mercoledì 31 marzo 2010

REGIONALI. IL CAPOLAVORO DI BERLUSCONI

da Ragionpolitica.it del 31 marzo 2010

Come è stato più volte detto e scritto, è nelle situazioni di apparente difficoltà e di accerchiamento da parte dei suoi nemici che Silvio Berlusconi riesce a dare il meglio di sé. Lo ha fatto sin dal momento della sua «discesa in campo» nel '94, quando la sinistra politica, mediatica e giudiziaria ha iniziato a rappresentare il fondatore di Forza Italia come un cancro per la democrazia, come il male assoluto da estirpare, come il pericolo pubblico numero uno. Lo ha fatto, poi, nella lunga «traversata del deserto» degli anni 1996-2001, quando dall'opposizione, mentre tutta l'intellighenzia gauchista lo dava per finito, ha riorganizzato con pazienza lo schieramento di centrodestra e lo ha portato al successo alle elezioni politiche del 2001. Lo ha fatto, ancora, nel 2006, quando, abbandonato persino da alcuni suoi alleati poco lungimiranti, con una coraggiosa campagna elettorale, condotta pressoché in solitaria, ha rimontato uno svantaggio dall'Unione prodiana che sembrava incolmabile, ha sfiorato per una manciata di voti il successo ma ha riconfermato la sua leadership carismatica come l'unica possibile per il centrodestra italiano. Lo ha fatto, infine, nel 2009 e nel 2010, in occasione delle elezioni europee e amministrative dell'anno scorso e di quelle regionali di quest'anno, tutte precedute da una lunga campagna di gossip, veleni, tentativi di delegittimazione morale, accuse di ogni genere da parte della solita sinistra a corto di argomenti politici ma sempre pronta a riversare sul Cavaliere ondate di fango, quintali di calunnie, tonnellate di odio.


Sono dunque sedici anni che, quanto più Berlusconi viene considerato sul viale del tramonto, tanto più egli si dimostra vivo e vegeto, in piena forma politica, titolare di una leadership che niente e nessuno riescono a scalfire. Il segreto - se così possiamo chiamarlo - sta nella capacità non comune del presidente del Consiglio di rinnovare ogni volta il suo rapporto diretto col popolo, chiamandolo a raccolta come migliore scudo di fronte agli attacchi della sinistra. Questa volta è accaduto con la grande manifestazione di piazza San Giovanni del 20 marzo, che ha ridato forza, speranza ed entusiasmo ad un elettorato che sembrava spaesato dopo la vicenda della presentazione delle liste, e che ha invece ben compreso che anche in questo caso si trattava del tentativo di far fuori l'avversario non con i mezzi della politica e della democrazia, ma con quelli giudiziari e mediatici - tanto più che, come lo stesso Berlusconi ha ricordato più volte, la cancellazione della lista del Popolo della Libertà a Roma e provincia è arrivata dopo il tormentone giornalistico su una presunta nuova Tangentopoli, dopo la reboante inchiesta sugli appalti della Protezione Civile e dopo l'ennesima fuoriuscita di intercettazioni coperte dal segreto nell'ambito dell'inchiesta di Trani sul «caso Santoro».


Anche stavolta, dunque, risultati elettorali alla mano, non c'è trippa per gatti. Chi, come qualche incauto esponente del Partito Democratico e dell'opposizione, sognava un indebolimento della leadership berlusconiana in seguito alle regionali, deve riporre le sue speranze nel cassetto. Perché il voto del 28 e 29 marzo, al contrario delle sgangherate previsioni dei maître à penser della sinistra salottiera, ha consolidato il ruolo del Cavaliere, che ora può giocare da una posizione di forza la partita delle riforme negli ultimi tre anni di legislatura - che, ricordiamolo, non prevedono altri appuntamenti elettorali di rilievo nazionale. La morale della favola, insomma, è che la sinistra, incapace di comprendere la lezione della recente storia politica italiana, continua a dare spallate contro un muro che non accenna a cadere. E così finisce per farsi del male da sola.

Gianteo Bordero

sabato 27 marzo 2010

PERCHÉ ATTACCANO LA CHIESA E IL PAPA

da Ragionpolitica.it del 27 marzo 2010

Il dialogo tra Gesù e Ponzio Pilato, nel racconto della Passione secondo l'evangelista Giovanni, rappresenta uno dei momenti più drammatici nel rapporto tra il Nazareno e l'umanità: è lo scontro tra il potere del mondo - tra quelle che noi oggi chiameremmo «lobbies dominanti» - e il misterioso potere disarmato di un Dio che, fattosi uomo, si offre come vittima sacrificale «per la salvezza di molti». A Pilato che gli chiede se fosse lui il re dei Giudei, se quindi il suo obiettivo fosse quello di rovesciare l'ordine costituito e di instaurare un proprio impero terreno, Gesù risponde affermando che il suo regno «non è di questo mondo»: se così fosse, infatti, i suoi seguaci «avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei». Il racconto prosegue descrivendo un Pilato che, evidentemente spiazzato dalle parole del suo interlocutore, torna a interrogarlo: «Dunque tu sei re?». E Gesù, quasi a voler sgravare il prefetto romano dal peso umanamente insopportabile di mandare a morte il Giusto senza alcuna valida causa: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Da qui la domanda di Pilato seguita dal terribile silenzio del Nazareno: «Che cose'è la verità?». Commenta Michele Federico Sciacca: «Silenzio di Cristo. A tutti l'ha detta la verità, agli umili e ai reietti, ai pubblicani e alle prostitute, a tutti quanti avevano la semplicità e la buona volontà di ascoltarla. Al rappresentante di Cesare non la dice... Che cosa può esser mai la verità per un funzionario il cui unico regno è la sua poltrona, per uno di quei potenti che fanno la storia?». E conclude: «Dopo i silenzi che seguono alla condanna, questo di fronte a Pilato, in pieno pretorio, è il più significativo dei silenzi di Cristo». Tutto il potere del Sinedrio e tutto il potere dell'impero romano «sono inceneriti dal fulmine di quel silenzio».


Da duemila anni questo è il grande paradosso cristiano, il paradosso della Chiesa cattolica, ben riassunto dalle parole di San Paolo: «Voi siete nel mondo, ma non siete del mondo». Ed è per questo che il mondo non può sopportare l'esistenza di un potere (un «regno») che non si fonda sulla forza, sul dominio, sulla prevaricazione, ma sulla verità offerta liberamente alla persona sotto forma di Dio-uomo che dona la sua vita per riscattare l'umanità dalla schiavitù del male e del peccato. Non è un'idea, non è una filosofia, non è un principio religioso, ma una presenza reale nella storia, che va oltre la storia. Come scriveva sant'Agostino anagrammando la domanda di Pilato: «Quid est veritas? Est vir qui adest». La verità è un uomo presente.


