 mesi il 40% dei loro consensi, mentre i dipietristi li hanno raddoppiati. Se il raffronto, poi, è con le regionali del 2005, quelle che videro trionfare Ottaviano Del Turco, le cose per il Pd vanno ancora peggio: Ds più Margherita (allora separati) ottennero il 35,4% (rispettivamente il 18,6 e il 16,8%), mentre l'Idv si fermò al 2,4%. Rispetto a soli 3 anni fa, dunque, il numero di elettori del Pd in Abruzzo s'è quasi dimezzato, mentre i sostenitori del partito dell'ex pm si sono sestuplicati. Numeri da capogiro, in un senso e nell'altro. Che non possono essere spiegati, come invece hanno fatto numerosi esponenti del Pd, soltanto con l'elevato astensionismo.
Intanto, ai microfoni delle tv e sulle agenzie, in serata Antonio Di Pietro iniziava gongolante il suo show fatto di proclami trionfalistici e di j'accuse, di auto-incoronazione a nuovo leader del centrosinistra e di bordate contro il Partito Democratico. Dichiarava, ad esempio, il capo dell'Idv: «Noi abbiamo rilanciato la questione morale senza la quale i cittadini vedono che nulla cambia... I partiti che non sono né carne né pesce, che fanno riunioni, che dicono "ma anche" e che non si decidono, vengono puniti». Come con una trottola, l'ex pm si prendeva gioco dell'alleato: dopo esser riuscito a fargli sostenere il suo candidato presidente, ora lo accusava di non essere all'altezza della missione «moralizzatrice» incarnata dall'Italia dei Valori. Dalla padella alla brace. Tutto prevedibile? Forse, ma il talento naturale di Di Pietro, la sua capacità di infierire sui deboli e di capitalizzare poi politicamente i frutti delle sue requisitorie, hanno reso ancor più grama la giornata dei democratici.
Ma la mazzata finale doveva ancora arrivare. Il peggio era dietro l'angolo. Un'Ansa delle 23.53 annunciava infatti l'arresto di Luciano D'Alfonso. Il quale, oltre ad essere sindaco di Pescara, è pure il coordinatore regionale del Partito Democratico. Finito già nei mesi scorsi nel mirino della Procura della Repubblica, avrebbe annunciato stamane le sue dimissioni dalla carica di primo cittadino e dalla segreteria abruzzese del Pd. Tra le accuse quella di concussione, truffa e peculato per un appalto sui cimiteri, nonché falso ideologico e associazione per delinquere. Ex Ppi, ex Margherita, già giovanissimo presidente della Provincia di Pescara, oggi al secondo mandato amministrativo, solo qualche ora prima dell'arresto D'Alfonso aveva analizzato la sconfitta del suo partito parlando di una «disaffezione» dell'elettorato di centrosinistra «di cui ci sentiamo responsabili». Dopo Genova, Napoli e Firenze, un nuovo caso destinato a gettare altra benzina sul fuoco in casa democratica.
Il giorno dopo, le ferite ancora sanguinano e i dirigenti del Pd cercano di puntellare come possono i fondamenti dell'edificio faticosamente costruito nell'ultimo anno. Ma crescono i mal di pancia interni, aumenta il malcontento di coloro (e non sono pochi) che vedono come fumo negli occhi l'alleanza con Di Pietro, e che oggi, dopo che il voto abruzzese ha reso anche plasticamente l'idea della stretta mortale con cui l'ex pm sta cingendo il Pd, hanno un argomento in più per far valere le loro ragioni di fronte al segretario. Il quale è chiamato ora a giocare la partita più difficile non soltanto da quando è alla guida del Partito Democratico, ma di tutta la sua carriera politica: tenere in piedi una casa pericolante non soltanto a causa dei continui scossoni dovuti alle correnti interne, ma per la sferza dei venti (Di Pietro e le inchieste giudiziarie) che dall'esterno soffiano senza posa, giorno dopo giorno, con sempre maggiore forza e intensità. Mai il crollo è stato così vicino.
Gianteo Bordero
Già la mattina non prometteva bene, con i dati sulla bassa affluenza ai seggi che allarmava il quartier generale del partito. Poi il pomeriggio confermava le più cupe previsioni. Verso le 18, dopo 3 ore di scrutinio, iniziavano a delinearsi le dimensioni del patatrac. A quell'ora, infatti, non soltanto il candidato del centrodestra, Gianni Chiodi, si posizionava stabilmente tra i 6 e gli 8 punti percentuali di vantaggio sul suo avversario Carlo Costantini, ma soprattutto prendeva forma quello che sarebbe stato il vero dato politico della giornata: al crollo verticale del partito di Veltroni corrispondeva la crescita esponenziale dell'Italia dei Valori. I dati definitivi, a notte inoltrata, dicono che il Pd è affondato, passando dal 33,5% del 13-14 aprile a un misero 19,6%, mentre Antonio Di Pietro e la sua Idv sono saliti dal 7% al 15%. I democratici, dunque, hanno perso in 7 mesi il 40% dei loro consensi, mentre i dipietristi li hanno raddoppiati. Se il raffronto, poi, è con le regionali del 2005, quelle che videro trionfare Ottaviano Del Turco, le cose per il Pd vanno ancora peggio: Ds più Margherita (allora separati) ottennero il 35,4% (rispettivamente il 18,6 e il 16,8%), mentre l'Idv si fermò al 2,4%. Rispetto a soli 3 anni fa, dunque, il numero di elettori del Pd in Abruzzo s'è quasi dimezzato, mentre i sostenitori del partito dell'ex pm si sono sestuplicati. Numeri da capogiro, in un senso e nell'altro. Che non possono essere spiegati, come invece hanno fatto numerosi esponenti del Pd, soltanto con l'elevato astensionismo.
Intanto, ai microfoni delle tv e sulle agenzie, in serata Antonio Di Pietro iniziava gongolante il suo show fatto di proclami trionfalistici e di j'accuse, di auto-incoronazione a nuovo leader del centrosinistra e di bordate contro il Partito Democratico. Dichiarava, ad esempio, il capo dell'Idv: «Noi abbiamo rilanciato la questione morale senza la quale i cittadini vedono che nulla cambia... I partiti che non sono né carne né pesce, che fanno riunioni, che dicono "ma anche" e che non si decidono, vengono puniti». Come con una trottola, l'ex pm si prendeva gioco dell'alleato: dopo esser riuscito a fargli sostenere il suo candidato presidente, ora lo accusava di non essere all'altezza della missione «moralizzatrice» incarnata dall'Italia dei Valori. Dalla padella alla brace. Tutto prevedibile? Forse, ma il talento naturale di Di Pietro, la sua capacità di infierire sui deboli e di capitalizzare poi politicamente i frutti delle sue requisitorie, hanno reso ancor più grama la giornata dei democratici.
Ma la mazzata finale doveva ancora arrivare. Il peggio era dietro l'angolo. Un'Ansa delle 23.53 annunciava infatti l'arresto di Luciano D'Alfonso. Il quale, oltre ad essere sindaco di Pescara, è pure il coordinatore regionale del Partito Democratico. Finito già nei mesi scorsi nel mirino della Procura della Repubblica, avrebbe annunciato stamane le sue dimissioni dalla carica di primo cittadino e dalla segreteria abruzzese del Pd. Tra le accuse quella di concussione, truffa e peculato per un appalto sui cimiteri, nonché falso ideologico e associazione per delinquere. Ex Ppi, ex Margherita, già giovanissimo presidente della Provincia di Pescara, oggi al secondo mandato amministrativo, solo qualche ora prima dell'arresto D'Alfonso aveva analizzato la sconfitta del suo partito parlando di una «disaffezione» dell'elettorato di centrosinistra «di cui ci sentiamo responsabili». Dopo Genova, Napoli e Firenze, un nuovo caso destinato a gettare altra benzina sul fuoco in casa democratica.
Il giorno dopo, le ferite ancora sanguinano e i dirigenti del Pd cercano di puntellare come possono i fondamenti dell'edificio faticosamente costruito nell'ultimo anno. Ma crescono i mal di pancia interni, aumenta il malcontento di coloro (e non sono pochi) che vedono come fumo negli occhi l'alleanza con Di Pietro, e che oggi, dopo che il voto abruzzese ha reso anche plasticamente l'idea della stretta mortale con cui l'ex pm sta cingendo il Pd, hanno un argomento in più per far valere le loro ragioni di fronte al segretario. Il quale è chiamato ora a giocare la partita più difficile non soltanto da quando è alla guida del Partito Democratico, ma di tutta la sua carriera politica: tenere in piedi una casa pericolante non soltanto a causa dei continui scossoni dovuti alle correnti interne, ma per la sferza dei venti (Di Pietro e le inchieste giudiziarie) che dall'esterno soffiano senza posa, giorno dopo giorno, con sempre maggiore forza e intensità. Mai il crollo è stato così vicino.
