giovedì 25 febbraio 2010

SESTRI LEVANTE. IL CENTROSINISTRA DICE “NO” ALL’INTITOLAZIONE DI UNA VIA CITTADINA IN RICORDO DELLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE
GRUPPO CONSILIARE “IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – LEGA NORD”


COMUNICATO STAMPA DEL 25 FEBBRAIO 2010


Nella seduta di Consiglio Comunale del 24 febbraio, la maggioranza di centrosinistra ha respinto un nostro ordine del giorno, presentato quattro mesi fa, con il quale chiedevamo l’intitolazione di una via, strada o piazza di Sestri Levante al 9 novembre, in ricordo del giorno della caduta del muro di Berlino. Altri Comuni liguri, di cui alcuni amministrati dal centrosinistra, un identico ordine del giorno lo avevano approvato quasi all’unanimità nei mesi scorsi.

Invece a Sestri succede, nel totale e imbarazzante silenzio della componente centrista della maggioranza, ormai ridotta ad un evidente stato di ininfluenza politica, che a dettare la linea siano i nostalgici del brutto tempo che fu: quegli esponenti post (?) comunisti del Partito Democratico che non hanno mai fatto i conti fino in fondo con la tragica storia dei regimi dell’Est europeo: una storia fatta di milioni di morti, di torture, soprusi di ogni genere, massacri, processi sommari, privazione delle più elementari libertà, miseria, negazione della dignità della persona. Una storia infame, una vergogna intollerabile per chiunque abbia a cuore il primato della persona e della sua libertà.

Ci aspettavamo di sentire dalla maggioranza consiliare qualche coraggiosa parola di verità storica. Una parola che, purtroppo, non è arrivata: evidentemente in alcuni consiglieri del centrosinistra pesa ancora il fatto di essere stati dalla parte sbagliata della storia per tanti anni, di aver visto sciogliersi come neve al sole - sotto la spinta dei popoli dell’Est e di grandi guide politiche e spirituali come il presidente americano Reagan e l’indimenticato Papa Giovanni Paolo II – quei regimi un tempo ritenuti dalla sinistra italiana un modello da imitare.

Il punto più basso della discussione è stato toccato quando il sindaco Lavarello è arrivato a mettere sullo stesso piano il muro di Berlino (simbolo dell’oppressione di un popolo intero e della totale negazione della libertà) e il muro costruito negli anni scorsi dallo Stato d’Israele ai confini con la Palestina (simbolo della difesa della vita e della libertà dei cittadini israeliani dagli attacchi terroristici dei kamikaze palestinesi nemici della vita e della libertà). In sostanza, dobbiamo dedurne che per il sindaco lo Stato d’Israele, democratico e liberale, è assimilabile al regime comunista della Germania Est, totalitario e comunista. Non ci sono veramente parole per commentare simili prese di posizione. Il centrosinistra, anzi la sinistra-centro di Sestri Levante ha perso un’altra occasione per dimostrare che ai tanti cambiamenti di nome (Pci-Pds-Ds-Pd) è corrisposto un reale cambiamento politico e culturale.


Gianteo Bordero (capogruppo)

Marco Conti
Giancarlo Stagnaro

mercoledì 24 febbraio 2010

NON È UNA NUOVA TANGENTOPOLI. MA QUALCUNO VORREBBE CHE LO FOSSE

da Ragionpolitica.it del 24 febbraio 2010

Come hanno chiarito in questi giorni il presidente del Consiglio, il presidente della Camera e il presidente del Senato, non siamo in presenza di una nuova Tangentopoli: oggi il finanziamento ai partiti politici, non più strutturati in maniera capillare come ai tempi della Prima Repubblica, avviene essenzialmente attraverso il meccanismo del rimborso pubblico per le cosiddette «spese elettorali», e in parte attraverso erogazioni liberali, cioè donazioni private disciplinate dalla legge. Al di fuori di tutto ciò - per usare le parole del capogruppo del Pdl a Montecitorio, Fabrizio Cicchitto, «c'è solo affarismo o corruzioni individuali e di cordata». Punto e capo.


Eppure tira una brutta aria. Perché c'è chi - partiti d'opposizione, «grande stampa» antiberlusconiana, poteri non eletti più o meno forti - vorrebbe trasmettere al paese l'idea che siamo nuovamente di fronte ad un degrado e ad un malaffare politico sistemico, che coinvolgerebbe in primis chi attualmente tiene in mano le redini del governo. Giuseppe D'Avanzo, editorialista di punta de La Repubblica e storica bocca da fuoco contro il Cavaliere, lo dice a chiare lettere: «Siamo tornati al 1994. Con un salto all'indietro, siamo tornati alla casella di partenza». E ci vuol poco a immaginare di chi sia la colpa: se ogni limite etico è saltato - così pensa D'Avanzo - la responsabilità principale non può che essere di Berlusconi: «Il mito ideologico berlusconiano ha ritenuto le regole inutili o irrilevanti, soltanto legacci capaci di imbrigliare le energie vitali». E questo vale sia che si parli di corruzione politica e amministrativa sia che si parli di morale privata. Tant'è vero che fu lo stesso D'Avanzo a formulare le celeberrime «dieci domande» al premier sul caso Noemi.


Ma che dal giornale-partito di Scalfari e Mauro vengano certe battaglie al veleno e certe campagne di stampa non stupisce. E' la solita minestra riscaldata da sedici anni a questa parte. Discorso diverso è se a lanciarsi in invettive antigovernative qualunquiste e antipolitiche sono i rappresentanti dei poteri industriali e/o finanziari, o comunque espressione di un certo mondo «che conta». Si prenda, ad esempio, quanto ha dichiarato martedì il presidente della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo, durante l'inaugurazione della Luiss School of Government di Roma. L'ex capo di Confindustria ha addossato sulla politica la responsabilità di «non aver fatto riforme adeguate per far funzionare la macchina dello Stato» anche per ciò che riguarda la Pubblica Amministrazione, invocando «un'azione più efficiente e trasparente». A stretto giro di posta è arrivata la replica del ministro Brunetta, ma resta il fatto che Montezemolo, proprio nel giorno degli arresti per l'affaire Fastweb e in un periodo di tempeste giudiziarie come quella sulla Protezione Civile, abbia sferrato un attacco che non poteva passare inosservato, e che senz'altro ha contribuito ad alzare la temperatura del dibattito pubblico e ad accreditare, in sostanza, l'idea di un sistema marcio sin nelle sue fondamenta, come ai tempi di Tangentopoli.