La Chiesa e i cristiani, sin dagli inizi della loro avventura storica, sono combattuti e perseguitati per questo: perché ricordano ai prìncipi di questo mondo, e alle élites interpreti del pensiero dominante, che tutto il potere che essi riescono affannosamente ad ottenere, che tutti gli uomini che essi riescono in qualche modo ad assoggettare, che tutte le ricchezze che essi riescono ad accumulare non sono l'ultima parola che decide le sorti dell'umanità. E che c'è una verità che nessuna guerra culturale, nessuna prigione, nessun tentativo di censura potranno mai cancellare: la verità di Dio e del suo Figlio fatto uomo, quella verità in nome della quale Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli». Quando i primi martiri cristiani, interrogati dai generali dell'impero romano circa la loro identità, rispondevano con le parole «christianus sum», ben sapendo quale sarebbe stata la loro sorte, affermavano esattamente questa verità: «Il vostro potere può privarci della vita, ma non può toglierci la Vita», cioè l'appartenenza al Dio di Gesù Cristo. Per dirla ancora con San Paolo: «Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: "Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello". Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati».


Oggi la storia si ripete. Non soltanto nelle persecuzioni che ogni anno vedono come vittime innocenti, in molte parti del mondo, migliaia di cristiani, ma anche negli odierni attacchi che, in seguito allo scandalo dei preti coinvolti in casi di pedofilia, vengono mossi alla Chiesa e al Papa da alcuni giornali americani, tedeschi e anche italiani, e dalle lobbies laiciste ed anti-cattoliche che tali giornali controllano. Chi volesse rendersi conto dell'infondatezza delle accuse rivolte a Benedetto XVI, può leggere i documentati articoli pubblicati in questi giorni dall'Osservatore Romano e dall'Avvenire. Ma quello che qui ci preme sottolineare è che quest'ondata di fango che punta a delegittimare il successore di Pietro, e a dipingere la sua barca come una congrega di pedofili, arriva proprio sotto un pontificato che con mitezza, tenerezza e semplicità sta riproponendo agli uomini del nostro tempo la radicalità dell'annuncio cristiano, la sua «pretesa» di verità contro ogni relativismo filosofico ed etico, cioè contro un'idea dell'uomo e di Dio che rende la persona più malleabile, più esposta ai venti e alle suggestioni dei potentati di turno, degni eredi di coloro che organizzarono il processo a Gesù e che lo inchiodarono alla croce, sul Golgota, duemila anni fa. Quel giorno «si fece buio su tutta la terra».

Gianteo Bordero

mercoledì 24 marzo 2010

ELEZIONI REGIONALI E VOTO CATTOLICO. LE PAROLE CHIARE DEL CARDINAL BAGNASCO

da Ragionpolitica.it del 24 marzo 2010

Il presidente dei vescovi italiani, cardinale Angelo Bagnasco, ha parlato chiaro. Nella sua prolusione al Consiglio Permanente della Cei, collegando la dura condanna dell'aborto - espressa con termini talmente forti da non lasciare spazio a interpretazioni di sorta - alla scadenza elettorale di domenica e lunedì prossimi, il porporato ha lanciato un messaggio esplicito ai cattolici. Un messaggio che va ben oltre il richiamo generico al rispetto dei valori che stanno a cuore alla Chiesa. Non si tratta tanto di un'indicazione di voto, quanto di un monito a non concedere la propria preferenza ai partiti che si oppongono più o meno apertamente a quei «principi non negoziabili» («La dignità della persona umana, incomprimibile rispetto a qualsiasi condizionamento; l'indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale; la libertà religiosa e la libertà educativa e scolastica; la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna») che Papa Benedetto XVI ha più volte indicato come i cardini su cui può reggersi una politica autenticamente umana.


Affermando poi che è su tali principi che «si impiantano e vengono garantiti altri indispensabili valori come il diritto al lavoro e alla casa, la libertà di impresa finalizzata al bene comune, l'accoglienza verso gli immigrati rispettosa delle leggi e volta a favorire l'integrazione, il rispetto del creato, la libertà dalla malavita in particolare quella organizzata», il cardinale ha fatto piazza pulita di un diffuso malinteso: quello secondo il quale possono essere collocati sullo stesso piano, senza ordine gerarchico, i valori promossi dal magistero morale e sociale della Chiesa. Sulla base di tale malinteso, negli anni successivi alla fine della Democrazia Cristiana e della Prima Repubblica, è stato propagandato il luogo comune per cui sarebbe sostanzialmente equivalente, per un cattolico, votare per il centrodestra (raffigurato come più attento ai valori bioetici) o per il centrosinistra (dipinto come paladino dei valori sociali). Attraverso questa vulgata, in realtà, si è voluto mascherare il fatto che la gauche italiana esprimeva, come esprime oggi, posizioni che sono in netto contrasto con i capisaldi della dottrina cristiana in materia di vita, famiglia, libertà di educazione. In sostanza, si è voluto far credere che i cattolici che votavano per una sinistra laicista e ormai intrisa di posizioni radicaleggianti, potevano benissimo mettere tra parentesi, nel nome della presunta promozione di valori quali la solidarietà, l'attenzione agli ultimi, la tutela del lavoro - come se il centrodestra fosse nemico di tali sacrosanti valori! - la difesa dei principi non negoziabili in campo bioetico. Oggi, con le sue parole, il cardinal Bagnasco pone fine a questo maldestro tentativo di falsificazione della realtà.


Le dichiarazioni del presidente della Cei, del resto, non nascono dal nulla. Esse trovano un solido fondamento teologico nell'ultima enciclica di Benedetto XVI, la Caritas in veritate. In questo documento il Papa ha indicato la questione bioetico-antropologica come la nuova, grande questione sociale dei nostri tempi: «Occorre affermare - ha scritto - che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire, ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell'uomo». Nel momento in cui si afferma l'idea che la vita umana sia un prodotto della tecnica, che ne può disporre a piacimento a partire dal momento del concepimento fino a quello della morte, il Pontefice ricorda che lo sviluppo dei popoli «è legato intimamente allo sviluppo di ogni singolo uomo» e che esso «degenera se l'umanità ritiene di potersi ri-creare avvalendosi dei "prodigi" della tecnologia». Quindi anche i temi classici della dottrina sociale della Chiesa vanno oggi riletti alla luce dell'affermarsi di una «mentalità prometeica» che rischia di cancellare, di fatto, lo stesso soggetto protagonista dello sviluppo sociale: l'uomo così come lo abbiamo conosciuto da migliaia di anni a questa parte.