Gianteo Bordero
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giovedì 20 novembre 2008
PERCHÉ IL PD NON MOLLA DI PIETRO
da Ragionpolitica.it del 20 novembre 2008
Dopo le ultime vicende riguardanti l'elezione del presidente della Commissione di Vigilanza Rai, che hanno reso evidente come il Partito Democratico si sia cacciato in vicolo cieco sposando in toto la linea dura dipietrista, sorge spontaneo chiedersi perché Walter Veltroni non rompa definitivamente con l'Italia dei Valori e riprenda il discorso politico incominciato con il discorso del Lingotto e interrotto poche settimane dopo l'insediamento a Palazzo Chigi del quarto governo Berlusconi. La prima risposta, legata alle contingenze del momento, è che il Pd ha bisogno dell'Idv per affrontare le scadenze elettorali che lo attendono, sia quelle a breve termine (le regionali in Abruzzo di fine novembre) che quelle della prossima primavera (soprattutto le amministrative, che vedranno andare al voto moltissimi Comuni italiani). Con un Popolo della Libertà e una Lega Nord in buona salute è giocoforza, per i Democratici, cercare di presentarsi al giudizio degli elettori aggregando più forze possibili, anche perché sono in bilico amministrazioni tradizionalmente rosse la cui perdita rappresenterebbe un ulteriore smacco, per la sinistra, dopo quello subito il 13 e 14 aprile scorsi.
Ma, oltre a ciò, vi è anche un motivo sostanziale che impedisce al leader del Pd di addivenire ad una rottura netta con l'ex pm di Mani Pulite. Il fatto è che buona parte dell'elettorato e della militanza ex Ds ed ex Dl non ha mai accettato fino in fondo i contenuti della svolta del Lingotto, ossia la virata in direzione di un riformismo responsabile e maturo, ed è rimasta saldamente ancorata all'antiberlusconismo viscerale ed ideologico, lo stesso sul quale fa leva Di Pietro per raccogliere consenso, accusando il Cavaliere di ogni male e di ogni misfatto possibile, come ha fatto martedì, quando, in conferenza stampa, ha affermato che il presidente del Consiglio è un «corruttore politico». Il problema di una presa di distanza finalmente definitiva del Pd dall'Italia dei Valori non si porrebbe se gli elettori e i militanti del partito di Veltroni avessero i medesimi sentimenti e le medesime convinzioni politiche del loro capo. Ma così non è, come dimostra un sondaggio di qualche settimana fa, dal quale emergeva che la maggior parte di coloro che votano democratico vede di buon occhio più l'alleanza con Antonio Di Pietro che non quella, prospettata da alcuni dirigenti del Pd, con l'Udc di Pier Ferdinando Casini. Stando così le cose, è chiaro che una cesura alla radice del rapporto con l'Idv comporterebbe, con buona probabilità, anche un'ulteriore emorragia di consensi per il Partito Democratico, che già viaggia abbondantemente sotto le aspettative iniziali, sotto la fatidica soglia del 35% considerata il «minimo sindacale» per la nuova creatura di centrosinistra.
Qui non è in ballo soltanto la leadership di Veltroni, perché proprio sullo scoglio del passaggio a un partito modernamente riformista già si era arenata la nave postcomunista ai tempi della segreteria di Massimo D'Alema, costretto ad abbandonare il suo progetto di fronte alla mancanza del necessario consenso di base (e, in parte, anche di dirigenza). Il passare degli anni, evidentemente, non ha mutato nella sostanza quello che era il pregiudizio anti Cavaliere dell'elettorato che oggi vota Partito Democratico, fieramente e fermamente convinto della necessità di mantenere il vincolo dell'antiberlusconismo come condizione primaria per elaborare sia una linea politica che un quadro di alleanze. Se il Pd veltroniano era nato con lo scopo di superare l'Unione prodiana, oggi possiamo affermare che è ancora alla vasta coalizione messa in piedi dal Professore che guardano i simpatizzanti e i militanti del nuovo partito. La «vocazione maggioritaria» annunciata dall'ex sindaco di Roma esiste come slogan (oggi neanche più quello) ma non come realtà di popolo e come via politicamente perseguibile.
Ne consegue che il Pd è ostaggio di Di Pietro non soltanto per una scelta dei suoi dirigenti - tattica o strategica che sia - ma anche per una sorta di ineluttabile destino che lega il suo elettorato a un passato più o meno recente e gli impedisce di far evolvere il partito verso l'agognato approdo del riformismo europeo. Faceva persino tenerezza, qualche sera fa, sentire Piero Fassino in una trasmissione televisiva esaltare la dignità e la grandezza della Politica con la P maiuscola e difenderla dagli attacchi ferocemente antipolitici e anti Casta della conduttrice, quando poi chi vota per il partito che Fassino rappresenta ha gli stessi sentimenti «grillini» e «girotondini» di Di Pietro. E' quasi una maledizione quella che si prende gioco dei postcomunisti: tutte le volte che i vertici vogliono mettersi sulla via politica tracciata da Craxi la base li obbliga a percorrere la strada dei suoi aguzzini. La testa va da una parte, le membra nella direzione opposta. E' una schizofrenia che pesa come un macigno sul futuro politico del Pd.
Gianteo Bordero
Dopo le ultime vicende riguardanti l'elezione del presidente della Commissione di Vigilanza Rai, che hanno reso evidente come il Partito Democratico si sia cacciato in vicolo cieco sposando in toto la linea dura dipietrista, sorge spontaneo chiedersi perché Walter Veltroni non rompa definitivamente con l'Italia dei Valori e riprenda il discorso politico incominciato con il discorso del Lingotto e interrotto poche settimane dopo l'insediamento a Palazzo Chigi del quarto governo Berlusconi. La prima risposta, legata alle contingenze del momento, è che il Pd ha bisogno dell'Idv per affrontare le scadenze elettorali che lo attendono, sia quelle a breve termine (le regionali in Abruzzo di fine novembre) che quelle della prossima primavera (soprattutto le amministrative, che vedranno andare al voto moltissimi Comuni italiani). Con un Popolo della Libertà e una Lega Nord in buona salute è giocoforza, per i Democratici, cercare di presentarsi al giudizio degli elettori aggregando più forze possibili, anche perché sono in bilico amministrazioni tradizionalmente rosse la cui perdita rappresenterebbe un ulteriore smacco, per la sinistra, dopo quello subito il 13 e 14 aprile scorsi.
Ma, oltre a ciò, vi è anche un motivo sostanziale che impedisce al leader del Pd di addivenire ad una rottura netta con l'ex pm di Mani Pulite. Il fatto è che buona parte dell'elettorato e della militanza ex Ds ed ex Dl non ha mai accettato fino in fondo i contenuti della svolta del Lingotto, ossia la virata in direzione di un riformismo responsabile e maturo, ed è rimasta saldamente ancorata all'antiberlusconismo viscerale ed ideologico, lo stesso sul quale fa leva Di Pietro per raccogliere consenso, accusando il Cavaliere di ogni male e di ogni misfatto possibile, come ha fatto martedì, quando, in conferenza stampa, ha affermato che il presidente del Consiglio è un «corruttore politico». Il problema di una presa di distanza finalmente definitiva del Pd dall'Italia dei Valori non si porrebbe se gli elettori e i militanti del partito di Veltroni avessero i medesimi sentimenti e le medesime convinzioni politiche del loro capo. Ma così non è, come dimostra un sondaggio di qualche settimana fa, dal quale emergeva che la maggior parte di coloro che votano democratico vede di buon occhio più l'alleanza con Antonio Di Pietro che non quella, prospettata da alcuni dirigenti del Pd, con l'Udc di Pier Ferdinando Casini. Stando così le cose, è chiaro che una cesura alla radice del rapporto con l'Idv comporterebbe, con buona probabilità, anche un'ulteriore emorragia di consensi per il Partito Democratico, che già viaggia abbondantemente sotto le aspettative iniziali, sotto la fatidica soglia del 35% considerata il «minimo sindacale» per la nuova creatura di centrosinistra.