Sempre rimanendo in zona Montezemolo e affini, qualche perplessità la fa sorgere pure l'atteggiamento del Corriere della Sera a partire dal momento in cui è venuta a galla la notizia dell'inchiesta sugli appalti legati ai grandi eventi gestiti dalla Protezione Civile: il quotidiano di via Solferino ha cavalcato la vicenda, per diversi giorni, con titoloni d'apertura, paginate di intercettazioni, ricostruzioni e presunti retroscena, come negli anni ruggenti della Procura milanese. Ha dato spazio a interviste nelle quali l'idea che sia in corso una nuova Tangentopoli è stata ossessivamente ripetuta come un mantra. E che dire ancora, per altro verso, di Pier Ferdinando Casini, anch'egli oggi impegnato ad annunciare ai quattro venti che «ci sono troppi ladri in politica» e che «la questione morale è riesplosa, divenendo un'emergenza nazionale»?


Ora, nessuno nega i casi di corruzione e di malaffare. Ma i precedenti (Mani Pulite in primo luogo) chiederebbero maggiore cautela nell'emettere sentenze mediatiche che potrebbero poi essere clamorosamente smentite dai verdetti dei tribunali. Invece l'impressione è che si voglia buttare tutto, e sùbito, dentro il calderone della «questione morale» e delle «ruberie». E chi non si accoda rischia di passare per complice o difensore dei ladri. Perciò la domanda sorge spontanea: perché sta prendendo forma una concentrazione di forze politiche, di poteri economici e delle loro appendici editoriali, che sta soffiando sul fuoco delle polemiche? Forse per far divampare un altro grande incendio di sistema come negli anni 1992-93? Ed è casuale che determinate indagini siano venute a galla proprio in un periodo di campagna elettorale? E c'entra qualcosa il fatto che, dopo le regionali di fine marzo, per tre anni non vi saranno appuntamenti elettorali di rilievo e quindi, superato questo scoglio, il governo potrebbe avere una navigazione tranquilla? Speriamo di sbagliare, ma l'impressione è che qualcuno voglia giocare al massacro e punti al «tanto peggio, tanto meglio» per fare piazza pulita di quel che resta del primato della politica nel nostro paese, oggi rappresentato da Berlusconi, dal suo governo e dal movimento popolare che egli ha suscitato.

Gianteo Bordero

lunedì 22 febbraio 2010

COSÌ I POST-COMUNISTI DELEGITTIMANO LA POLITICA

da Ragionpolitica.it del 22 febbraio 2010

La vicenda di Mani Pulite e l'uso che ne è stato fatto da parte della sinistra postcomunista italiana non hanno soltanto distrutto l'intero sistema dei partiti occidentali che avevano governato la tanto deprecata «Prima Repubblica» dal 1948 al 1993; hanno contribuito, soprattutto, alla delegittimazione della politica in quanto tale, come strumento di governo democratico della società e di composizione degli interessi presenti al suo interno. Se non si tiene conto di questo dato oggettivo non si riesce neppure a comprendere perché oggi, di fronte all'inchiesta della Procura di Firenze sulla gestione delle emergenze e dei grandi eventi da parte della Protezione Civile, la gauche nostrana tenti di mandare nuovamente in scena la desolante rappresentazione di una classe dirigente collusa con il malaffare e corrotta sin nei suoi più alti vertici istituzionali. Alla base di tale tentativo vi sono certamente, ancora una volta, la volontà di usare il clamore mediatico suscitato dalle indagini giudiziarie come leva per sovvertire il risultato determinato da libere elezioni e l'idea di stringere un patto d'acciaio con i poteri non eletti per instaurare un governo non politico, ma tecnocratico, del paese. La sinistra a corto di idee, di programmi e di leader - cioè di sostanza politica - si affida di nuovo al deus ex machina di qualche potere forte per riuscire a sbianchettare il voto degli italiani e prendere in mano le redini dell'esecutivo.


Ma c'è di più. Perché la critica da parte dell'ex Pci Bersani e dell'ex pm Di Pietro alla gestione della Protezione Civile mette a nudo la cattiva coscienza di coloro che, più di tutti, hanno tratto giovamento dalle conseguenze delle inchieste del 1992-93 e dalla condanna della politica in quanto tale. Se infatti si è giunti al punto di dover affidare alla struttura oggi guidata da Bertolaso competenze eccezionali per far fronte alle emergenze e per assicurare la buona riuscita di eventi di interesse nazionale, è proprio perché, nel corso degli ultimi sedici anni, abbiamo assistito alla destrutturazione sistematica dei poteri dello Stato (riforma del Titolo V della Costituzione) e perciò del governo da parte della sinistra. Una sinistra che, attraverso leggi come quelle ideate da Franco Bassanini, ha di fatto mandato al macero la tradizionale idea del primato della politica, assegnando ai funzionari, ai burocrati e ai dirigenti un ampio potere discrezionale, un tempo appannaggio degli eletti dal popolo. In nome del mito dell'inaffidabilità del politico e della probità del funzionario si è così via via spolpata la sostanza del governo democratico e del mandato popolare a realizzare le riforme necessarie all'ammodernamento del paese.


Le doglianze e le dichiarazioni scandalizzate rilasciate in questi giorni dai capi del centrosinistra rappresentano perciò il classico caso delle lacrime di coccodrillo, che piange dopo aver divorato le sue vittime. Per anni e anni le anime belle gauchiste hanno fatto a gara per privare di ogni autorità ed autorevolezza lo Stato e di ogni credibilità la nazione nel suo insieme. Hanno contribuito a svendere gran parte del patrimonio pubblico negli anni delle privatizzazioni selvagge degli anni Novanta. Hanno consegnato chiavi in mano a magistrati, media amici, banchieri e boiardi vari il cuore pulsante del potere. E ora si lamentano perché quello Stato e quel governo che essi hanno con sistematica solerzia fatto a pezzi devono far ricorso ai poteri speciali della Protezione Civile per intervenire laddove è in gioco la «faccia» del paese. Siamo veramente al culmine dell'ipocrisia. Non soltanto perché, come ha ben documentato la scorsa settimana Il Giornale, la stessa sinistra si è più volte servita della Protezione Civile nella gestione dei grandi eventi, ma anche e soprattutto perché, ancora una volta, i postcomunisti e i loro alleati giustizialisti giocano al massacro nascondendo sotto il tappeto la polvere delle loro gravi responsabilità storiche. Sperano di raccattare qualche voto in più, nell'immediato, cavalcando l'onda delle inchieste e dell'antipolitica, e continuano a non prendere atto che questa strategia - se così la possiamo chiamare - è la stessa che negli ultimi tre lustri li ha condotti in quello stato di profonda confusione e di crisi politica permanente da cui essi rischiano ancora oggi di essere stritolati.