E' per questo che la bioetica non può non diventare la nuova frontiera dell'impegno dei cattolici in un ambito, come quello della politica, chiamato non di rado a legiferare su questioni (aborto, procreazione medicalmente assistita, fine vita) attorno alle quali si gioca non soltanto la partita tra schieramenti, ma anche e soprattutto il destino delle nostre società. E' questo il cuore del messaggio con cui il cardinal Bagnasco, alla vigilia di un voto importante come quello del 28 e 29 marzo, ha voluto richiamare l'attenzione dei cattolici, affinché abbiano chiara l'importanza di un «evento qualitativamente importante che in nessun caso converrà trascurare», perché «in esso si trasferiscono non poche delle preoccupazioni cui si è fatto riferimento».

Gianteo Bordero

lunedì 22 marzo 2010

IL CORAGGIO DEL PAPA E LA CATTIVA COSCIENZA DEI CATTO-PROGRESSISTI

da Ragionpolitica.it del 22 marzo 2010

Da alcuni commenti alla lettera pastorale che Benedetto XVI ha inviato il 19 marzo ai cattolici irlandesi emerge una visione totalmente distorta del ruolo e della missione del Papa e, di rimando, della stessa Chiesa. Quando si afferma, come ad esempio hanno fatto La Repubblica e Il Riformista, che il Pontefice, con la sua missiva, non sta facendo abbastanza per rispondere allo scandalo dei preti che si sono macchiati di atti di pedofilia; o quando si chiede, in sostanza, che egli si trasformi in una sorta di magistrato statale che commina ai malfattori pene carcerarie o cose simili, si finisce per cadere in quella logica «temporalista» che gli intellettuali cattolici progressisti da sempre combattono a parole e che oggi invece sembrano invocare come rimedio alla dolorosa e drammatica vicenda dei sacerdoti che hanno abusato dei più piccoli.


Tutto questo nel momento in cui lo stesso Pontefice afferma a chiare lettere che i colpevoli dovranno rispondere delle loro infamanti azioni di fronte a Dio e agli uomini («Davanti all'Onnipotente come pure davanti a tribunali debitamente costituiti») e invita i vescovi che hanno commesso «gravi errori di giudizio» ed hanno mostrato «mancanze di governo» a «cooperare con le autorità civili nell'ambito di loro competenza». Ma anche queste dure parole di Benedetto XVI, agli occhi di certi illuminati commentatori di cose cattoliche, sembrano non bastare. E' curioso che questi intellettuali, che per molti lustri sono stati i propugnatori di una svolta lassista della Chiesa in materia di morale sessuale ed hanno chiesto, a partire dalla contestazione dell'enciclica di Paolo VI Humanae Vitae (1968), che il magistero papale non dicesse solo dei «no» di fronte ai grandi cambiamenti del costume avvenuti nell'ultimo secolo, si presentino oggi come i campioni del rigorismo e del «pugno duro».


Peccato che proprio questa mentalità conciliante con le tendenze mondane, proposta nel nome di una Chiesa «moderna» e «aperta», sia uno dei principali fattori che hanno contribuito ad indebolire nei cattolici quegli anticorpi necessari per resistere al male nei tempi di confusione e di tempesta. Lo dice in modo chiaro lo stesso Papa Ratzinger nella sua lettera, quando afferma che negli ultimi decenni, di fronte alla «rapida trasformazione e secolarizzazione della società irlandese» - ma il discorso può benissimo valere pure per altri paesi occidentali - anche tra molti sacerdoti e religiosi ha fatto breccia «la tendenza ad adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo». Una tendenza che si è manifestata, secondo il Pontefice, anche in una lettura distorta del Concilio Vaticano II, il cui «programma di rinnovamento» fu a volte «frainteso». In particolare, «vi fu una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari». In altre parole: negli anni successivi al Concilio, a causa di un malinteso senso di apertura nei confronti della cultura moderna, all'interno della Chiesa in tanti hanno creduto che non fosse necessario utilizzare il pungo di ferro (l'«approccio penale») nei confronti di chi si macchiava di certi gravissimi peccati, con la conseguenza di una «mancata applicazione delle pene canoniche in vigore» e della «mancata tutela della dignità di ogni persona». Invece che rivolgere critiche del tutto infondate a Benedetto XVI, dunque, certi vaticanisti progressisti farebbero bene a riflettere sullo sfascio prodotto da tanti anni di propaganda contro il rigore dei Papi in materia sessuale.


E, soprattutto, dovrebbero comprendere che con la sua coraggiosa lettera ai cattolici irlandesi il pontefice ha centrato in pieno il cuore della questione, rispondendo così a quella che è la sua prima missione come successore di Pietro: «Confermare i fratelli nella fede tenendoli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto». Quando Ratzinger afferma che è necessario «riflettere sulle ferite inferte al corpo di Cristo, sui rimedi, a volte dolorosi, necessari per fasciarle e guarirle, e sul bisogno di unità, di carità e di vicendevole aiuto nel lungo processo di ripresa e di rinnovamento ecclesiale»; quando, rivolgendosi alle vittime degli abusi e alle loro famiglie, esprime a nome della Chiesa «la vergogna e il rimorso che tutti proviamo», e chiede loro «di non perdere la speranza» perché Gesù «come voi porta ancora le ferite del suo ingiusto patire» e «comprende la profondità della vostra pena e il persistere del suo effetto nelle vostre vite e nei vostri rapporti con altri, compresi i vostri rapporti con la Chiesa»; quando con durezza ammonisce i sacerdoti che hanno abusato dei ragazzi («Avete perso la stima della gente dell'Irlanda e rovesciato vergogna e disonore sui vostri confratelli. Avete violato la santità del sacramento dell'Ordine Sacro, in cui Cristo si rende presente in noi e nelle nostre azioni») e quando li esorta a «riconoscere» le proprie colpe, a «sottomettersi» alle esigenze della giustizia, ma a non «disperare della misericordia di Dio»...


E ancora, quando ai giovani irlandesi ribadisce che «siamo tutti scandalizzati per i peccati e i fallimenti di alcuni membri della Chiesa» e quando ricorda loro che però «è nella Chiesa che voi troverete Gesù Cristo, che è lo stesso ieri, oggi e sempre. Egli vi ama e per voi ha offerto se stesso sulla croce. Cercate un rapporto personale con lui nella comunione della sua Chiesa, perché lui non tradirà mai la vostra fiducia!»; quando dice agli altri sacerdoti d'Irlanda che essi possono essere testimonianza vivente delle parole di San Paolo: «Dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia»; quando ad alcuni vescovi imputa gravi mancanze «nell'applicare le norme del diritto canonico codificate da lungo tempo circa i crimini di abusi di ragazzi» e li invita a «rinnovare il senso di responsabilità davanti a Dio», ad essere «sensibili alla vita spirituale e morale di ciascuno dei sacerdoti»; quando infine a tutti i fedeli d'Irlanda propone un cammino comune di penitenza, di preghiera e di adorazione eucaristica per giungere a quel «rinnovamento» nella fede che è la vera, grande risposta che la Chiesa può offrire ai credenti in questo tempo difficile...