Qui non è in ballo soltanto la leadership di Veltroni, perché proprio sullo scoglio del passaggio a un partito modernamente riformista già si era arenata la nave postcomunista ai tempi della segreteria di Massimo D'Alema, costretto ad abbandonare il suo progetto di fronte alla mancanza del necessario consenso di base (e, in parte, anche di dirigenza). Il passare degli anni, evidentemente, non ha mutato nella sostanza quello che era il pregiudizio anti Cavaliere dell'elettorato che oggi vota Partito Democratico, fieramente e fermamente convinto della necessità di mantenere il vincolo dell'antiberlusconismo come condizione primaria per elaborare sia una linea politica che un quadro di alleanze. Se il Pd veltroniano era nato con lo scopo di superare l'Unione prodiana, oggi possiamo affermare che è ancora alla vasta coalizione messa in piedi dal Professore che guardano i simpatizzanti e i militanti del nuovo partito. La «vocazione maggioritaria» annunciata dall'ex sindaco di Roma esiste come slogan (oggi neanche più quello) ma non come realtà di popolo e come via politicamente perseguibile.
Ne consegue che il Pd è ostaggio di Di Pietro non soltanto per una scelta dei suoi dirigenti - tattica o strategica che sia - ma anche per una sorta di ineluttabile destino che lega il suo elettorato a un passato più o meno recente e gli impedisce di far evolvere il partito verso l'agognato approdo del riformismo europeo. Faceva persino tenerezza, qualche sera fa, sentire Piero Fassino in una trasmissione televisiva esaltare la dignità e la grandezza della Politica con la P maiuscola e difenderla dagli attacchi ferocemente antipolitici e anti Casta della conduttrice, quando poi chi vota per il partito che Fassino rappresenta ha gli stessi sentimenti «grillini» e «girotondini» di Di Pietro. E' quasi una maledizione quella che si prende gioco dei postcomunisti: tutte le volte che i vertici vogliono mettersi sulla via politica tracciata da Craxi la base li obbliga a percorrere la strada dei suoi aguzzini. La testa va da una parte, le membra nella direzione opposta. E' una schizofrenia che pesa come un macigno sul futuro politico del Pd.
Gianteo Bordero
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martedì 18 novembre 2008
VELTRONI NON NE AZZECCA UNA
da Ragionpolitica.it del 18 novembre 2008
La «Jena» della Stampa, Riccardo Barenghi, domenica lo ha paragonato a Paperino, «quello che, se prende un'iniziativa, combina un disastro», «quello che non ne azzecca una». Ed è proprio così. Anche l'ultimo episodio, ossia la vicenda dell'elezione del presidente della Commissione di Vigilanza Rai, dimostra che Walter Veltroni non ne combina una giusta. La scelta del nome per la Vigilanza sulla Tv di Stato era, per il segretario del Pd, l'occasione buona per liberare se stesso e il suo partito dall'abbraccio mortale con Antonio Di Pietro e con l'Italia dei Valori; per rilanciare una qualche forma di dialogo con la maggioranza dopo mesi di totale incomunicabilità; infine, per mostrare di possedere quel senso delle istituzioni di cui difetterebbero, secondo Veltroni e i dirigenti democratici, il Popolo della Libertà e la Lega Nord.
Invece niente. Walter non ha capito, a differenza dei due esponenti del Pd che hanno votato per Villari, che il momento in cui i rappresentanti della maggioranza in Vigilanza Rai infilavano nell'urna la scheda con il nome del senatore napoletano, sbloccando una situazione divenuta ormai insopportabile dal punto di vista istituzionale e non solo, era anche il suo momento, l'istante giusto per rialzare la testa e far vedere a tutti (nemici interni, alleati arroganti e avversari dello schieramento di centrodestra) di che pasta politica è fatto. Come? Dando la sua benedizione al presidente eletto e mettendo i puntini sulle «i» riguardo a chi detiene il bastone del comando nel partito e nell'opposizione. Ma i treni, come si suol dire, non passano mai due volte. E così Veltroni si è fatto inghiottire dagli eventi, con un triplice risultato negativo: lasciare che fossero i suoi detrattori nel partito a dettare la linea (chi nella direzione della legittimazione di Villari, chi in quella opposta di una sua espulsione immediata); destare più di un sospetto di mancanza di fedeltà alla causa antiberlusconiana nella truppa dipietrista; apparire ancora di più che nel recente passato, agli occhi del centrodestra, come un interlocutore inconsistente.
Un disastro su tutta la linea, quindi. Sottolineato, sui quotidiani di ieri, da due grandi conoscitori della politica italiana come Marco Pannella e Biagio De Giovanni, entrambi orbitanti attorno al pianeta democratico. Il leader storico dei Radicali, intervistato da Il Giornale, ha affermato che «se per caso Villari si dovesse dimettere, come il suo partito lo invita a fare, si ritornerebbe alla situazione di caos precedente... L'elezione di Villari è stata regolare e grazie ad essa il parlamento può rientrare nella legalità finora violata». E il filosofo ed ex parlamentare comunista, grande conoscitore della storia del Pci, interpellato dal Corriere della Sera, ha detto di vedere all'opera, nella continua richiesta di espulsione di Villari dal Pd, i peggiori fantasmi del passato: «Vedo la Finocchiaro che mostra una faccia dura, durissima e invoca l'espulsione... Sembra di essere tornati al vecchio Pci, proprio a quello vecchio, perché le ultime espulsioni risalgono al 1968, con il gruppo di intellettuali del Manifesto». Sia Pannella che De Giovanni concordano nell'individuare l'errore politico di fondo compiuto da Veltroni: ammanettarsi a Di Pietro e rinunciare a perseguire una linea politica autonoma e distinta da quella dell'ex pm. Dice Pannella: «E' dalle elezioni di aprile che il leader del Pd ha fatto una scelta di grande avventatezza politica alleandosi con l'Italia dei Valori». E De Giovanni: «Il Partito Democratico si deve liberare della subalternità nei confronti di Di Pietro... La sua presa sul Pd si è fatta sempre più penetrante, nonostante la sua politica sia in contrapposizione a quella del Pd... Ciò inibisce la capacità dei democratici di portare avanti la loro politica».
Se proprio si vuole trovare una qualche motivazione all'atteggiamento di Veltroni nella vicenda della Vigilanza Rai, si può ipotizzare che egli non abbia voluto rompere in modo traumatico con l'Idv a pochi giorni dalle elezioni regionali in Abruzzo, dove le prospettive, per il candidato comune di democratici e dipietristi, Carlo Costantini, non sono propriamente rosee - per usare un eufemismo. Eppure, il fatto che avrebbe dovuto mettere sull'attenti il segretario del Partito Democratico non è tanto la sconfitta, che appare scontata, quanto il possibile sorpasso dell'Idv sul Pd. E' chiaro che, se tale sorpasso si verificasse, la leadership veltroniana, che aveva preso una boccata d'ossigeno alla manifestazione del Circo Massimo, si troverebbe di nuovo messa seriamente in discussione. Perché è chiaro come il sole che l'unico obiettivo di Di Pietro non è costruire una nuova sinistra in grado di competere con il centrodestra, e non è neppure mettere in difficoltà il governo, bensì diventare il capo effettivo dell'opposizione antiberlusconiana facendo un sol boccone di tutto ciò che sa di riformismo, moderazione, senso delle istituzioni. Il Pd è la prossima vittima designata dell'ex pm. Che Veltroni non lo capisca - o faccia finta di non capirlo - è davvero un assurdo politico che ha pochi precedenti nella storia repubblicana.
di Gianteo Bordero
La «Jena» della Stampa, Riccardo Barenghi, domenica lo ha paragonato a Paperino, «quello che, se prende un'iniziativa, combina un disastro», «quello che non ne azzecca una». Ed è proprio così. Anche l'ultimo episodio, ossia la vicenda dell'elezione del presidente della Commissione di Vigilanza Rai, dimostra che Walter Veltroni non ne combina una giusta. La scelta del nome per la Vigilanza sulla Tv di Stato era, per il segretario del Pd, l'occasione buona per liberare se stesso e il suo partito dall'abbraccio mortale con Antonio Di Pietro e con l'Italia dei Valori; per rilanciare una qualche forma di dialogo con la maggioranza dopo mesi di totale incomunicabilità; infine, per mostrare di possedere quel senso delle istituzioni di cui difetterebbero, secondo Veltroni e i dirigenti democratici, il Popolo della Libertà e la Lega Nord.