Gianteo Bordero

mercoledì 17 febbraio 2010

I TEODEM DALLA PADELLA ALLA BRACE

da Ragionpolitica.it del 17 febbraio 2010

Dopo l'addio di Paola Binetti al Pd a causa della sua «deriva zapaterista», è chiaro quali siano i cattolici che ancora hanno diritto di cittadinanza all'interno del partito guidato da Bersani: i cari, vecchi e affidabili «cattolici democratici». Quelli che, desiderosi di dimostrare il loro non essere supini di fronte al magistero di Santa Romana Chiesa, si allineano senza difficoltà alle posizioni laiciste della sinistra sui temi sociali e soprattutto bioetici.


Sono i cattolici alla Dario Franceschini, che nel 2007, da capogruppo della Margherita alla Camera, scrisse una lettera ai vescovi per annunciare che sessanta parlamentari cattolici del centrosinistra non avrebbero seguito le indicazioni della CEI sulla questione del riconoscimento giuridico delle coppie di fatto. Sono i cattolici alla Rosy Bindi, che da ministro della Famiglia (sic!) del secondo governo Prodi si fece promotrice, sempre in tema di coppie di fatto, del famigerato disegno di legge denominato «DICO», poi decaduto per l'aut-aut di Clemente Mastella ma che, se approvato, avrebbe concesso alle unioni di fatto, anche omosessuali, i medesimi diritti - senza una previsione dei corrispettivi doveri - previsti per coloro che contraggono matrimonio. Sono, ancora, i cattolici alla Romano Prodi, che ai tempi del referendum sulla procreazione assistita (2005), a chi gli chiedeva se avrebbe osservato la linea astensionista promossa dall'allora presidente della Conferenza Episcopale, cardinale Camillo Ruini, rispose che lui era un «cattolico adulto» e che, come tale, sarebbe andato responsabilmente a votare - lasciando così intendere che coloro che fossero rimasti fedeli alle indicazioni della Chiesa avrebbero dovuto essere definiti «cattolici immaturi» o, per usare l'espressione coniata da Francesco Cossiga, «cattolici infanti».


Sono dunque questi - i Franceschini, le Bindi, i Prodi - i cattolici che possono ancora trovare spazio nel Pd. Tutti gli altri, cioè coloro che non vogliono abdicare alla mentalità radicale e laicista che ormai domina all'interno del centrosinistra, sono condannati alla totale minorità politica e culturale, trattati alla stregua di appestati da evitare ad ogni costo e messi alla gogna come servi del Vaticano o cose simili. E' quindi inevitabile che essi decidano, ad un certo punto, di levare il disturbo. Cercando di mettersi in proprio (come ha fatto Francesco Rutelli) o di accasarsi altrove (come hanno fatto Renzo Lusetti, Dorina Bianchi, Enzo Carra e oggi Paola Binetti, tutti passati all'Unione di Centro).


Ma se, da un lato, è certo che oggi esiste una «questione cattolica» grande come una montagna nel Pd, cioè in un partito che aveva fatto del connubio tra cattolici di sinistra e postcomunisti la sua stessa ragion d'essere, e se è altrettanto evidente che Pier Luigi Bersani non sembra in grado di dare una risposta credibile a tale questione, dall'altro lato occorre interrogarsi circa le reali prospettive aperte dall'approdo di gran parte dei suddetti «teodem» nell'Udc di Casini. Un primo elemento su cui riflettere lo fornisce il quotidiano della CEI, Avvenire, con un editoriale di Sergio Soave pubblicato martedì, nel quale si afferma che «c'è chi pensa che in questo modo si realizzi un progetto strategico attribuito a Bersani, quello di lasciare fuori dal partito i settori moderati e cattolici, per poi recuperarli "dall'esterno" con un'alleanza organica con l'Udc. Però - osserva giustamente Soave - è proprio sul terreno delle alleanze che si sono determinate le condizioni per l'abbandono di Binetti e di altri».


Ma occorre andare oltre e chiedersi, proprio in forza dei rilievi fatti propri dal giornale dei vescovi, se l'adesione dei «teodem» all'Unione di Centro non costituisca, nelle presenti circostanze, il classico caso di passaggio «dalla padella alla brace». Prendiamo ancora ad esempio la vicenda di Paola Binetti, la quale ha dichiarato che la goccia che ha fatto traboccare il vaso e l'ha spinta ad abbandonare il Pd è stata la scelta di Bersani di sostenere la radicale Bonino nella corsa per la presidenza alla Regione Lazio. Se le cose stanno davvero così, allora potremmo domandare alla Binetti che cosa ne pensi della decisione dell'Udc di allearsi in Piemonte con un'altra radicale senza se e senza ma, Mercedes Bresso, protagonista anch'ella di battaglie campali contro le posizioni espresse dai «teodem» (si veda, su tutte, la vicenda di Eluana Englaro). Non si capisce perché la presenza dei radicali venga usata a Roma come motivo per far le valigie ed andarsene dal Pd e invece a Torino venga tollerata in quanto scelta dal nuovo partito. Peraltro, sul «caso Piemonte» e sulla scelta di Casini di appoggiare la Bresso era stato lo stesso Avvenire ad usare qualche giorno fa parole molto dure, definendo tale scelta, sempre attraverso la penna di Sergio Soave, «contraddittoria» e ispirata da un mero «utilitarismo elettorale». Urgono chiarimenti.


Infine, è lecito nutrire più di un dubbio sul fatto che l'adesione all'Unione di Centro rappresenti oggi il modo migliore, per i «teodem», per difendere e tutelare i principi e i valori enunciati dalla dottrina sociale e morale della Chiesa. Innanzitutto perché, nell'attuale quadro bipolare, la «ridotta cattolica» centrista dell'Udc si trova, con il suo 6%, in una posizione fortemente minoritaria - cosa che espone il partito di Casini al rischio dell'ininfluenza. E poi perché, dopo la copiosa migrazione di suoi esponenti verso il Pdl nel 2008, l'Unione di Centro ha cambiato volto sul territorio, affidandosi in molti casi non a fantomatici campioni del cattolicesimo identitario e papalino, bensì a signori delle tessere locali, talvolta provenienti dalla Margherita, e interessati più al gioco delle poltrone che alla definizione di quella politica dei valori sbandierata a parole da Pier Ferdinando Casini. Considerato tutto ciò, riesce difficile immaginare che i sogni di gloria cattolica che hanno spinto parlamentari del Pd come la Binetti ad accasarsi nell'Udc si trasformino in realtà. Anche perché è già apparso chiaro che chi vuole portare avanti concretamente la buona battaglia della difesa della vita e della famiglia trova molto più spazio politico e possibilità di azione concreta nel Popolo della Libertà.