Ebbene, quando scrive tutto ciò Benedetto XVI non nasconde la testa sotto la sabbia, non elude i problemi, non ne annacqua la gravità, ma li legge alla luce della fede e del mistero cristiano. Li pone cioè nell'unica prospettiva grazie alla quale i cattolici e la Chiesa possono ogni giorno sentirsi - ed essere - una «creatura nuova». Come diceva Chesterton, «il prezzo del perdono si chiama Verità».


Gianteo Bordero

mercoledì 17 marzo 2010

IL CARDINAL RUINI, UN GRANDE «DEFENSOR ECCLESIAE»

da Ragionpolitica.it del 17 marzo 2010

L'intervista che il cardinale Camillo Ruini ha concesso a Paolo Rodari del Foglio in merito alla vicenda dei preti che si sono macchiati di atti di pedofilia restituisce la figura di un grande «defensor ecclesiae» di cui - sia detto senza polemica - si sente la mancanza. L'ex presidente della Cei ed ex vicario del Papa non sottovaluta la portata del fenomeno dei sacerdoti coinvolti nei casi di abusi sessuali sui più piccoli, non ne sminuisce la gravità, ma, con la lucidità intellettuale e la chiarezza argomentativa che da sempre lo contraddistinguono, mette i puntini sulle i, cercando di guardare oltre l'apparenza e di chiamare le cose col loro vero nome.


«I reati di pedofilia - afferma - sono sempre infami, specialmente quando commessi da un sacerdote. Per questo è più che giusto denunciarli e reprimerli e, nella misura del possibile, aiutare le vittime a superarne le conseguenze». Detto questo, però, «non si può far finta di non vedere che l'attenzione di molti giornali e degli ambienti che si esprimono attraverso di essi si concentra sui casi di pedofilia dei sacerdoti cattolici, sicuramente non più frequenti di quelli di tante altre categorie di persone». E, soprattutto, «non si può nemmeno ignorare il tentativo tenace e accanito di tirare in ballo la persona del Papa». Insomma, dai tanti articoli che i media stanno dedicando alla vicenda spesso non emerge soltanto la sacrosanta cronaca di quanto sta accadendo, il doveroso rendiconto all'opinione pubblica, la presentazione della notizia e il commento ad essa. Si intravede anche una sorta di condanna preventiva nei confronti della Chiesa cattolica nel suo insieme, con conseguente tentativo di gettare fango in abbondanza sulla sua gerarchia, fino ad arrivare al pontefice. Così, se da un lato viene dato ampio risalto a ogni nuovo sospetto caso di preti coinvolti in episodi di pedofilia, altrettanto non avviene quando si tratta di concedere spazio ai chiarimenti, alle precisazioni, alle documentate smentite provenienti da fonte ecclesiale.


Tutto ciò, secondo Ruini, da un certo punto di vista non deve sorprendere. Non è una novità. «La campagna diffamatoria contro la Chiesa cattolica e il Papa» ha, per il cardinale, origini antiche. Essa, infatti, rientra in una strategia «che è in atto oramai da secoli e che già Friedrich Nietzsche teorizzava con il gusto dei dettagli. Secondo Nietzsche - argomenta il porporato - l'attacco decisivo al cristianesimo non può essere portato sul piano della verità ma su quello dell'etica cristiana, che sarebbe nemica della gioia di vivere». Per il filosofo tedesco, infatti, la più grande colpa del cristianesimo sarebbe quella di aver depotenziato, rammollito e rattrappito l'umanità, mettendone a tacere le forze vitali attraverso l'etica della mortificazione, del sacrificio, della rinuncia. E' una lettura falsa e deformata, che però ha fatto breccia in ampi settori delle nostre società.


E così siamo arrivati al cuore delle riflessioni dell'ex presidente della Cei, secondo cui l'obiettivo finale di questa cultura nichilista e radicaleggiante, che trova espressione nelle opere di Nietzsche, è quello di cancellare dal cuore e dalla mente dei popoli europei ed occidentali ogni traccia della concezione cristiana dell'uomo, che ha segnato nel profondo la loro storia. Una concezione per cui «la sessualità umana, fin dal suo inizio, non è semplicemente istintiva, non è identica a quella degli altri animali. E', come tutto l'uomo, una sessualità "impastata" con la ragione e con la morale, che può essere vissuta umanamente, e rendere davvero felici, soltanto se viene vissuta in questo modo». Da quando abbiamo assistito alla «rivendicazione dell'autonomia dell'istinto sessuale da ogni criterio morale», cioè da quando ogni limite all'appagamento di tale istinto è stato abolito nel nome della libertà sessuale, era inevitabile che diventasse difficile «far comprendere che determinati abusi sono assolutamente da condannare». Non è dunque certo colpa della Chiesa cattolica - che semmai è stata ed è vittima del trionfo della mentalità sopra descritta - se determinate pratiche sessuali trovano oggi così vasta diffusione, fino al punto di raggiungere anche qualche sacerdote.


Questo è il punto di cui oggi nessuno parla, preferendo mettere ipocritamente sul banco degli imputati la Chiesa e il Papa, come se fossero loro - che tra l'altro vengono accusati un giorno sì e l'altro pure, dall'intellighenzia radicale e laicista, di essere i paladini di una morale «sessuofobica» - ad aver alimentato la cultura dell'esaltazione sessuale ad ogni costo, dalla quale non potevano che venire abusi di ogni genere. Per questo, conclude Ruini rivolgendosi a coloro che in questi giorni sono impegnati a divulgare l'idea secondo cui la Chiesa altro non è che una congrega di pedofili, «non sarebbe forse più onesto e realistico riconoscere che queste e altre deviazioni legate alla sessualità», che pure «accompagnano tutta la storia del genere umano», oggi «sono ulteriormente stimolate dalla tanto conclamata "liberazione sessuale"?». Si attende una risposta.