Invece niente. Walter non ha capito, a differenza dei due esponenti del Pd che hanno votato per Villari, che il momento in cui i rappresentanti della maggioranza in Vigilanza Rai infilavano nell'urna la scheda con il nome del senatore napoletano, sbloccando una situazione divenuta ormai insopportabile dal punto di vista istituzionale e non solo, era anche il suo momento, l'istante giusto per rialzare la testa e far vedere a tutti (nemici interni, alleati arroganti e avversari dello schieramento di centrodestra) di che pasta politica è fatto. Come? Dando la sua benedizione al presidente eletto e mettendo i puntini sulle «i» riguardo a chi detiene il bastone del comando nel partito e nell'opposizione. Ma i treni, come si suol dire, non passano mai due volte. E così Veltroni si è fatto inghiottire dagli eventi, con un triplice risultato negativo: lasciare che fossero i suoi detrattori nel partito a dettare la linea (chi nella direzione della legittimazione di Villari, chi in quella opposta di una sua espulsione immediata); destare più di un sospetto di mancanza di fedeltà alla causa antiberlusconiana nella truppa dipietrista; apparire ancora di più che nel recente passato, agli occhi del centrodestra, come un interlocutore inconsistente.
Un disastro su tutta la linea, quindi. Sottolineato, sui quotidiani di ieri, da due grandi conoscitori della politica italiana come Marco Pannella e Biagio De Giovanni, entrambi orbitanti attorno al pianeta democratico. Il leader storico dei Radicali, intervistato da Il Giornale, ha affermato che «se per caso Villari si dovesse dimettere, come il suo partito lo invita a fare, si ritornerebbe alla situazione di caos precedente... L'elezione di Villari è stata regolare e grazie ad essa il parlamento può rientrare nella legalità finora violata». E il filosofo ed ex parlamentare comunista, grande conoscitore della storia del Pci, interpellato dal Corriere della Sera, ha detto di vedere all'opera, nella continua richiesta di espulsione di Villari dal Pd, i peggiori fantasmi del passato: «Vedo la Finocchiaro che mostra una faccia dura, durissima e invoca l'espulsione... Sembra di essere tornati al vecchio Pci, proprio a quello vecchio, perché le ultime espulsioni risalgono al 1968, con il gruppo di intellettuali del Manifesto». Sia Pannella che De Giovanni concordano nell'individuare l'errore politico di fondo compiuto da Veltroni: ammanettarsi a Di Pietro e rinunciare a perseguire una linea politica autonoma e distinta da quella dell'ex pm. Dice Pannella: «E' dalle elezioni di aprile che il leader del Pd ha fatto una scelta di grande avventatezza politica alleandosi con l'Italia dei Valori». E De Giovanni: «Il Partito Democratico si deve liberare della subalternità nei confronti di Di Pietro... La sua presa sul Pd si è fatta sempre più penetrante, nonostante la sua politica sia in contrapposizione a quella del Pd... Ciò inibisce la capacità dei democratici di portare avanti la loro politica».
Se proprio si vuole trovare una qualche motivazione all'atteggiamento di Veltroni nella vicenda della Vigilanza Rai, si può ipotizzare che egli non abbia voluto rompere in modo traumatico con l'Idv a pochi giorni dalle elezioni regionali in Abruzzo, dove le prospettive, per il candidato comune di democratici e dipietristi, Carlo Costantini, non sono propriamente rosee - per usare un eufemismo. Eppure, il fatto che avrebbe dovuto mettere sull'attenti il segretario del Partito Democratico non è tanto la sconfitta, che appare scontata, quanto il possibile sorpasso dell'Idv sul Pd. E' chiaro che, se tale sorpasso si verificasse, la leadership veltroniana, che aveva preso una boccata d'ossigeno alla manifestazione del Circo Massimo, si troverebbe di nuovo messa seriamente in discussione. Perché è chiaro come il sole che l'unico obiettivo di Di Pietro non è costruire una nuova sinistra in grado di competere con il centrodestra, e non è neppure mettere in difficoltà il governo, bensì diventare il capo effettivo dell'opposizione antiberlusconiana facendo un sol boccone di tutto ciò che sa di riformismo, moderazione, senso delle istituzioni. Il Pd è la prossima vittima designata dell'ex pm. Che Veltroni non lo capisca - o faccia finta di non capirlo - è davvero un assurdo politico che ha pochi precedenti nella storia repubblicana.
di Gianteo Bordero
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mercoledì 22 ottobre 2008
L'ERRORE CAPITALE DI VELTRONI
da Ragionpolitica.it del 21 ottobre 2008
A conti fatti, l'errore più grave che Walter Veltroni ha commesso nel suo anno alla guida del Partito Democratico è stata l'alleanza con Antonio Di Pietro. Oggi che i nodi di un matrimonio che «non s'aveva da fare» vengono inesorabilmente al pettine, con il proverbiale lancio degli stracci tra i due partner, la domanda che sorge spontanea è: «Caro Walter, chi te l'ha fatto fare?». L'impressione, infatti, è che quello tra Pd e Idv sia stato un connubio nel quale a guadagnarci sia stato, sin dall'inizio, soltanto uno dei contraenti: è grazie all'apparentamento con i Democratici che il partito di Di Pietro ha ottenuto un numero di parlamentari tale da consentire la formazione di gruppi autonomi sia alla Camera che al Senato; è grazie alla decisione di Veltroni di rifiutare l'alleanza con gli altri partiti della sinistra che l'ex pm ha potuto presentarsi, sin dal suo primo discorso tenuto a Montecitorio, come l'unico, vero oppositore al governo Berlusconi; è grazie alla mancanza di chiarezza programmatica e strategica del segretario del Pd che l'Italia dei Valori ha potuto, giorno dopo giorno, capitalizzare in termini di consenso il proprio radicalismo ideologico, il giustizialismo duro e puro, l'antiberlusconismo «senza se e senza ma».
Oggi, a sei mesi dall'inizio della legislatura, Veltroni scopre l'acqua calda e va a dire davanti alle telecamere di Che tempo che fa, come se niente fosse e come se non avesse responsabilità in materia, che «l'alleanza con Di Pietro è finita nel giorno in cui egli ha stracciato l'impegno di costituire un gruppo unico, perché, visto che aveva il numero dei parlamentari necessario per fare un gruppo in proprio, è venuto da noi e ha detto: "Quell'impegno preso non vale più"». Non domo, aggiunge: «Quando si va ai problemi di merito, si vedono grandi differenze tra noi e l'Italia dei Valori». E, rivolto a Fabio Fazio: «Prenda il tema dell'integrazione e chieda a Di Pietro opinioni su questo: troverà cose molto lontane dall'alfabeto della cultura democratica di centrosinistra». Domanda del conduttore: «Allora è pentito di quell'alleanza?». Risposta del segretario del Pd: «No, perché Di Pietro aveva firmato il nostro programma».
Ora, delle due l'una: o Veltroni è ingenuo fino al punto di pensare che una firma apposta in calce ad un programma possa di colpo cancellare l'identità di un partito e del suo leader, oppure, ancora una volta, tenta una spericolata giravolta politica provando a far credere agli italiani che in realtà lui è fermo mentre sono gli altri a muoversi e cambiare posizione. Peccato che ormai il trucco non regga più. Poteva funzionare nelle prime settimane della legislatura, quando al solito Di Pietro barricadiero faceva da contraltare il Veltroni della «nuova stagione», quello che proponeva e perseguiva la civilizzazione dei rapporti tra maggioranza e opposizione. Ma ora, dopo le mille e una piroette del segretario del Pd (un giorno dialogante, l'altro guerreggiante; un giorno a braccetto con Silvio, l'altro con Tonino; un giorno di governo - ombra - e l'altro di lotta), tutti hanno ben compreso che Walter non sa proprio che pesci pigliare e che il numero dei suoi riposizionamenti è inversamente proporzionale a quello delle sue certezze in materia di linea politica.
Il risultato è che, mentre Veltroni annaspa, Di Pietro gongola. Mentre il Partito Democratico è ormai sceso nei sondaggi sotto la soglia del 30%, l'Italia dei Valori continua a veder aumentare i propri consensi. Insomma, quanto più il Pd è debole, tanto più l'Idv diventa forte e il suo leader può tranquillamente affondare il coltello nel burro dell'indecisionismo veltroniano: lo si vede in Abruzzo, dove Di Pietro ha già presentato il suo candidato alla presidenza della Regione mentre il Pd è ancora in alto mare, e lo si vede nelle piazze, dove in breve tempo l'ex pm ha fatto il pienone di firme per il referendum contro il lodo Alfano mentre l'ex sindaco di Roma sta ancora sudando sette camicie per radunare il suo elettorato e per dare un contenuto alla protesta del 25 ottobre. Morale della favola: Veltroni è impantanato mentre Di Pietro naviga col vento in poppa. E' l'inevitabile conseguenza della sciagurata alleanza dell'aprile scorso. Se veramente, come dice oggi il segretario del Pd, il connubio è finito, lo dimostri anche con i fatti, a partire dai nodi della Vigilanza Rai e della nomina del nuovo giudice della Corte Costituzionale. Di parole, da Veltroni, ne abbiamo sentito troppe. E contraddittorie.