Gianteo Bordero

sabato 13 febbraio 2010

LA SINISTRA HA GIÀ CONDANNATO BERTOLASO

da Ragionpolitica.it del 13 febbraio 2010

Colpire Bertolaso per colpire Berlusconi. Affossare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio per affossare il suo superiore. Non ci vuole molto per capire a che cosa punti la sinistra politica e mediatico-giudiziaria dopo l'avviso di garanzia al capo della Protezione Civile, accusato di corruzione nell'ambito dell'inchiesta della Procura di Firenze sui lavori del G8 alla Maddalena.


A poco vale ricordare ai fan gauchisti delle manette facili e della condanna preventiva che in Italia vige la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva: da Mani Pulite in poi questa regola è divenuta carta straccia, un inutile retaggio del garantismo liberale, una pietra d'inciampo per riuscire a realizzare per via giudiziaria ciò che la sinistra non è riuscita a realizzare per via politica: l'abbattimento dello «Stato borghese», con le sue guarentigie ed i suoi contrappesi costituzionali a tutela dei poteri eletti dal popolo. E lo stesso avviso di garanzia, come è stato più volte ricordato in questi anni, si è trasformato de facto in un avviso di colpevolezza, in un marchio d'infamia, nello strumento principe - assieme alla diffusione selvaggia delle intercettazioni telefoniche - per consegnare in pasto allo sputtanamento pubblico il potente di turno. I principi dello Stato di diritto sono crollati sotto il peso del fanatismo giustizialista, del giacobinismo in salsa italica, del manipulitismo divenuto nuovo dogma intellettuale degli orfani di Marx e dei nostalgici del diciannovismo. Non contano più la ricerca delle prove, l'accertamento del fatto concreto, l'attesa del verdetto. Non conta più la regola aurea della responsabilità penale individuale: diventa dogma inconfutabile il «non poteva non sapere», lo stesso utilizzato nelle inchieste di Tangentopoli per mettere nel tritacarne i pezzi grossi della prima Repubblica e dei partiti democratici occidentali: la Dc, il Pli, il Pri, il Psdi, il Psi con in testa Bettino Craxi. Non potevano non sapere. Così come, oggi, anche Bertolaso non può non sapere quello che è accaduto sotto di lui, gli atti dei suoi sottoposti.


Come dicevamo all'inizio, in questa situazione di garanzie che saltano e di famelico gossip mediatico-giudiziario, la delegittimazione morale di Bertolaso è l'ennesimo strumento per tentare di affondare Silvio Berlusconi. Cioè l'uomo che lo ha voluto con sé, come suo sottosegretario, per affrontare in modo efficace ed efficiente le grandi emergenze che l'attuale governo ha dovuto risolvere, dai rifiuti in Campania fino al post-terremoto in Abruzzo, solo per citare le più eclatanti e tacendo del meritorio e silenzioso lavoro quotidiano della Protezione Civile lungo tutta la Penisola. Oggi la sinistra politica e gazzettiera sostiene che la «gestione delle emergenze», sotto il governo Berlusconi, è divenuta, con un disegno scientificamente studiato a tavolino, il paravento dietro al quale nascondere una nuova ondata di tangenti, corruzione, malaffare e chi più ne ha ne metta (per avere un elenco completo è sufficiente, per chi avesse tempo e voglia, leggere l'edizione di venerdì de La Repubblica, da pagina 1 a pagina 11). Premesso che le mele marce possono annidarsi in ogni dove, anche nella Protezione Civile o tra i funzionari pubblici, occorre ricordare ai maître à panser della sinistra forcaiola che le suddette emergenze non le hanno create né Berlusconi né Bertolaso con la bacchetta magica: sui rifiuti di Napoli, ad esempio, la gauche nostrana farebbe bene a guardare in casa propria, a ricordare che cosa era diventata la città partenopea sotto il governo Prodi e l'allora ministro dell'Ambiente Pecoraro Scanio, a farsi infine tornare alla mente le montagne di monnezza e al naso i miasmi nauseabondi da esse provenienti. Per mettere fine a quella situazione, come tutti sanno, c'è voluto persino l'esercito, oltre ai poteri speciali al commissario straordinario - appunto Bertolaso. E' stato un errore agire in questo modo? Ognuno è libero di pensarla come vuole, ma il dato di fatto è che il problema è stato risolto. E il merito è del governo, di Berlusconi & Bertolaso in primis. Stessa cosa potrebbe dirsi per molte altre situazioni nelle quali l'esecutivo ha dimostrato una eccezionale capacità di risposta a situazioni che nel passato incancrenivano fino a intaccare la credibilità non solo dei governi, ma dell'intero paese.


Perciò non deve sorprendere che oggi la sinistra tenti di usare le accuse contro il capo della Protezione Civile come strumento propagandistico per trasformare in una pagina oscura e criminale quelli che sono i fiori all'occhiello dell'operato del governo Berlusconi. Non avendo argomenti politici validi e solidi da contrapporre al presidente del Consiglio e alla maggioranza di centrodestra, Bersani, Di Pietro e compagni fanno ricorso ancora una volta alla solita retorica giustizialista e alla fede cieca nelle inchieste giudiziarie per provare a sconfiggere il Cavaliere con mezzi impropri. In più d'una occasione questa strategia si è ritorta contro i suoi promotori, e anche questa volta è probabile che vada a finire così. E' la mossa della disperazione di una sinistra politicamente alla frutta, in particolare di un Pd che si è consegnato mani e piedi a Di Pietro ed oggi lo segue senza freni nella caccia a Bertolaso, nella convinzione di trarne profitto elettorale alle prossime regionali. Come se gli italiani dimenticassero tanto facilmente «le cose concrete, le realizzazioni vere, ben più importanti delle chiacchiere dei politici», per usare le parole del portavoce del Pdl, Daniele Capezzone. Il quale ha aggiunto: «Auguro ai politici che in queste ore insultano Bertolaso di poter realizzare in tutta la loro vita un decimo delle cose concrete condotte in porto anche da lui negli ultimi diciotto mesi».