Gianteo Bordero

venerdì 12 marzo 2010

NUOVE ELEZIONI, VECCHIA SINISTRA

da Ragionpolitica.it del 12 marzo 2010

Arriva il Csm con la condanna delle dichiarazioni di Berlusconi sui magistrati. Arriva (così scrive Il Fatto quotidiano) la Procura di Trani con una nuova inchiesta a carico del Cavaliere. E arriva la piazza per denunciare l'attentato alla democrazia che l'uomo di Arcore starebbe mettendo in atto. Come al solito, alla vigilia di ogni elezione, la sinistra politica, mediatica e giudiziaria non si fa mancare proprio nulla per tentare di sovvertire l'esito del voto, nella convinzione di poter azzoppare il leader del Popolo della Libertà e sottrarre così consensi alla coalizione di centrodestra. E' una strategia che in questi ultimi sedici anni non ha prodotto alcunché di significativo, e che anzi si è ritorta contro coloro che l'hanno studiata e attuata con certosina meticolosità: i partiti del centrosinistra sono nelle condizioni che tutti oggi possono vedere, privi di slancio riformatore, di idee e di programmi degni di tal nome; la magistratura registra anch'essa, da lunga pezza, un forte calo di fiducia da parte dei cittadini, i quali vorrebbero vedere, al posto dell'accanimento contro Berlusconi, un sistema giudiziario che funzionasse in modo decente, con tempi certi e processi giusti; i giornali e le trasmissioni gauchiste, infine, ridotti ormai a cucine che sfornano ogni giorno lo stesso piatto condito dai soliti presunti scoop contro il premier, sono diventati una nicchia in cui cercano rifugio elettori di sinistra delusi dai loro rappresentanti politici, una valvola di sfogo per ritrovare le parole e riascoltare i dogmi dell'antiberlusconismo militante.


Nonostante ciò, ogni volta che s'approssima un appuntamento elettorale va in scena lo stesso deprimente spettacolo, si alza il medesimo polverone, si respira il solito acre odore proveniente dalle centrali ideologiche della sinistra italiana, o meglio di quel che resta della sinistra italiana. Perché quando uno schieramento è costretto a ricorrere esclusivamente a strumenti extra politici per tentare di strappare qualche voto alla coalizione avversaria, significa che i suoi partiti ed i loro dirigenti con la Politica hanno chiuso da un bel po'. Tant'è vero che tutto fa brodo pur di non parlare di programmi, di progetti, insomma di tutto ciò che davvero può interessare ai cittadini in occasione di un'elezione. In questo modo l'unico punto programmatico rimane sempre quello: annientare il nemico, spazzare via il dittatore, cacciare l'usurpatore. Tutto così da ormai più di tre lustri, da Occhetto fino a Bersani, passando per Prodi, D'Alema, Rutelli, Veltroni, Franceschini - facce intercambiabili della stessa medaglia, cuochi diversi per la medesima zuppa.


La sinistra non ha dunque saputo trarre alcuna lezione dal suo travagliato percorso di questi sedici anni: ha continuato ostinatamente a suonare lo stesso spartito e continua a suonarlo anche oggi, dopo che gli italiani hanno mostrato in maniera chiara che non è quella la musica che vorrebbero sentire le loro orecchie. Eppure ogni volta i dirigenti della gauche sperano che sia la volta buona, che l'attacco concentrico a Berlusconi funzioni, produca i suoi effetti e mandi a casa il Cavaliere. Il quale, invece, il giorno dopo ogni tornata elettorale, quando si dirada la polvere sollevata dal circo mediatico-giudiziario e parlano soltanto i numeri delle urne, si riaffaccia sulla scena come il vincitore, come il più amato dagli italiani, come il leader che i cittadini vogliono alla guida del paese. Certo, tutto questo è logorante per la sinistra, ma fino a quando essa continuerà a rimandare a data da destinarsi il momento di un serio e coraggioso ripensamento di se stessa, del suo modo di concepire il paese e di porsi di fronte agli elettori, non ci sarà trippa per gatti. Ed avrà sempre il sopravvento, nei leader delle varie Unioni, Ulivi, Grandi Alleanze Democratiche, la tentazione di vincere a tavolino. O con l'aiuto delle inchieste. O cavalcando qualche scandalo che continuerà a sciogliersi come neve al sole.

Gianteo Bordero

mercoledì 10 marzo 2010

IL DISASTRO POLITICO DEL PD

da Ragionpolitica.it del 10 marzo 2010

Che il Partito Democratico sia «ammanettato a Di Pietro», come ha affermato qualche giorno fa il presidente del Consiglio, è confermato in pieno dalle sue ultime mosse. Due su tutte: la decisione di seguire l'ex pm nella protesta di piazza contro il decreto interpretativo della legge elettorale varato dal governo venerdì scorso e la scelta di imboccare la strada dell'ostruzionismo parlamentare, con la presentazione di 1700 emendamenti al disegno di legge sul legittimo impedimento - cosa che ha di fatto obbligato l'esecutivo ad apporre la questione di fiducia sul provvedimento al Senato. Cade così definitivamente la maschera «riformista» con la quale Bersani si era presentato al momento del suo insediamento alla guida del Pd, annunciando la chiusura della stagione dell'antiberlusconismo fine a se stesso portato avanti da Dario Franceschini. E, contestualmente, appare con chiarezza il vero volto di un partito che a tutt'oggi non riesce ad avere altra ragione sociale oltre all'avversione preconcetta, rancorosa ed in sostanza pre-politica all'uomo di Arcore.


Stante dunque la completa assenza di serie proposte programmatiche, che ha come prima conseguenza quella di rendere impossibile un confronto costruttivo con la maggioranza sul merito dei provvedimenti, è inevitabile che il Partito Democratico finisca schiacciato nella morsa del leader dell'Idv, che persegue con imperturbabile costanza la sua linea di delegittimazione totale del premier, gridando un giorno sì e l'altro pure al ritorno del fascismo nel nostro paese e denunciando una improbabile reincarnazione del Duce nel corpo del Cavaliere. Come ha osservato Vittorio Macioce su Il Giornale del 9 marzo, oggi «tutta la politica di questa magnifica opposizione si riduce a tre parole: piazza, tribunali e ostruzionismo».


Il problema, per il Pd, è che nella gara a chi è più antiberlusconiano, a chi riesce a intercettare quella fetta di elettorato convinta che il presidente del Consiglio rappresenti l'esatto contrario della democrazia e sia quindi un cancro da estirpare per salvaguardare le regole costituzionali a fondamento della Repubblica, sarà sempre più bravo e più credibile Di Pietro, che almeno ha il merito - se così possiamo chiamarlo - di non mostrarsi ondivago e incerto, agli occhi dell'opinione pubblica, nella caccia al dittatore e ai suoi complici più o meno occulti. Per questo, ad esempio, l'ex pm ha ragione - ovviamente dal suo punto di vista - quando denuncia l'ipocrisia del Partito Democratico nella vicenda della critica al decreto legge elettorale varato dal governo e firmato dal presidente della Repubblica: se di «attentato alla democrazia e alla Costituzione» si tratta - ragiona il leader dell'Idv - è chiaro che pesanti responsabilità per l'accaduto debbono essere attribuite anche al capo dello Stato. Tanto più che egli non soltanto ha dato il suo via libera al provvedimento governativo, ma ha anche spiegato pubblicamente, con una lettera su internet, le ragioni che lo hanno spinto a compiere tale gesto. Stracciandosi le vesti per il decreto ma tenendo fuori dalle polemiche l'inquilino del Colle, il Pd si arrampica sugli specchi e dimostra, infine, di non essere credibile né quando annuncia svolte epocali rispetto al suo atavico antiberlusconismo, né quando prova a battere Di Pietro sul terreno della contestazione radicale del Cavaliere.