Gianteo Bordero
A conti fatti, l'errore più grave che Walter Veltroni ha commesso nel suo anno alla guida del Partito Democratico è stata l'alleanza con Antonio Di Pietro. Oggi che i nodi di un matrimonio che «non s'aveva da fare» vengono inesorabilmente al pettine, con il proverbiale lancio degli stracci tra i due partner, la domanda che sorge spontanea è: «Caro Walter, chi te l'ha fatto fare?». L'impressione, infatti, è che quello tra Pd e Idv sia stato un connubio nel quale a guadagnarci sia stato, sin dall'inizio, soltanto uno dei contraenti: è grazie all'apparentamento con i Democratici che il partito di Di Pietro ha ottenuto un numero di parlamentari tale da consentire la formazione di gruppi autonomi sia alla Camera che al Senato; è grazie alla decisione di Veltroni di rifiutare l'alleanza con gli altri partiti della sinistra che l'ex pm ha potuto presentarsi, sin dal suo primo discorso tenuto a Montecitorio, come l'unico, vero oppositore al governo Berlusconi; è grazie alla mancanza di chiarezza programmatica e strategica del segretario del Pd che l'Italia dei Valori ha potuto, giorno dopo giorno, capitalizzare in termini di consenso il proprio radicalismo ideologico, il giustizialismo duro e puro, l'antiberlusconismo «senza se e senza ma».
Oggi, a sei mesi dall'inizio della legislatura, Veltroni scopre l'acqua calda e va a dire davanti alle telecamere di Che tempo che fa, come se niente fosse e come se non avesse responsabilità in materia, che «l'alleanza con Di Pietro è finita nel giorno in cui egli ha stracciato l'impegno di costituire un gruppo unico, perché, visto che aveva il numero dei parlamentari necessario per fare un gruppo in proprio, è venuto da noi e ha detto: "Quell'impegno preso non vale più"». Non domo, aggiunge: «Quando si va ai problemi di merito, si vedono grandi differenze tra noi e l'Italia dei Valori». E, rivolto a Fabio Fazio: «Prenda il tema dell'integrazione e chieda a Di Pietro opinioni su questo: troverà cose molto lontane dall'alfabeto della cultura democratica di centrosinistra». Domanda del conduttore: «Allora è pentito di quell'alleanza?». Risposta del segretario del Pd: «No, perché Di Pietro aveva firmato il nostro programma».
Ora, delle due l'una: o Veltroni è ingenuo fino al punto di pensare che una firma apposta in calce ad un programma possa di colpo cancellare l'identità di un partito e del suo leader, oppure, ancora una volta, tenta una spericolata giravolta politica provando a far credere agli italiani che in realtà lui è fermo mentre sono gli altri a muoversi e cambiare posizione. Peccato che ormai il trucco non regga più. Poteva funzionare nelle prime settimane della legislatura, quando al solito Di Pietro barricadiero faceva da contraltare il Veltroni della «nuova stagione», quello che proponeva e perseguiva la civilizzazione dei rapporti tra maggioranza e opposizione. Ma ora, dopo le mille e una piroette del segretario del Pd (un giorno dialogante, l'altro guerreggiante; un giorno a braccetto con Silvio, l'altro con Tonino; un giorno di governo - ombra - e l'altro di lotta), tutti hanno ben compreso che Walter non sa proprio che pesci pigliare e che il numero dei suoi riposizionamenti è inversamente proporzionale a quello delle sue certezze in materia di linea politica.
Il risultato è che, mentre Veltroni annaspa, Di Pietro gongola. Mentre il Partito Democratico è ormai sceso nei sondaggi sotto la soglia del 30%, l'Italia dei Valori continua a veder aumentare i propri consensi. Insomma, quanto più il Pd è debole, tanto più l'Idv diventa forte e il suo leader può tranquillamente affondare il coltello nel burro dell'indecisionismo veltroniano: lo si vede in Abruzzo, dove Di Pietro ha già presentato il suo candidato alla presidenza della Regione mentre il Pd è ancora in alto mare, e lo si vede nelle piazze, dove in breve tempo l'ex pm ha fatto il pienone di firme per il referendum contro il lodo Alfano mentre l'ex sindaco di Roma sta ancora sudando sette camicie per radunare il suo elettorato e per dare un contenuto alla protesta del 25 ottobre. Morale della favola: Veltroni è impantanato mentre Di Pietro naviga col vento in poppa. E' l'inevitabile conseguenza della sciagurata alleanza dell'aprile scorso. Se veramente, come dice oggi il segretario del Pd, il connubio è finito, lo dimostri anche con i fatti, a partire dai nodi della Vigilanza Rai e della nomina del nuovo giudice della Corte Costituzionale. Di parole, da Veltroni, ne abbiamo sentito troppe. E contraddittorie.
Gianteo Bordero
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mercoledì 11 giugno 2008
IL PENDOLO DI VELTRONI
da Ragionpolitica.it del 10 giugno 2008
Chi è il capo dell'opposizione? Walter Veltroni o Tonino Di Pietro? La domanda sorge spontanea dopo aver letto le dichiarazioni con cui il segretario del Partito Democratico ha definito «grave» e «sbagliato» un provvedimento del governo che limitasse l'uso delle intercettazioni telefoniche nelle indagini giudiziarie e la divulgazione delle stesse a mezzo stampa. Si tratta di un cambio di rotta repentino da parte di Veltroni: basti pensare che nel programma con cui il Pd si è presentato agli elettori si affermava che «il divieto assoluto di pubblicazione di tutta la documentazione relativa alle intercettazioni e delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misura cautelare fino al termine dell'udienza preliminare, e delle indagini, serve a tutelare i diritti fondamentali del cittadino e le stesse indagini, che risultano spesso compromesse dalla divulgazione indebita di atti processuali. E' necessario individuare nel Pubblico Ministero il responsabile della custodia degli atti, ridurre drasticamente il numero dei centri di ascolto e determinare sanzioni penali e amministrative molto più severe delle attuali, per renderle tali da essere un'efficace deterrenza alla violazione di diritti costituzionalmente tutelati».
Proposte di buon senso, queste, contenute già, peraltro, nel cosiddetto «ddl Mastella» approvato all'unanimità dalla Camera dei deputati il 17 aprile 2007 e rimasto poi in giacenza al Senato fino alla caduta del governo Prodi. Il ddl prevedeva, tra le altre cose, che fosse vietata «la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e degli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati riguardanti il traffico telefonico o telematico, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare»; che «i documenti che contengono dati inerenti a conversazioni o comunicazioni, telefoniche, informatiche o telematiche, illecitamente formati o acquisiti e i documenti redatti attraverso la raccolta illecita di informazioni non possono essere acquisiti al procedimento né in alcun modo utilizzati, tranne che come corpo del reato»; che «i nominativi o i riferimenti indicativi di soggetti estranei alle indagini devono essere espunti dalle trascrizioni delle registrazioni. A meno che questo non ostacoli l'accertamento dei fatti esaminati dall'indagine».
Che cosa ha spinto, dunque, Veltroni ad assumere una posizione così intransigente nei confronti dell'annunciato disegno di legge del governo Berlusconi sulle intercettazioni? Che cosa lo ha portato ad affermare che l'esecutivo vuole «impedire ai magistrati di indagare»? Che cosa lo ha indotto ad accodarsi ai toni da crociata giustizialista usati da Antonio Di Pietro, il quale ha parlato di «progetto criminogeno» del governo? Per rispondere a tali domande occorre partire proprio dal cambio di posizione del leader del Pd, che rivela una sorta di schizofrenia politica indice di nervosismo, di debolezza e di incertezza in merito alla strategia di opposizione da perseguire tanto nelle aule parlamentari quanto di fronte al paese. Quello che ne risulta è il continuo oscillare di Veltroni tra il dialogo sulle riforme con l'esecutivo e l'antagonismo antiberlusconiano duro e puro, rappresentato appunto da Di Pietro e dalla sua Italia dei Valori. Questo «pendolarismo» veltroniano dimostra che il Partito Democratico non ha ancora trovato la strada da percorrere e che, a fronte di un governo forte e che incontra il gradimento di un numero sempre crescente di italiani (come dimostrato, da ultimo, da un sondaggio apparso ieri su Repubblica.it), vi è una opposizione ancora in cerca d'autore - un dato, questo, che contribuisce a lasciare campo libero alle scorribande giustizialiste dell'ex pm di Mani Pulite.