Gianteo Bordero

lunedì 8 febbraio 2010

QUELLI CHE VOGLIONO RIFARE L'UNIONE

da Ragionpolitica.it dell'8 febbraio 2010

Baci e abbracci, al congresso dell'Italia dei Valori, tra Antonio Di Pietro e il segretario del Partito Democratico, Pierluigi Bersani. E in platea applaude Nichi Vendola, nuova icona della gauche nostrana dopo l'eclatante vittoria alle primarie pugliesi. Sarà dunque questa la nuova troika (Di Pietro, Bersani, Vendola) chiamata a risollevare le sorti della sinistra italiana dopo i rovesci elettorali di questi ultimi anni. In realtà, di nuovo c'è ben poco: il film a cui stiamo assistendo in questi giorni non ha il sapore di un'inedita alleanza politica fondata su una chiara e condivisa proposta programmatica per il governo del paese, ma è la riproposizione della vecchia formula tanto cara a Romano Prodi, l'Unione di tutti coloro che non hanno altro obiettivo oltre alla cacciata di Berlusconi.


Insomma, la sinistra, invece che proiettarsi verso il futuro sulla base di un'analisi radicale delle cause che l'hanno condannata alla minorità politica, riavvolge la pellicola e ritorna al 2006. Come se niente fosse accaduto. Come se i due anni di esecutivo Prodi non fossero mai esistiti. Come se quell'accozzaglia di forze tenute insieme soltanto dall'odio nei confronti del Cavaliere non avesse già dimostrato, alla prova dei fatti, di non poter produrre nulla di buono e di duraturo sotto il profilo dell'elaborazione politica e dell'azione di governo. Invece che prendere atto delle ragioni profonde della sua crisi, la sinistra sceglie di mettere da parte la politica e di affidarsi, ancora una volta, all'aritmetica, alla mera sommatoria dei voti sulla carta, immemore di quanto questo atteggiamento le sia già costato caro nel recente passato.


Alla vigilia delle elezioni del 2006, tale mentalità aveva fatto illudere i dirigenti dell'Unione di portare a casa una vittoria talmente ampia e netta da costringere alla resa definitiva l'uomo di Arcore. Sappiamo tutti come andò a finire: il trionfo non ci fu, le previsioni sulla carta furono smentite dai voti reali degli italiani, Berlusconi ne uscì a testa alta dimostrando di saper parlare meglio di chiunque altro agli elettori, ma la sinistra fece finta di nulla e pensò che quei 24 mila voti di vantaggio (lo 0,01% del corpo elettorale) le dessero il titolo di governare e di occupare tutto il potere disponibile come se la vittoria fosse stata totale. Fu quello, ancor prima del dispiegarsi dell'azione di governo, l'inizio della fine dell'Unione.


E fa specie che oggi la suddetta troika non sappia far tesoro di quell'esperienza e la riproponga, senza senso della realtà e della storia, come il rimedio a tutti i mali della sinistra. Con l'aggravante che questa volta anche i numeri sembrano remar contro i sogni di gloria di Di Pietro, Bersani e Vendola. I quali dovrebbero, tra le altre cose, tener conto di tre dati: in primis del fatto che l'Unione, quattro anni or sono, ha raccolto il massimo dei consensi che la gauche italiana ha mai potuto racimolare; in secondo luogo che, per fare ciò, Prodi ha dovuto mettere assieme ben dieci partiti (Ds, Margherita, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Verdi, Italia dei Valori, Udeur, Socialisti Democratici italiani, Radicali, Repubblicani europei); in terzo luogo, che il risultato del 2006 fu reso possibile anche, se non soprattutto, dallo stato di debolezza e di calo dei consensi di un centrodestra diviso e litigioso. Basta poco per capire quanto la realtà odierna sia diversa da quella di allora e per ipotizzare che le situazioni congiunturali che quattro anni fa portarono alla vittoria del centrosinistra difficilmente potranno prendere nuovamente forma nel prossimo futuro.


E allora è chiaro che quello a cui si apprestano a dar vita Di Pietro, Bersani e Vendola assomiglia più alla classica mossa della disperazione che a un progetto politico degno di tal nome. E se è vero che oggi questa alleanza può essere utile per garantire alla sinistra un risultato decoroso alle elezioni regionali di marzo, domani, cioè da aprile in poi, non potrà non mostrarsi per quello che realmente è: l'illusione di poter sconfiggere il centrodestra non in forza di un disegno politico organico e capace di parlare al paese sui grandi temi dell'economia, del lavoro, della scuola, della giustizia, ma sulla base di una semplice addizione di voti - che potrebbero non bastare.


Gianteo Bordero

sabato 6 febbraio 2010

IL RITORNO AL NUCLEARE È UNA QUESTIONE D'INTERESSE NAZIONALE

da Ragionpolitica.it del 6 febbraio 2010

Bene ha fatto, il governo, a impugnare dinanzi alla Corte Costituzionale le leggi regionali di Campania, Puglia e Basilicata che impediscono l'installazione di impianti nucleari in quei territori. La proposta di impugnazione è venuta dal ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, secondo il quale tale atto è «necessario per ragioni di diritto e di merito». Per quanto riguarda il primo aspetto - ha spiegato il ministro - «le tre leggi intervengono autonomamente in una materia concorrente con lo Stato (produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica) e non riconoscono l'esclusiva competenza dello Stato in materia di tutela dell'ambiente, della sicurezza interna e della concorrenza (articolo 117, secondo comma della Costituzione)». Venendo invece alla questione di merito, Scajola ha affermato che «il ritorno al nucleare è un punto fondamentale del programma del governo Berlusconi, indispensabile per garantire la sicurezza energetica, ridurre i costi dell'energia per le famiglie e per le imprese, combattere il cambiamento climatico riducendo le emissioni di gas serra secondo gli impegni presi in ambito europeo».


E' importante cercare di comprendere i due assunti politico-ideologici che stanno alla base delle leggi regionali contro cui l'esecutivo ha deciso di fare ricorso. In primo luogo vi è un'idea distorta e parziale del federalismo, secondo la quale le Regioni rappresentano una sorta di «Stato in miniatura», cioè un Ente in tutto identico, salvo che nell'estensione territoriale, allo Stato centrale. Questa concezione affonda le sue radici nella riforma del Titolo V della Costituzione approvata in fretta e furia dal centrosinistra al termine della XIII legislatura (1996-2001) per tentare di ingraziarsi l'elettorato leghista in vista delle elezioni politiche del 13 maggio 2001. Tale riforma, lungi dal mettere in atto un sano federalismo, ben inserito e bilanciato nel quadro dell'unità nazionale, con la nuova formulazione dell'articolo 117 della Carta costituzionale da un lato ha assegnato alle Regioni la potestà legislativa su «ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato», dall'altro lato ha previsto una lunga serie di materie concorrenti: si è creata così una grande confusione di competenze tra Stato e Regioni, con prevedibili e inevitabili ricorsi alla Consulta, ma soprattutto è stata legittimata l'idea di una sostanziale equivalenza tra il potere legislativo del parlamento centrale e quello dei parlamentini (ormai veri e propri parlamenti) regionali. La conseguenza di tutto ciò è stata che, più che a un vero federalismo (quello in cui alla previsione di più poteri per le Regioni corrisponde un rafforzamento dei poteri di controllo e indirizzo dello Stato centrale e del governo), si è dato vita ad un mero «regionalismo» trasformatosi non di rado, in questi due lustri, in «centralismo» o «statalismo» regionale.