Insomma, un vero disastro politico, che oggi il partito di Bersani tenta di nascondere in tutti i modi possibili, anche cavalcando in maniera a dir poco irresponsabile la vicenda della mancata ammissione della lista del Pdl nella provincia di Roma, come se correre in queste condizioni rappresentasse una vittoria della democrazia e garantisse il diritto dei cittadini di scegliere coloro dai quali vogliono essere governati. Come spiegare tale atteggiamento del Partito Democratico? «La speranza, o l'illusione, della classe dirigente del Pd - ha scritto ancora Macioce - è tornare al 1994, chiudere in una parentesi il berlusconismo e ricominciare da capo. È chiaramente una follia umana e politica, ma ha finito per condizionare il Dna della sinistra, la sua cultura, i suoi orizzonti, la sua visione del mondo. Questa è una sinistra che da quasi vent'anni non produce nulla di nuovo ed è impermeabile a tutto». Una sinistra, dunque, che da più di tre lustri è ferma al punto di partenza, priva di vitalità, prigioniera di un vuoto politico ed esistenziale che fa tornare alla mente le parole di Dino Buzzati nel Deserto dei Tartari: «Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme e intorno né una casa né un uomo né un albero, neanche un filo d'erba, tutto così da immemorabile tempo».

Gianteo Bordero

lunedì 8 marzo 2010

DA NAPOLITANO UNA LEZIONE DI POLITICA E DIRITTO COSTITUZIONALE AL PD

da Ragionpolitica.it dell'8 marzo 2009

Curioso destino, quello di Giorgio Napolitano. Eletto presidente della Repubblica da una sola parte politica (il centrosinistra prodiano nel 2006), oggi egli si ritrova più o meno esplicitamente accusato, dagli stessi che lo mandarono al Quirinale, di intelligenza con il nemico. Il motivo del risentimento è noto: la decisione del capo dello Stato di firmare il decreto legge interpretativo delle norme elettorali varato venerdì dal governo Berlusconi. Se le critiche - per usare un gentile eufemismo - rivolte all'inquilino del Colle da Antonio Di Pietro erano in qualche modo da mettere in conto, stessa cosa non può dirsi dell'atteggiamento incerto ed ondivago del Partito Democratico, che, come il duca di Barnabò di una celebre canzoncina per bambini, si è collocato a mezza via tra il (debole) sostegno a Napolitano e la (forte) tentazione di seguire il leader dell'Idv sulla strada della delegittimazione totale di chiunque fosse coinvolto nell'affaire del decreto governativo. Un atteggiamento, questo del Pd, che non solo ha rivelato una volta di più la congenita fragilità politica del partito di Bersani - incapace di lasciare spazio a una linea genuinamente «istituzionale», ragionevole e di buon senso, e costantemente in preda ai mai sopiti istinti antipolitici e antiberlusconiani - ma ha anche spinto il capo dello Stato a procedere da sé nella difesa delle ragioni che lo hanno spinto a dare il via libera al decreto.


Il presidente della Repubblica lo ha fatto attraverso una lettera pubblicata sabato pomeriggio sul sito internet del Quirinale, con la quale ha risposto alle mail di due cittadini, una favorevole al decreto, l'altra contraria. Il messaggio di Napolitano, di cui molto si è parlato in questi ultimi giorni, è importante non soltanto per ciò che attiene al fatto di specie, ma anche perché impartisce al centrosinistra una lezione di politica e di diritto costituzionale di cui Bersani & CO. farebbero bene a tener conto nel prosieguo del loro cammino, onde evitare ulteriori brutte figure e di finire in uno stato di totale soggezione politica a Di Pietro.


Dopo aver spiegato che sarebbe stata insostenibile una competizione elettorale dalla quale fosse rimasto escluso il partito di maggioranza relativa, il capo dello Stato innanzitutto ricorda agli smemorati dello schieramento gauchista che erano stati proprio loro, nei giorni precedenti il varo del decreto, ad annunciare di non voler vincere «per abbandono dell'avversario» o «a tavolino». Per questo, in quelle ore - scrive Napolitano - «si era da più parti parlato della necessità di una "soluzione politica"», ma «senza chiarire in che senso ciò andasse inteso». Come dire: cari signori della sinistra che oggi urlate allo scandalo, eravate stati proprio voi a dire di non voler gareggiare in solitaria. Perché, dunque, non mi avete indicato una strada percorribile? E perché vi stracciate le vesti nel momento in cui io firmo un atto che consenta una competizione «con la piena partecipazione dei diversi schieramenti»?


Ma non è tutto. Perché il capo dello Stato, preso atto che in piena campagna elettorale raggiungere un accordo tra le coalizioni è risultato di fatto impossibile, prosegue con rigore il suo affondo. E scrive che, anche qualora si fosse trovata la suddetta «soluzione politica», essa «avrebbe pur sempre dovuto tradursi in una soluzione normativa», cioè in un «provvedimento legislativo che intervenisse tempestivamente». E quel provvedimento, dati i tempi ristretti a cui si era giunti, altro non poteva essere che un decreto. Come dire, anche qui: se davvero tutti coloro che hanno dichiarato di avere a cuore un'elezione non falsata dalla mancata partecipazione del Pdl fossero in buona fede, avrebbero dovuto sapere che la Carta costituzionale, in casi d'urgenza, prevede un solo strumento: quello del decreto legge. Perché dunque scendere in piazza, urlare al regime e parlare di «attentato alla Costituzione» e simili amenità? Soprattutto quando nessuno è stato in grado di indicare «quale altra soluzione, comunque inevitabilmente legislativa - rimarca con puntiglio Napolitano - potesse essere ancora più esente da vizi e dubbi di costituzionalità»?


Due a zero e palla al centro. Di fronte agli argomenti usati dal capo dello Stato si scioglie come neve al sole il tentativo del Pd e del suo segretario di caricare tutta la responsabilità del decreto legge sulle spalle del governo. L'idea che Napolitano abbia «subìto» l'atto governativo è smentita dalle stesse parole del presidente della Repubblica, che rivendica il fatto di aver rigettato la prima ipotesi di decreto prospettatagli dall'esecutivo giovedì sera e di non aver poi riscontrato profili di incostituzionalità nel testo definitivo del provvedimento. Scrive in conclusione l'inquilino del Colle: «Io sono deciso a tenere ferma una linea di indipendente e imparziale svolgimento del ruolo, e di rigoroso esercizio delle prerogative, che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica, nei limiti segnati dalla stessa Carta e in spirito di leale cooperazione istituzionale». Ad essersi incartato - per così dire - non è dunque il capo dello Stato, ma un Partito Democratico che, come ha affermato domenica Berlusconi, rischia per l'ennesima volta di finire «ammanettato a Di Pietro», al suo massimalismo e al suo scarso, se non nullo, senso delle istituzioni.