Che al Pd manchi una elaborazione politica degna di tal nome è confermato anche dai crescenti mal di pancia interni nei confronti della segreteria veltroniana, tra cui quelli pubblicamente manifestati da Rosy Bindi qualche giorno fa. Perciò, per mettersi al riparo dalle critiche che sempre più copiose piovono su di lui, con molti notabili del partito che lo accusano di non sapere mettere in campo efficaci iniziative di opposizione, Veltroni ha scelto, almeno per il momento, di mostrare i denti e di presentarsi con il volto dell'antiberlusconismo senza se e senza ma, rigettando in blocco gli ultimi provvedimenti annunciati dal governo e mettendo in stand-by il dialogo con la maggioranza. Ma è, questa, una mera scelta tattica, destinata a lasciare il tempo che trova: il segretario del Pd si limita a spostare in avanti, a data da destinarsi, la soluzione delle questioni politiche sul tappeto. Senza una strategia di lungo periodo, presto o tardi il pendolo veltroniano riprenderà a oscillare.
Gianteo Bordero
Chi è il capo dell'opposizione? Walter Veltroni o Tonino Di Pietro? La domanda sorge spontanea dopo aver letto le dichiarazioni con cui il segretario del Partito Democratico ha definito «grave» e «sbagliato» un provvedimento del governo che limitasse l'uso delle intercettazioni telefoniche nelle indagini giudiziarie e la divulgazione delle stesse a mezzo stampa. Si tratta di un cambio di rotta repentino da parte di Veltroni: basti pensare che nel programma con cui il Pd si è presentato agli elettori si affermava che «il divieto assoluto di pubblicazione di tutta la documentazione relativa alle intercettazioni e delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misura cautelare fino al termine dell'udienza preliminare, e delle indagini, serve a tutelare i diritti fondamentali del cittadino e le stesse indagini, che risultano spesso compromesse dalla divulgazione indebita di atti processuali. E' necessario individuare nel Pubblico Ministero il responsabile della custodia degli atti, ridurre drasticamente il numero dei centri di ascolto e determinare sanzioni penali e amministrative molto più severe delle attuali, per renderle tali da essere un'efficace deterrenza alla violazione di diritti costituzionalmente tutelati».
Proposte di buon senso, queste, contenute già, peraltro, nel cosiddetto «ddl Mastella» approvato all'unanimità dalla Camera dei deputati il 17 aprile 2007 e rimasto poi in giacenza al Senato fino alla caduta del governo Prodi. Il ddl prevedeva, tra le altre cose, che fosse vietata «la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e degli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati riguardanti il traffico telefonico o telematico, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare»; che «i documenti che contengono dati inerenti a conversazioni o comunicazioni, telefoniche, informatiche o telematiche, illecitamente formati o acquisiti e i documenti redatti attraverso la raccolta illecita di informazioni non possono essere acquisiti al procedimento né in alcun modo utilizzati, tranne che come corpo del reato»; che «i nominativi o i riferimenti indicativi di soggetti estranei alle indagini devono essere espunti dalle trascrizioni delle registrazioni. A meno che questo non ostacoli l'accertamento dei fatti esaminati dall'indagine».
Che cosa ha spinto, dunque, Veltroni ad assumere una posizione così intransigente nei confronti dell'annunciato disegno di legge del governo Berlusconi sulle intercettazioni? Che cosa lo ha portato ad affermare che l'esecutivo vuole «impedire ai magistrati di indagare»? Che cosa lo ha indotto ad accodarsi ai toni da crociata giustizialista usati da Antonio Di Pietro, il quale ha parlato di «progetto criminogeno» del governo? Per rispondere a tali domande occorre partire proprio dal cambio di posizione del leader del Pd, che rivela una sorta di schizofrenia politica indice di nervosismo, di debolezza e di incertezza in merito alla strategia di opposizione da perseguire tanto nelle aule parlamentari quanto di fronte al paese. Quello che ne risulta è il continuo oscillare di Veltroni tra il dialogo sulle riforme con l'esecutivo e l'antagonismo antiberlusconiano duro e puro, rappresentato appunto da Di Pietro e dalla sua Italia dei Valori. Questo «pendolarismo» veltroniano dimostra che il Partito Democratico non ha ancora trovato la strada da percorrere e che, a fronte di un governo forte e che incontra il gradimento di un numero sempre crescente di italiani (come dimostrato, da ultimo, da un sondaggio apparso ieri su Repubblica.it), vi è una opposizione ancora in cerca d'autore - un dato, questo, che contribuisce a lasciare campo libero alle scorribande giustizialiste dell'ex pm di Mani Pulite.
Che al Pd manchi una elaborazione politica degna di tal nome è confermato anche dai crescenti mal di pancia interni nei confronti della segreteria veltroniana, tra cui quelli pubblicamente manifestati da Rosy Bindi qualche giorno fa. Perciò, per mettersi al riparo dalle critiche che sempre più copiose piovono su di lui, con molti notabili del partito che lo accusano di non sapere mettere in campo efficaci iniziative di opposizione, Veltroni ha scelto, almeno per il momento, di mostrare i denti e di presentarsi con il volto dell'antiberlusconismo senza se e senza ma, rigettando in blocco gli ultimi provvedimenti annunciati dal governo e mettendo in stand-by il dialogo con la maggioranza. Ma è, questa, una mera scelta tattica, destinata a lasciare il tempo che trova: il segretario del Pd si limita a spostare in avanti, a data da destinarsi, la soluzione delle questioni politiche sul tappeto. Senza una strategia di lungo periodo, presto o tardi il pendolo veltroniano riprenderà a oscillare.
Gianteo Bordero
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venerdì 16 maggio 2008
DI PIETRO VA ALLA GUERRA
da Ragionpolitica.it del 16 maggio 2008
Più che una dichiarazione di voto sulla fiducia ad un governo, quella pronunciata ieri alla Camera da Antonio Di Pietro aveva tutta l'aria di una dichiarazione di guerra. L'ex pm di Mani Pulite ha indossato nuovamente la toga per la sua arringa contro il nemico di sempre, facendo risuonare nell'aula di Montecitorio non le parole di un ragionamento politico, ma le accuse più svariate (le solite, già ascoltate mille volte) nei confronti di Berlusconi. «Conosciamo bene - ha detto il leader dell'Italia dei Valori rivolgendosi al presidente del Consiglio - la sua storia personale e giudiziaria e quella dei tanti dipendenti e sodali che si è portato in parlamento con sé a titolo di ringraziamento per i favori e le omertà di cui si sono resi complici... Conosciamo bene la tela sul controllo dell'informazione e sul sistema di disinformazione che ha messo in piedi». E ancora: «Lei odia i giudici indipendenti che fanno il loro dovere, a lei quei giudici fanno orrore! Lei vuole solo una giustizia forte con i deboli e debole con i forti! Lei vuole solo una giustizia che fa comodo a lei, una giustizia a suo uso e consumo, e quando non le basta si fa le leggi apposta per fare in modo che la giustizia funzioni come dice lei... Lei è in conflitto di interesse con se stesso e nulla vuole fare per risolverlo». E si potrebbe continuare...
Parla dunque Di Pietro, ma sembra di ascoltare Marco Travaglio o Michele Santoro, o Paolo Flores D'Arcais, i paladini dell'antiberlusconismo militante, gli irriducibili dell'odio contro il Cavaliere, quelli che, da quindici anni a questa parte, ritengono che egli non debba essere affrontato e sconfitto con argomenti politici, ma attraverso l'uso politico della giustizia, facendo tintinnare le manette (o le monetine) come nel '93 - l'anno d'oro del giustizialismo made in Italy. Poco importa se Berlusconi è stato assolto in tutti i processi che lo hanno visto coinvolto, se tutta la lunga serie delle accuse rivoltegli si è rivelata priva di fondamento. L'importante, per Di Pietro & CO., è ripetere ossessivamente, fino alla nausea, tutti i teoremi che per più di un decennio hanno intorbidato il clima politico e sociale del paese, impedendo che si giungesse alla maturazione di un bipolarismo non più guerreggiato in nome dell'odio contro una sola persona, ma giocato attorno al confronto tra programmi, idee e progetti per il governo del sistema-Italia.