Ma l'esito culturalmente e politicamente più grave del «pasticciaccio brutto» della riforma del Titolo V è stato quello di mettere in secondo piano l'interesse nazionale, cioè l'interesse dell'Italia in quanto tale, oltre le sue partizioni territoriali. Si è creato così un corto circuito tra territorio e Stato, tra dimensione locale e dimensione nazionale, i cui frutti avvelenati sono oggi sotto gli occhi di tutti: si pensi, oltre al caso odierno del nucleare, anche a episodi come quello dell'opposizione alla Tav in Val di Susa e, più in generale, alla realizzazione di infrastrutture e grandi opere necessarie all'ammodernamento del paese e foriere di sviluppo e benessere per tutta la nazione.


Venendo poi alla seconda ragione che sta alla base del «no» di Campania, Puglia e Basilicata all'impianto di stabilimenti nucleari sul loro territorio, essa è da individuare in un atavico e cieco dogma ideologico che ancora permea ampi settori della gauche italiana (tant'è vero che queste tre Regioni sono amministrate da giunte di centrosinistra): il dogma secondo cui «nucleare» è sinonimo di disastri ambientali, inquinamento e distruzione della Natura. A poco valgono gli sviluppi tecnologici che oggi garantiscono impianti sicuri e ad emissioni zero. A poco valgono le dichiarazioni di ambientalisti storici come Chicco Testa, James Lovelock e Stephen Tindale, che sono diventati sostenitori della produzione di energia elettrica da fonte nucleare come strumento per contenere l'inquinamento atmosferico. A poco valgono le analisi storiche sulle vere cause (scarsa o nulla manutenzione e crisi irreversibile del sistema sovietico) che portarono alla catastrofe di Chernobyl. Ancora, a poco vale ricordare che i referendum anti-nucleare del 1987 non prevedevano in alcun modo l'abolizione o la chiusura delle centrali. E a poco, infine, vale rilevare come anche per quanto riguarda il problema dello smaltimento delle scorie siano ormai stati fatti molti passi in avanti dal punto di vista della sicurezza (in Spagna - è notizia di questi giorni - addirittura tredici cittadine si sono candidate ad ospitare il nuovo grande deposito di scorie che il governo vuole realizzare). Questi sono tutti dati di realtà totalmente ignorati da chi pone al primo posto - per convenienza politica immediata o per incapacità di mettere in discussione vecchie convinzioni - l'astrattezza ideologica, il mantra propagandistico, il pregiudizio comodo e politicamente corretto.


Per tutti questi motivi diventa ancora più importante la scelta del governo Berlusconi di impugnare le tre leggi regionali citate e di procedere innanzi, senza tentennamenti, sulla strada del ritorno al nucleare. In nome del principio di realtà e della salvaguardia dell'interesse nazionale. A tal proposito, il ministro Scajola ha annunciato che nella prossima riunione del Consiglio dei ministri, che si svolgerà il 10 febbraio, «ci sarà l'approvazione definitiva del decreto legislativo recante misure sulla definizione dei criteri per la localizzazione delle centrali nucleari». Avanti tutta.


Gianteo Bordero

mercoledì 3 febbraio 2010

IL PD E LA NOSTALGIA DI ROMANO

da Ragionpolitica.it del 3 febbraio 2010

Ah, Romano, Romano! Alla fine ha avuto ragione Corrado Guzzanti, che in una sua sopraffina imitazione raffigurava il Professore, dopo la caduta del suo governo, fermo a una stazione ad attendere al varco i dirigenti del centrosinistra: «Io sto fermo, aspetto, non mi muovo, perché verrà anche il suo bel momento che dovran tornare qui da me, proprio qui, alla stazione dove mi han mandato, a dire: "Romano, perdonaci, abbiam sbagliato, ti abbiamo fregato già due volte, ti chiediam perdono ma solo tu puoi battere il Berlusconi. Ti preghiamo, bisogna rifar l'Ulivo!"». Anche se non in questa forma, quello che è accaduto negli ultimi giorni all'interno dello schieramento di centrosinistra è, nella sostanza, quanto previsto in tempi non sospetti dal Prodi in versione Guzzanti.


Vediamo i fatti: finisce nella polvere il sindaco di Bologna, Flavio Delbono - peraltro caldamente sponsorizzato dall'ex presidente del Consiglio al momento della candidatura - per una storia di amanti e uso privato di risorse pubbliche ai tempi in cui era vicepresidente della Regione. Risultato: dopo neanche un anno di amministrazione, Delbono getta la spugna e dà le dimissioni. Non è la prima volta che un sindaco di centrosinistra lascia l'incarico a causa di scandali e inchieste varie - visto che nella guache nostrana, paladina del dogma giustizialista e della presunzione di colpevolezza, basta un qualsiasi sospetto o un avviso di garanzia per essere costretti a dare le dimissioni. Ma qui siamo a Bologna, cioè nella storica capitale del governo locale rosso, nel luogo simbolo del «modello Emilia», delle cooperative, della «buona amministrazione» in salsa Pci-Pds-Ds. Insomma, nel cuore di quel sistema di potere che la sinistra italiana ha sempre vantato orgogliosamente come un fiore all'occhiello, come il frutto migliore della sua azione politica. E' chiaro, quindi, che con la rovinosa e improvvisa caduta di Delbono rischia di andare in frantumi anche il mito del buongoverno comunista e postcomunista in terra emiliana. Uno smacco che in questo momento il Partito Democratico, alle prese con le solite grane interne e con la non facile campagna elettorale per le elezioni regionali, non si può permettere.