Gianteo Bordero

sabato 6 marzo 2010

IL PD IN UN VICOLO CIECO

da Ragionpolitica.it del 6 marzo 2010

Invece delle «forze armate per fermare il dittatore», come auspicava il solito Antonio Di Pietro, venerdì sera è arrivata la firma del presidente della Repubblica al decreto legge del governo finalizzato a garantire il regolare svolgimento delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo. Così la sinistra, che negli ultimi giorni aveva gridato all'abuso di potere, al golpe strisciante, all'imminente attentato alla democrazia messo in atto dal Cavaliere Nero, si ritrova oggi, per l'ennesima volta, con il proverbiale pugno di mosche in mano, costretta nuovamente a ricorrere alla piazza per mascherare la sua inconsistenza politica e la sua incapacità di confrontarsi seriamente e responsabilmente con le forze di maggioranza.


Il discorso vale in particolar modo per il Partito Democratico di Pier Luigi Bersani, che ha mantenuto un atteggiamento di chiusura preconcetta alle proposte del centrodestra, con la tacita speranza di poter trarre profitto dal caos sorto in seguito alla bocciatura della lista del Pdl nella Provincia di Roma e del listino di Formigoni in Lombardia ed ottenere così un successo a tavolino, in una gara senza competitori, in due Regioni chiave per stabilire vincitori e vinti della consultazione di fine marzo. Ha fatto ancora una volta capolino il solito vizietto post-comunista di gareggiare azzoppando gli avversari o escludendoli dall'agone. L'inebriante odore della conquista del potere fine a se stessa ha avuto la meglio sulle voci sagge e ragionevoli (su tutte quella di Massimo Cacciari) che consigliavano alla dirigenza del Pd di considerare gli effetti di un voto di fatto falsato dalla mancata partecipazione del partito di maggioranza relativa.


Così Bersani si è infilato in un vicolo cieco. Messosi al traino di Di Pietro nei giorni precedenti il varo del decreto legge, oggi si ritrova nella sgradevole situazione di dover da un lato prendere le distanze dal suo alleato di ferro quando arriva a chiedere addirittura l'impeachment per Giorgio Napolitano - definito dall'ex pm «correo, non arbitro imparziale» - e dall'altro lato di garantire comunque l'adesione del Pd alla manifestazione di piazza annunciata per il prossimo sabato, dove è prevedibile che il capo dello Stato continuerà ad essere preso di mira dal popolo viola e dai militanti della sinistra, e dove il leader dell'Idv giocherà ancora una volta con astuzia il suo ruolo incontrastato di arruffapopoli per conquistare consensi in vista del voto.


Sono questi i risultati inevitabili di una strategia confusa, incerta e sempre oscillante tra il «vorrei ma non posso» di un rapporto non perennemente guerreggiato con la maggioranza e la tentazione di cedere agli istinti belluini di una piazza antipolitica e antiberlusconiana considerata come un serbatoio di voti irrinunciabile per il Pd. Nei giorni scorsi, subito dopo l'annuncio dell'esclusione delle liste del Pdl, il partito di Bersani era convinto di poter cavalcare la cresta dell'onda e di navigare col vento in poppa verso un inaspettato trionfo alle elezioni di fine marzo, soprattutto in una Regione come la Lombardia, da sempre feudo indiscusso del centrodestra. Oggi, dopo il sì del presidente della Repubblica al decreto del governo, la riammissione del listino di Formigoni e l'immediata offensiva di piazza di Di Pietro, l'entusiasmo lascia il passo alla delusione e alla disillusione: i nodi vengono al pettine e il Partito Democratico è costretto a tornare coi piedi per terra, a fare i conti con le sue contraddizioni e con l'incapacità congenita di porsi come soggetto che traccia la rotta stabile di una coalizione e che rinuncia a farsi guidare dalla prima nave pirata di passaggio.


Gianteo Bordero

mercoledì 3 marzo 2010

E IL GALLI CANTÒ...

da Ragionpolitica.it del 3 marzo 2010

In attesa che si sbrogli l'intricata matassa dei ricorsi riguardanti la presentazione delle liste del Pdl in Lazio e in Lombardia, con l'auspicio - messo nero su bianco dal coordinamento nazionale del partito - che possa essere «acclarata la realtà dei fatti» e «consentito l'avvio in condizioni di normalità e di massima serenità della prossima campagna elettorale», non si può rimanere silenti di fronte a quanto scritto sul Corriere della Sera da Ernesto Galli della Loggia nell'editoriale del 3 marzo. Dall'alto del suo pulpito intellettuale, il professore prende spunto dalle recenti vicende che hanno interessato il Popolo della Libertà per dipingere un quadro del partito talmente desolante che, se corrispondesse al vero, farebbe legittimamente sorgere più di una domanda sulla sanità di mente di coloro che lo votano, sui molti milioni di donne e di uomini che da due anni a questa parte hanno assegnato la loro preferenza alla nuova creatura di centrodestra.


Secondo Galli della Loggia il Pdl altro non sarebbe che «una somma di rissosi potentati locali riuniti intorno a figuranti di terz'ordine, rimasuglio delle oligarchie e dei quadri dei partiti di governo della prima Repubblica. E tra loro, mischiata alla rinfusa, gente dai dubbi precedenti, ragazze troppo avvenenti, figli e nipoti, genti d'ogni risma ma di nessuna capacità». E ancora: una «confusa accozzaglia», una «misera rappresentanza». E' questo, secondo l'editorialista del Corriere, il frutto bacato di quindici anni di esperienza politica del centrodestra in Italia, l'esito deprimente della leadership di Berlusconi. Un uomo che - sentenzia il professore - ha una concezione talmente ridotta e distorta della politica da ritenere che essa si esaurisca nel «vincere le elezioni e poi comandare». Un uomo, dunque, senza un'idea di paese, senza una cultura politica alle spalle, privo del «gusto e della capacità di governare».


Evidentemente Galli ha una considerazione talmente bassa degli italiani da ritenere che essi siano incapaci di comprendere quello che lui invece ha già compreso: la totale inconsistenza politica del centrodestra, del Popolo della Libertà oggi e di Forza Italia ieri, e ovviamente di Berlusconi. Se gli elettori avessero visto ciò che l'intellettuale ora annuncia, probabilmente, anzi sicuramente non avrebbero per tre lustri continuato a votare in maggioranza per una coalizione sgangherata, per un partito di plastica oggi divenuto «partito fantasma», per un leader senza arte né parte. E infatti il professore, nel suo editoriale, sul banco degli imputati non ci mette soltanto il Cavaliere, ma anche «la società italiana», incapace di elaborare, dopo la fine dei partiti storici e delle culture politiche del Novecento con la caduta del Muro di Berlino e la vicenda di Mani Pulite, una nuova «visione per l'avvenire». Dopo il 1993, secondo Galli, non ha fatto capolino sulla scena politica «nessuna idea nuova, nessuna indicazione significativa, nessuna nuova energia realmente politica è scesa in campo. Niente».