Ora che questa maturazione ha ricevuto una significativa accelerazione grazie all'iniziativa di legittimazione reciproca portata avanti da Walter Veltroni e Silvio Berlusconi - una legittimazione definitivamente sancita nei due giorni di dibattito sulla fiducia alla Camera dei Deputati - a Di Pietro non resta che inasprire ancora di più i toni, smettendo i panni istituzionali (del ministro delle Infrastrutture prima ed ora del parlamentare) per tornare a vestire quella toga che tanta fortuna gli ha garantito a partire dalle inchieste di Mani Pulite. Così il fondatore dell'Italia dei Valori sceglie di presentarsi come il vero, unico oppositore di Berlusconi e del centrodestra: «Da oggi - ha affermato durante il suo intervento a Montecitorio - esiste ed esisterà un'opposizione forte, decisa e senza compromessi: quella dell'Italia dei Valori... Noi crediamo che lei abbia fatto e si sia messo a fare politica per i suoi interessi personali e giudiziari; è questa la verità che non ci toglie nessuno. Noi non le diamo la fiducia».
Parole, queste pronunciate da Di Pietro, che mostrano come la sua strategia punti non soltanto alla delegittimazione dell'avversario politico, ma anche a erodere consensi al Partito Democratico, che ha scelto (lo testimoniano gli interventi di Piero Fassino e Walter Veltroni alla Camera) di percorrere fino in fondo la strada del dialogo con il nuovo governo, ponendo fine a quella sorta di «guerra civile» che ha contraddistinto i rapporti tra gli schieramenti politici negli anni passati. Ora che la sinistra antagonista è rimasta fuori dalle aule parlamentari, l'ex pm ha scelto di rappresentare lui l'opposizione radicale al centrodestra berlusconiano, non più - come accadeva con Rifondazione, i Verdi e i Comunisti Italiani - in termini ideologici, ma in quelli di pura contestazione giustizialista della legittimità politica di Berlusconi e delle forze che lo sostengono. In questo senso, oggi è proprio l'Italia dei Valori la vera forza anti-sistema del panorama politico italiano. Un problema che investe anche il Partito Democratico - alleato di Di Pietro nella competizione elettorale del 13 e 14 aprile - e la definizione della sua strategia politica per gli anni a venire.
Gianteo Bordero
Più che una dichiarazione di voto sulla fiducia ad un governo, quella pronunciata ieri alla Camera da Antonio Di Pietro aveva tutta l'aria di una dichiarazione di guerra. L'ex pm di Mani Pulite ha indossato nuovamente la toga per la sua arringa contro il nemico di sempre, facendo risuonare nell'aula di Montecitorio non le parole di un ragionamento politico, ma le accuse più svariate (le solite, già ascoltate mille volte) nei confronti di Berlusconi. «Conosciamo bene - ha detto il leader dell'Italia dei Valori rivolgendosi al presidente del Consiglio - la sua storia personale e giudiziaria e quella dei tanti dipendenti e sodali che si è portato in parlamento con sé a titolo di ringraziamento per i favori e le omertà di cui si sono resi complici... Conosciamo bene la tela sul controllo dell'informazione e sul sistema di disinformazione che ha messo in piedi». E ancora: «Lei odia i giudici indipendenti che fanno il loro dovere, a lei quei giudici fanno orrore! Lei vuole solo una giustizia forte con i deboli e debole con i forti! Lei vuole solo una giustizia che fa comodo a lei, una giustizia a suo uso e consumo, e quando non le basta si fa le leggi apposta per fare in modo che la giustizia funzioni come dice lei... Lei è in conflitto di interesse con se stesso e nulla vuole fare per risolverlo». E si potrebbe continuare...
Parla dunque Di Pietro, ma sembra di ascoltare Marco Travaglio o Michele Santoro, o Paolo Flores D'Arcais, i paladini dell'antiberlusconismo militante, gli irriducibili dell'odio contro il Cavaliere, quelli che, da quindici anni a questa parte, ritengono che egli non debba essere affrontato e sconfitto con argomenti politici, ma attraverso l'uso politico della giustizia, facendo tintinnare le manette (o le monetine) come nel '93 - l'anno d'oro del giustizialismo made in Italy. Poco importa se Berlusconi è stato assolto in tutti i processi che lo hanno visto coinvolto, se tutta la lunga serie delle accuse rivoltegli si è rivelata priva di fondamento. L'importante, per Di Pietro & CO., è ripetere ossessivamente, fino alla nausea, tutti i teoremi che per più di un decennio hanno intorbidato il clima politico e sociale del paese, impedendo che si giungesse alla maturazione di un bipolarismo non più guerreggiato in nome dell'odio contro una sola persona, ma giocato attorno al confronto tra programmi, idee e progetti per il governo del sistema-Italia.
Ora che questa maturazione ha ricevuto una significativa accelerazione grazie all'iniziativa di legittimazione reciproca portata avanti da Walter Veltroni e Silvio Berlusconi - una legittimazione definitivamente sancita nei due giorni di dibattito sulla fiducia alla Camera dei Deputati - a Di Pietro non resta che inasprire ancora di più i toni, smettendo i panni istituzionali (del ministro delle Infrastrutture prima ed ora del parlamentare) per tornare a vestire quella toga che tanta fortuna gli ha garantito a partire dalle inchieste di Mani Pulite. Così il fondatore dell'Italia dei Valori sceglie di presentarsi come il vero, unico oppositore di Berlusconi e del centrodestra: «Da oggi - ha affermato durante il suo intervento a Montecitorio - esiste ed esisterà un'opposizione forte, decisa e senza compromessi: quella dell'Italia dei Valori... Noi crediamo che lei abbia fatto e si sia messo a fare politica per i suoi interessi personali e giudiziari; è questa la verità che non ci toglie nessuno. Noi non le diamo la fiducia».
Parole, queste pronunciate da Di Pietro, che mostrano come la sua strategia punti non soltanto alla delegittimazione dell'avversario politico, ma anche a erodere consensi al Partito Democratico, che ha scelto (lo testimoniano gli interventi di Piero Fassino e Walter Veltroni alla Camera) di percorrere fino in fondo la strada del dialogo con il nuovo governo, ponendo fine a quella sorta di «guerra civile» che ha contraddistinto i rapporti tra gli schieramenti politici negli anni passati. Ora che la sinistra antagonista è rimasta fuori dalle aule parlamentari, l'ex pm ha scelto di rappresentare lui l'opposizione radicale al centrodestra berlusconiano, non più - come accadeva con Rifondazione, i Verdi e i Comunisti Italiani - in termini ideologici, ma in quelli di pura contestazione giustizialista della legittimità politica di Berlusconi e delle forze che lo sostengono. In questo senso, oggi è proprio l'Italia dei Valori la vera forza anti-sistema del panorama politico italiano. Un problema che investe anche il Partito Democratico - alleato di Di Pietro nella competizione elettorale del 13 e 14 aprile - e la definizione della sua strategia politica per gli anni a venire.
Gianteo Bordero
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martedì 13 maggio 2008
IL TRAVAGLIO DELL'OPPOSIZIONE
da Ragionpolitica.it del 13 maggio 2008
Mentre il Partito Democratico e la Sinistra Arcobaleno si leccano le ferite del dopo voto cercando di progettare una strategia di sopravvivenza politica - il primo dai banchi del parlamento, la seconda nel chiuso delle segreterie di partito -, a dare voce all'opposizione al centrodestra e al nuovo assetto istituzionale rimangono, sempre identiche a se stesse, le truppe d'assalto dell'antiberlusconismo fazioso e militante. Ecco allora che Marco Travaglio, davanti alle telecamere di Che tempo che fa, su Rai 3, tira fuori dal cilindro magico della più bolsa retorica manipulitesca la nuova, strabiliante accusa nei confronti di un esponente del Pdl: il neo presidente del Senato, Renato Schifani. Il quale, secondo Travaglio, «ha avuto rapporti con persone poi condannate per mafia». Il teorema che si vuole divulgare è sempre il solito, trito e ritrito: Berlusconi, il suo partito e i suoi uomini di fiducia sono espressione di un potere colluso con la malavita organizzata, sono il braccio politico della mafia, ne curano gli interessi dai palazzi romani. Come di consueto quando si ha a che fare con Travaglio, si tratta di pure teorie non suffragate da prove, insinuazioni infamanti e capi d'accusa campati per aria - sullo «stile Travaglio» ha scritto un bell'articolo Filippo Facci su Il Giornale di ieri.