E allora ecco la geniale - si fa per dire - trovata: chiedere a lui, al Bolognese per eccellenza, al salvatore della patria gauchista per antonomasia, all'indimenticato condottiero delle vittorie contro il centrodestra, di venire ancora una volta in soccorso della nave alla deriva. Perché perdere Bologna oggi vorrebbe dire perdere quel poco che resta della sinistra in Italia. Solo che non è facile convincere chi è stato presidente dell'IRI, presidente del Consiglio, presidente della Commissione europea, ad accettare il «sacrificio» di passare dalle stanze dei bottoni nazionali e internazionali a una piccola e stretta - seppur importante - poltrona di sindaco. Soprattutto quando colui che ora viene corteggiato, acclamato e invocato come l'unica àncora di salvezza per il Pd nel capoluogo emiliano è lo stesso che per due volte è stato disarcionato dalla guida del governo dai dirigenti dello stesso partito, dal fuoco amico dei vari D'Alema e Veltroni, sempre divisi su tutto ma uniti, seppur in tempi diversi, nel mandare gambe all'aria l'esecutivo del Professore.


E così Prodi dice «no». Non perché, come ha più volte dichiarato nel recente passato, voglia «continuare a fare il nonno». E neppure perché non voglia rinunciare al suo attuale impegno per l'ONU in Africa o alle sue lezioni cinesi di economia politica. Queste sono, evidentemente, motivazioni di facciata. La verità è che il Professore, consapevole dello stato di crisi in cui versa il centrosinistra e dell'evidente assenza di un leader unico e riconosciuto della coalizione, aspetta tempi migliori - ovviamente per lui - per l'ennesimo, grande ritorno sulla scena. Intanto ora può già godersi lo spettacolo dei dirigenti del Partito Democratico che, col capo cosparso di cenere e la lacrimuccia sul viso, in processione come pie donne, lo pregano di farsi nuovamente presente, di non lasciare solo il popolo adorante, di dare ancora una possibilità, da buon cattolico ancorché adulto, a chi lo ha tradito ed ora si rende conto di essere privo non tanto di una bussola, quanto dell'unica colla capace di tenere insieme tutti coloro che, per un motivo o per l'altro, si definiscono antiberlusconiani. Come ai vecchi tempi.


Gianteo Bordero

SESTRI LEVANTE. LE CONTRADDIZIONI DELL'UDC

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE

GIANTEO BORDERO

CAPOGRUPPO CONSILIARE DEL “POPOLO DELLA LIBERTÀ”


COMUNICATO STAMPA DEL 3 FEBBRAIO 2010


I numeri non sono opinabili. I risultati delle elezioni comunali a Sestri Levante dell’aprile 2008 parlano chiaro: l’Unione di Centro non avrebbe avuto diritto a un consigliere comunale. Se oggi l’Udc ha un rappresentante in Consiglio è soltanto per il passaggio al partito di Casini del consigliere Ianni, già candidato sindaco contro Lavarello, già fondatore a Sestri Levante del Circolo della Libertà berlusconiano, già tesserato di Forza Italia nonché membro del direttivo cittadino e del coordinamento provinciale del medesimo partito.

E allora vediamoli, questi numeri. Le liste che nel 2008 sostenevano Ianni, allora candidato sindaco del centrodestra, ottennero i seguenti risultati alle amministrative di aprile: il Popolo della Libertà conquistò 1.813 voti, pari al 16,6%; la Lega Nord 435 voti, pari al 4%; l’Udc 387 voti, pari al 3,5%. I conti, sulla base della legge elettorale comunale vigente, sono presto fatti: al centrodestra spettano 4 consiglieri: uno è il candidato sindaco sconfitto al ballottaggio, che entra come espressione di tutta la coalizione, mentre gli altri 3, secondo il metodo di assegnazione previsto dalla legge, vanno al Pdl. Nel caso di ipotetiche dimissioni del candidato sindaco sconfitto, la legge prevede che il posto vacante venga assegnato alla coalizione che lo ha sostenuto e, in particolare, al partito della coalizione che ne ha diritto: numeri alla mano, tale seggio andrebbe non all’Udc, ma ancora una volta al Popolo della Libertà.

Ora, si dà il caso che il recente accordo su base regionale tra l’Unione di Centro e il candidato della sinistra alla presidenza della Liguria collochi il partito a cui oggi appartiene il consigliere Ianni in una posizione opposta a quella in cui esso si trovava al momento delle elezioni comunali, nelle quali si era schierato al fianco del centrodestra. In seguito a ciò, lo schieramento di centrodestra nel Consiglio Comunale di Sestri Levante, che, come detto, in seguito al voto dell’aprile 2008 aveva ottenuto 4 consiglieri, oggi, a causa delle scelte ondivaghe e contraddittorie dell’Unione di Centro, rischia di vedere falsato il risultato elettorale di due anni fa.

Ma non è soltanto una questione partitica: è innanzitutto una questione di rispetto della volontà popolare e quindi della democrazia. La domanda sorge spontanea: il consigliere Ianni, che ha ricevuto dai cittadini di Sestri il mandato di fare opposizione alla Giunta Lavarello, pensa di poter portare avanti tale mandato di opposizione dopo che il suo attuale partito e i suoi massimi dirigenti hanno siglato un ampio patto politico regionale col centrosinistra, cioè con lo stesso schieramento a cui appartiene il sindaco di Sestri Levante? E non ritiene quantomeno anomalo che il candidato alla presidenza della Regione che egli sostiene, il già Pci-Pds-Ds Claudio Burlando, sia lo stesso a cui stanno dando il loro appoggio il sindaco Lavarello e i partiti della maggioranza consiliare di Sestri, nonché i partiti dell’estrema sinistra che sono portatori di valori opposti a quelli che a parole dice di voler promuovere l’Udc?

A Ianni vorrei ricordare quanto dichiarò in Consiglio Comunale, l’11 luglio del 2007, il consigliere Massimo Bixio - anch’egli candidato sindaco del centrodestra alle elezioni del 2003 - nel momento in cui decise di intraprendere un altro percorso politico, che lo ha poi portato ad aderire al Partito Democratico e ad entrare nella Giunta Lavarello, come assessore alla viabilità, nel mandato amministrativo che ha preso il via nel 2008: “Ho deciso - disse Bixio - di dimettermi dalla mia carica di consigliere comunale perché non mi sento più di rappresentare quell’elettorato grazie al quale sono stato seduto in questi anni in questo Consiglio Comunale”. Ianni, fino al momento del suo passaggio all’Udc, ha più volte pubblicamente deprecato, con parole dure, il cambio di schieramento di Bixio. Sarebbe interessante sapere che cosa ne pensi oggi.