E naturalmente questo niente, questo vuoto, questo deserto - conclude il professore - «è più sensibile a destra, e più sensibili ne sono gli effetti negativi». Perché bene o male - argomenta - a sinistra è rimasto il deposito della Prima Repubblica, una parte del suo personale politico con esperienza di governo, gli eredi della Dc (di sinistra) e del Pci, che hanno portato in dote «la propria esperienza e le proprie capacità» - come ben si è visto negli anni di governo prodiano, aggiungiamo noi. Invece alla destra «è toccato solo il resto: a cui poi, per il sopraggiunto, generale, discredito della politica, non si è certo aggiunto il meglio del paese». Questa di Galli della Loggia è la versione intellettualmente rielaborata, ma non per questo sostanzialmente meno rozza, della ormai celeberrima espressione con cui Romano Prodi ebbe una volta a definire Forza Italia: «Il nulla». L'editorialista del Corriere ci ricama sopra con le sue analisi, ma gira che ti rigira il messaggio è quello: il centrodestra è lo zero politico, il Pdl un contenitore che raccoglie il peggio del paese, e Berlusconi il suo degno portabandiera.


Qui siamo ben oltre gli appelli al voto per il centrosinistra di Paolo Mieli: siamo alla delegittimazione totale, rabbiosa e unilaterale di un partito, della sua storia, del suo stesso esserci, e alla condanna intellettuale di coloro che lo votano. Tutto questo in piena campagna elettorale e sulla prima pagina di un giornale che fa vanto di moderazione e si proclama super partes, ma che, di fatto, non è meno fazioso, partigiano e schierato del suo concorrente La Repubblica.


Gianteo Bordero

lunedì 1 marzo 2010

IL PD IN VIOLA

da Ragionpolitica.it del 1° marzo 2010

Commentando l'adesione del Pd alla manifestazione del cosiddetto «popolo viola» svoltasi sabato a Roma, Maria Teresa Meli ha scritto sul Corriere della Sera (28 febbraio) che «il Partito Democratico sotto elezioni riscopre l'antiberlusconismo». In realtà, non si tratta di una riscoperta, bensì dell'emersione di un sentimento che non ha mai cessato, da sedici anni a questa parte, di battere forte nel cuore e nella mente dei rappresentanti del centrosinistra italiano. Un sentimento che ne ha caratterizzato e ne caratterizza ancora oggi le scelte strategiche di fondo, come quella di tentare di rimettere in piedi una larga alleanza che vada da Rutelli e Casini fino alla sinistra di Vendola, unicamente nel nome della cacciata del Cavaliere, senza alcun comune denominatore programmatico e politico degno di tal nome.


Del resto, bastava leggere gli slogan che campeggiavano sugli striscioni di piazza del Popolo per capire che la «nuova opposizione» a Berlusconi - se così possiamo chiamarla - è ancora una volta tenuta insieme soltanto dall'odio, dal disprezzo e dal rancore nei confronti del presidente del Consiglio, dipinto alla stregua di un incallito criminale e descritto dal solito Di Pietro come capo di un governo «fascista e piduista». Il sogno del «popolo viola» e dei partiti presenti sabato all'adunata romana, quindi anche del Pd, è uno soltanto, sempre lo stesso, ben rappresentato da numerosi cartelli issati dai manifestanti: vedere l'uomo di Arcore in ceppi, rinchiuso nelle patrie galere, costretto ai lavori forzati come il peggiore dei delinquenti.


«I have a dream», recitavano le gigantografie con la caricatura del premier con la divisa da carcerato, la palla al piede e la piccozza in spalla. Solo due anni fa lo stesso memorabile motto di Martin Luther King era stato usato per tutt'altri scopi dall'allora leader del Partito Democratico, Walter Veltroni, che al Lingotto di Torino, acclamato come il salvatore della patria dopo la disastrosa esperienza di governo dell'Unione prodiana, aveva provato a mettere fine alla stagione dell'antiberlusconismo ideologico e a tratteggiare una sinistra diversa, non più prigioniera della sua perenne ossessione ad personam e capace di proporre al paese un'agenda autenticamente e sanamente riformista. Sappiamo tutti com'è andato a finire quel tentativo. E la distanza che separa il progetto di una gauche italiana moderna e responsabile dalla situazione attuale è tutta in questo passaggio dall'«I have a dream» di Veltroni all'«I have a dream» della manifestazione di sabato: gli spiriti animali della sinistra hanno avuto la meglio sulla paziente tessitura politica, la pancia ha prevalso sulla ragione, il tornaconto immediato sulla prospettiva strategica, l'antipolitica sulla politica. E così sia.


Tutto ciò è avvenuto e avviene con l'assenso di un segretario come Pier Luigi Bersani, che solo pochi mesi fa aveva detto «no» all'adesione ufficiale del Partito Democratico al «No-B day» - la prima uscita del «popolo viola» - in nome di una opposizione diversa da quella condotta da Di Pietro. Sembrava un gesto coraggioso, quello di Bersani, che lasciava finalmente intravedere la possibilità di un'uscita del Pd dal giustizialismo duro e puro e di un confronto costruttivo tra centrodestra e centrosinistra sulle grandi questioni di interesse nazionale. E' bastato poco per capire che si trattava dell'ennesima dichiarazione di intenti a cui non avrebbe fatto seguito alcuna svolta politica concreta: tant'è vero che, pressato dalle scadenze elettorali, per mettere al sicuro innanzitutto la sua poltrona, il segretario del Pd si è premurato di stringere un patto di ferro con l'ex pm in vista delle ragionali, suggellando poi tale alleanza, con tanto di baci e abbracci a Tonino, durante il congresso dell'Idv.


Tutto ciò dimostra che, nella sostanza, non vi è alcuna «riscoperta» dell'antiberlusconismo, per il semplice fatto che non c'è mai stato un autentico, riscontrabile abbandono dello stesso da parte del partito post-comunista italiano. Come si è visto anche nel caso dell'inchiesta sulla Protezione Civile, con la richiesta di dimissioni di Bertolaso giocata da Bersani come carta contro il governo, alla fine nel Pd prevale sempre il richiamo della foresta giustizialista e anti-Cavaliere. E' la memoria degli anni di Mani Pulite che si fa sentire, è la stessa ragione sociale degli eredi del Pci nella Seconda Repubblica che reclama il suo spazio, condizionandone ogni mossa, ogni pensiero, ogni scelta strategica.


Gianteo Bordero