Quello che qui ci preme sottolineare, oltre all'ennesimo episodio di disservizio pubblico offerto dalla tv di Stato e, in particolare, dalla terza rete - il consigliere d'Amministrazione Rai Angelo Maria Petroni ha parlato di «uno dei momenti più bassi nella storia dell'azienda» -, è il dato della debolezza dell'opposizione «ufficiale» (parlamentare e politica) al centrodestra. Un'opposizione talmente malconcia, stordita e afona, dopo il voto del 13 e 14 aprile, da lasciare che siano i vari Travaglio, Grillo & Santoro ad assurgere a protagonisti assoluti della scena e ad organizzare nelle piazze (reali, virtuali e mediatiche), e quindi al di fuori delle sedi istituzionali, l'alternativa a Berlusconi e alle forze che lo sostengono. Certo, bisogna registrare con favore le prese di posizione critiche provenienti dal Partito Democratico in merito alle dichiarazioni di Travaglio, da quella di Renzo Lusetti a quella della capogruppo al Senato, Anna Finocchiaro, tutte segno di un significativo cambio di rotta rispetto all'antiberlusconismo di maniera a cui, negli anni scorsi, anche gli esponenti dell'allora Margherita e dell'allora Ds ci avevano abituato. Ma le dichiarazioni estemporanee non bastano: da un'opposizione degna di tal nome ci si attende l'elaborazione di una linea politica chiara, organica e coerente in materia di informazione, giustizia e garanzie a tutela dei rappresentanti delle istituzioni. Una linea politica che, a tutt'oggi, si fa fatica ad intravedere dalle parti del loft veltroniano.
Uno degli effetti collaterali di tale debolezza politica dell'opposizione «ufficiale» è il rischio, più che concreto, che anche tra le forze politiche alternative al centrodestra, e presenti in parlamento, a dettar legge siano quelle che, abilmente, si accodano alle crociate giustizialiste di Travaglio & CO. per trarne vantaggio in termini di consenso: una su tutte, l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Il quale - guarda caso - è stato l'unico, tra i leader dei partiti rappresentati alle Camere, a manifestare la propria solidarietà a Travaglio dopo la puntata di Che tempo che fa di sabato scorso. L'ex pm di Mani Pulite, dopo il buon risultato ottenuto il 13 e 14 aprile, punta a capitalizzare ulteriormente il suo sostegno ai guru dell'antipolitica, con una strategia spicciola, del giorno per giorno, ma sicuramente efficace - almeno nell'immediato: da qui la sua scelta di non aderire, rinnegando quanto affermato prima del voto, ai gruppi parlamentari del Partito Democratico e di fare cammino in solitaria nella sedicesima legislatura. Anche qui viene a galla un altro degli errori politici e strategici del Pd, che prima delle elezioni ha cercato di «usare» Di Pietro per essere competitivo col centrodestra e che ora scopre di essere stato «usato» da lui come cavallo di Troia per ottenere un buon numero di parlamentari, tale da garantire l'autosufficienza per formare un gruppo tanto a Montecitorio quanto a Palazzo Madama. Veltroni e i suoi, come si suol dire, «andarono per suonare e tornarono suonati». In molti si augurano che, d'ora in poi, la musica cambi dalle parti dell'opposizione.
Gianteo Bordero
Mentre il Partito Democratico e la Sinistra Arcobaleno si leccano le ferite del dopo voto cercando di progettare una strategia di sopravvivenza politica - il primo dai banchi del parlamento, la seconda nel chiuso delle segreterie di partito -, a dare voce all'opposizione al centrodestra e al nuovo assetto istituzionale rimangono, sempre identiche a se stesse, le truppe d'assalto dell'antiberlusconismo fazioso e militante. Ecco allora che Marco Travaglio, davanti alle telecamere di Che tempo che fa, su Rai 3, tira fuori dal cilindro magico della più bolsa retorica manipulitesca la nuova, strabiliante accusa nei confronti di un esponente del Pdl: il neo presidente del Senato, Renato Schifani. Il quale, secondo Travaglio, «ha avuto rapporti con persone poi condannate per mafia». Il teorema che si vuole divulgare è sempre il solito, trito e ritrito: Berlusconi, il suo partito e i suoi uomini di fiducia sono espressione di un potere colluso con la malavita organizzata, sono il braccio politico della mafia, ne curano gli interessi dai palazzi romani. Come di consueto quando si ha a che fare con Travaglio, si tratta di pure teorie non suffragate da prove, insinuazioni infamanti e capi d'accusa campati per aria - sullo «stile Travaglio» ha scritto un bell'articolo Filippo Facci su Il Giornale di ieri.
Quello che qui ci preme sottolineare, oltre all'ennesimo episodio di disservizio pubblico offerto dalla tv di Stato e, in particolare, dalla terza rete - il consigliere d'Amministrazione Rai Angelo Maria Petroni ha parlato di «uno dei momenti più bassi nella storia dell'azienda» -, è il dato della debolezza dell'opposizione «ufficiale» (parlamentare e politica) al centrodestra. Un'opposizione talmente malconcia, stordita e afona, dopo il voto del 13 e 14 aprile, da lasciare che siano i vari Travaglio, Grillo & Santoro ad assurgere a protagonisti assoluti della scena e ad organizzare nelle piazze (reali, virtuali e mediatiche), e quindi al di fuori delle sedi istituzionali, l'alternativa a Berlusconi e alle forze che lo sostengono. Certo, bisogna registrare con favore le prese di posizione critiche provenienti dal Partito Democratico in merito alle dichiarazioni di Travaglio, da quella di Renzo Lusetti a quella della capogruppo al Senato, Anna Finocchiaro, tutte segno di un significativo cambio di rotta rispetto all'antiberlusconismo di maniera a cui, negli anni scorsi, anche gli esponenti dell'allora Margherita e dell'allora Ds ci avevano abituato. Ma le dichiarazioni estemporanee non bastano: da un'opposizione degna di tal nome ci si attende l'elaborazione di una linea politica chiara, organica e coerente in materia di informazione, giustizia e garanzie a tutela dei rappresentanti delle istituzioni. Una linea politica che, a tutt'oggi, si fa fatica ad intravedere dalle parti del loft veltroniano.
Uno degli effetti collaterali di tale debolezza politica dell'opposizione «ufficiale» è il rischio, più che concreto, che anche tra le forze politiche alternative al centrodestra, e presenti in parlamento, a dettar legge siano quelle che, abilmente, si accodano alle crociate giustizialiste di Travaglio & CO. per trarne vantaggio in termini di consenso: una su tutte, l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Il quale - guarda caso - è stato l'unico, tra i leader dei partiti rappresentati alle Camere, a manifestare la propria solidarietà a Travaglio dopo la puntata di Che tempo che fa di sabato scorso. L'ex pm di Mani Pulite, dopo il buon risultato ottenuto il 13 e 14 aprile, punta a capitalizzare ulteriormente il suo sostegno ai guru dell'antipolitica, con una strategia spicciola, del giorno per giorno, ma sicuramente efficace - almeno nell'immediato: da qui la sua scelta di non aderire, rinnegando quanto affermato prima del voto, ai gruppi parlamentari del Partito Democratico e di fare cammino in solitaria nella sedicesima legislatura. Anche qui viene a galla un altro degli errori politici e strategici del Pd, che prima delle elezioni ha cercato di «usare» Di Pietro per essere competitivo col centrodestra e che ora scopre di essere stato «usato» da lui come cavallo di Troia per ottenere un buon numero di parlamentari, tale da garantire l'autosufficienza per formare un gruppo tanto a Montecitorio quanto a Palazzo Madama. Veltroni e i suoi, come si suol dire, «andarono per suonare e tornarono suonati». In molti si augurano che, d'ora in poi, la musica cambi dalle parti dell'opposizione.
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lunedì 18 febbraio 2008
E Walter imbarcò Di Pietro...
di Gianteo Bordero
di Gianteo Bordero
da "Ragionpolitica.it" del 16 febbraio 2008
Dicono di rappresentare il nuovo, ma poi imbarcano il vecchio. Promettono di andar da soli alle elezioni, ma poi iniziano ad allearsi con gli stessi «nanetti» che fino a ieri consideravano come la sciagura del sistema politico italiano. Il Partito Democratico e il suo segretario, Walter Veltroni, dopo aver annunciato ai quattro venti la rupture con la «larghissima» Unione prodiana del 2006, hanno deciso di stringere...CONTINUA...
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mercoledì 24 ottobre 2007
Clemente all'angolo
di Gianteo Bordero
di Gianteo Bordero
da "Ragionpolitica.it" del 23 ottobre 2007
«Il mio impegno, e quello di tutto il governo, sarà rivolto in primo luogo al recupero di un clima di serena distensione sui temi della giustizia, che segni l'inizio di una nuova stagione in cui lo spirito di "leale collaborazione" fra tutte le istituzioni democratiche alimenti le dinamiche riformatrici e la stessa amministrazione della giustizia». Così parlò, l'8 giugno 2006, Clemente Mastella da Ceppaloni nel suo primo intervento...CONTINUA...
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