Gianteo Bordero

lunedì 1 febbraio 2010

CASINI UTILITARISTA. PAROLA DI «AVVENIRE»

da Ragionpolitica.it del 1° febbraio 2010

Con un editoriale a firma di Sergio Soave pubblicato lo scorso sabato, il quotidiano della Conferenza Episcopale italiana, Avvenire, ha smascherato e chiamato col suo nome la strategia dell'Udc in vista delle elezioni regionali del prossimo marzo. L'articolo è tanto più importante se si tiene conto del fatto che il giornale dei vescovi ha sempre avuto un occhio di riguardo nei confronti dell'Unione di Centro, cioè di un partito che ha fatto (almeno a parole) dei valori cristiani e della fedeltà alla tradizione del cattolicesimo politico italiano la sua stessa ragion d'essere, il fiore all'occhiello per attrarre a sé un'ampia fetta dell'elettorato cattolico. Un atteggiamento benevolo, quello di Avvenire nei confronti del partito di Pier Ferdinando Casini, che è andato rafforzandosi negli ultimi due anni, ossia dal momento della scelta dell'Udc di correre da sola alle elezioni politiche del 2008 issando la bandiera dell'orgoglio scudocrociato e non accettando di entrare a far parte del Popolo della Libertà - un partito che pure condivide con l'Udc l'attenzione ai temi bioetici e alla dottrina sociale della Chiesa, nonché l'appartenenza al Partito Popolare europeo. Per tutti questi motivi assume ancor più peso l'editoriale apparso sul quotidiano della CEI il 30 gennaio.


Analizzando l'attuale quadro politico alla luce della scadenza elettorale di marzo, Sergio Soave annota che la fase di definizione delle alleanze e delle candidature per il rinnovo delle amministrazioni regionali poteva offrire «un'occasione difficilmente ripetibile all'Udc che, collocandosi al centro e fuori dai due schieramenti poteva massimizzare il suo potere di coalizione senza essere costretta a intese globali e subalterne. D'altra parte la capacità dei centristi di raccogliere consensi più ampi nel voto locale rispetto a quello nazionale conferiva una certa base concreta all'aspirazione di Pier Ferdinando Casini di esercitare una significativa centralità politica». Ma - ecco il punto - «questo obiettivo, a conti fatti, pare sia stato gestito puntando più a un risultato numerico atteso (e naturalmente non garantito) che all'affermazione di un'autonomia politica basata su valori esplicitamente proclamati». In sostanza, secondo l'Avvenire, vi è stato da parte dell'Unione di Centro un tradimento in piena regola dello statuto ontologico del partito, cioè di quell'autonomia dagli schieramenti nel nome dei valori rivendicata in questi anni con orgoglio da Casini. Insomma, l'impressione che ha dato in questo frangente politico il leader dell'Udc è di aver compiuto le scelte strategiche unicamente sulla base di una logica di potere, mettendo in secondo piano i principi che stanno alla base del partito. Soave cita, su tutti, l'esempio del Piemonte, dove «l'esasperazione della polemica con la Lega Nord» ha portato l'Udc a una «scelta contraddittoria»: «schierarsi, fianco a fianco con i radicali di Pannella e Bonino», a sostegno della giunta di Mercedes Bresso, contro cui «negli ultimi anni i centristi avevano condotto battaglie asperrime a causa dell'orientamento laicista e lassista sulle questioni eticamente sensibili».


In forza di tali considerazioni, l'editorialista del quotidiano dei vescovi accusa l'Unione di Centro di essersi mossa in maniera «utilitaristica», senza alcuna reale prospettiva culturale e politica di ampio respiro, ma avendo come unico scopo quello della «vittoria» fine a se stessa. Scrive Soave: «L'accento posto sull'utilitarismo della vittoria rischia in qualche caso di indebolire il segno identitario del "noi", la visibilità di un'ispirazione cristiana pur ufficialmente esibita». Più chiaro di così...


Con questo articolo, infine, Avvenire contribuisce a smantellare un equivoco ricorrente nelle analisi riguardanti la politica italiana: quello dell'equivalenza tra centrismo e cattolicesimo politico, come se il primo fosse la conditio sine qua non per poter far esistere, nel nostro paese, anche il secondo. Così appare invece chiaro che il cattolicesimo politico è una cultura che va ben oltre il centrismo e non si identifica necessariamente con questa opzione strategica. Tanto più se il centrismo, come dimostrano le scelte di Pier Ferdinando Casini in vista delle regionali, diventa un alibi per allearsi di volta in volta - appunto in maniera «utilitaristica» - con coloro che si pensa usciranno vincitori dalla competizione elettorale. Casini, col voto di marzo, potrà forse guadagnare qualche poltrona in più, ma quello che è certo è ciò che egli ha già perso: il sostegno pesante e importante del giornale dei vescovi, cioè di quella parte di mondo cattolico che fino ad oggi aveva visto in lui il paladino dei valori cristiani in politica. Non è poco.


Gianteo Bordero

SESTRI LEVANTE. MOZIONE DEL CENTRODESTRA PER DIFENDERE I POSTI DI LAVORO NELLE PISCINE COMUNALI

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE
GRUPPO CONSILIARE “IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – LEGA NORD”


1 febbraio 2010

All’attenzione del

Presidente del Consiglio Comunale

OGGETTO: MOZIONE


I SOTTOSCRITTI CONSIGLIERI COMUNALI

Gianteo BORDERO, Marco CONTI, Giancarlo STAGNARO


CHIEDONO


Che venga inserita all’Ordine del Giorno della prossima seduta di Consiglio Comunale la seguente mozione:


“LE PISCINE COMUNALI E LA DIFESA DEI POSTI DI LAVORO”


E PROPONGONO


Di sottoporre all’approvazione del Consiglio Comunale il seguente ordine del giorno:


IL CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE


  • APPRESA dalle organizzazioni sindacali e dagli organi di stampa la situazione in cui si sono venuti a trovare i lavoratori delle piscine comunali di Sestri Levante costruite nelle aree ex Fit;
  • VISTO l’annullamento, da parte del Consiglio di Stato, della gara d’appalto per la gestione degli impianti natatori, che interrompe di fatto la concessione ventennale sottoscritta dal Comune di Sestri Levante con il Circolo Nuoto Lucca;
  • CONSIDERATO che la stragrande maggioranza dei lavoratori delle piscine è priva di contratto e viene retribuita soltanto attraverso rimborsi spese;
  • CONSIDERATO CHE nel passaggio alla nuova gestione potrebbe essere messo a rischio il posto di lavoro di coloro che non sono contrattualizzati;

IMPEGNA IL SINDACO E LA GIUNTA COMUNALE

A porre in essere, in accordo con tutte le altre realtà interessate, le procedure adeguate ed opportune per risolvere questa situazione, al fine di salvaguardare il posto di lavoro di tutti coloro che prestano servizio nelle piscine comunali.