martedì 30 settembre 2008

WALTER SENZA POLITICA

da Ragionpolitica.it del 30 settembre 2008

Un tempo, a guidare il glorioso Partito Comunista Italiano, c'era il «Migliore», al secolo Palmiro Togliatti. Passano gli anni, passano i decenni. Cade il Muro. Il Pci cambia nome: prima Pds, poi Ds. E finalmente Pd, Partito Democratico. Niente più comunismo. Niente più sinistra. E niente più «Migliore». Oggi è il tempo del suo contrario. La parabola incominciata con Togliatti ha ora il suo epilogo in Veltroni. Dal «Migliore» al «Peggiore», il più mediocre capo che la storia comunista e post-comunista in Italia abbia mai avuto. Una carriera costellata da sconfitte e fallimenti politici, a partire dalla guida della segreteria diessina che portò il partito ai minimi storici (16,6%) nelle elezioni del 2001, per finire con la débacle del 13 e 14 aprile scorsi. In mezzo, i lunghi anni alla guida della Capitale, gli anni del nuovo mito romano e delle Notti Bianche, del modello Roma come migliore dei mondi possibili. Finito nella polvere anche quello, con il Comune in deficit per svariati miliardi di euro e la vittoria di Gianni Alemanno alle ultime amministrative.

Con questo curriculum, rimane un mistero il perché sia stato scelto uno come Veltroni a guidare il Partito Democratico. Forse, essendo egli l'uomo dell'affabulazione immaginifica, è sembrato il più adatto a creare un nuovo racconto per la sinistra italiana rimasta orfana delle grandi narrazioni ideologico-politiche, da ultimo quella del prodismo - il sogno della grande alleanza tra tutti i partiti della Costituzione e della Resistenza, secondo l'insegnamento di don Giuseppe Dossetti. Quello che Veltroni mette in scena al Lingotto di Torino nel giugno del 2007, dopo essere stato invocato come il salvatore della patria dalla «grande stampa» nazionale, è un sublime esercizio oratorio ma privo di sostanza, un bel romanzo suggestivo ma senza realtà. La nuova stagione, la discontinuità con il passato, un clima diverso tra gli schieramenti politici, un riformismo coraggioso, l'abbandono dell'antiberlusconismo. Parole, parole, parole. Castelli di sabbia pronti a crollare al primo impatto con l'onda del reale.

Lo si vede oggi, con il governo Berlusconi ancora in piena luna di miele con gli italiani, forte dei successi già conseguiti in appena quattro mesi di attività, e un Partito Democratico non soltanto in calo nei sondaggi rispetto al già deludente risultato del 13 e 14 aprile, ma anche in perenne stato confusionale riguardo alla sua stessa identità e alla sua strategia di opposizione al centrodestra. E con un segretario, Veltroni, che sembra aver perso ogni solido contatto con lo stato delle cose. Al punto da rimangiarsi come se niente fosse tutto ciò che aveva spregiudicatamente usato per presentarsi come il «nuovo che avanza» alla guida del Pd e che oggi è uno sbiadito ricordo del passato.

Chi sia Veltroni appare ora in tutta la sua evidenza: un erede qualsiasi della vecchia scuola di «doppiezza» comunista. Senza neppure il talento politico di alcuni suoi predecessori. Lo si poteva già capire prima delle ultime elezioni, quando egli, dopo aver invocato la fine della stagione della demonizzazione dell'avversario e dopo aver messo al bando le coalizioni tenute insieme soltanto dall'odio per il nemico, stipulò l'alleanza con Antonio Di Pietro, che di quella stagione e di quel tipo di coalizioni era il simbolo perfetto. Ancora, lo si poteva già capire quando, invece che imboccare senza indugi e concretamente la via dell'auspicato «dialogo» sulle riforme istituzionali e costituzionali, dopo diversi tentennamenti preferì ritornare allo scontro frontale e alle petizioni per «salvare l'Italia» dal centrodestra e da Berlusconi.

Non devono dunque stupire le ultime uscite veltroniane, da quella sul suo presunto ruolo decisivo nella soluzione della crisi Alitalia a quella sul pericolo di una deriva autoritaria e «putiniana» nel nostro paese con il Cavaliere al governo. Veltroni, come ha sempre fatto nel corso della sua carriera politica, fiuta l'aria del momento e ad essa adegua le sue posizioni, come fece all'indomani dell'omicidio di Giovanna Reggiani, quando, ancora sindaco di Roma, dopo aver per anni lasciato che i campi nomadi crescessero indisturbati nella Capitale, usò nei confronti dei Rom parole che gli valsero l'epiteto di «razzista» persino da parte di importanti autorità romene.

Veltroni non ha una politica e il veltronismo non è un pensiero politico. Come ha scritto Francesco Natale su queste pagine, il segretario del Partito Democratico «è soltanto un ottimo manager di se stesso e della propria immagine. E' una piccola holding che come oggetto sociale ha la promozione mediatica del proprio ruolo, indipendentemente dai rovesci elettorali, dei quali si fa un baffo. Per Veltroni la Politica, quella con la P maiuscola, quella fatta da e con le idee, non ha nemmeno più valenza hobbystica». Così, mentre la classe politica e di governo è alle prese con la vertenza Alitalia, egli può tranquillamente starsene negli Stati Uniti a presentare libri e presenziare a banchetti: ciò che conta, alla fine, è che il logo, il marchio «Veltroni», sia sempre sulla cresta dell'onda, e se non va bene in politica allora si rimedia con la letteratura e i vernissage. Nel caso peggiore, con l'Africa tanto amata.

Questo nullismo politico del segretario del Pd può certo garantire un lungo governo all'alleanza Pdl-Lega, ma pone un serio problema sia alla sinistra che al sistema politico nel suo complesso: la definizione di che cosa sia, oggi, l'opposizione al centrodestra, e se sia possibile una politica diversa da quella del dipietrismo, del grillismo e del girotondismo.

Gianteo Bordero

domenica 28 settembre 2008

SOVIORE, 28 SETTEMBRE 2008




venerdì 26 settembre 2008

UNA CONTINUITA' DI FONDO

da Ragionpolitica.it del 25 settembre 2008

La lettura più superficiale e politicamente scontata delle ultime dichiarazioni pubbliche del presidente della Conferenza Episcopale italiana sarebbe questa: se la CEI di Ruini parteggiava fin troppo esplicitamente per il centrodestra, la CEI di Bagnasco si è spostata a sinistra e ora prende a cannonate non più i laicisti e mangiapreti della gauche, bensì i razzisti della droit. Ebbene, questa lettura, seppur in voga su molti quotidiani in questi ultimi giorni, fa acqua da tutte le parti. Perché è sbagliato innanzitutto il punto di partenza da cui essa muove per tirare le sue sgangherate conclusioni.

La Conferenza Episcopale italiana, da almeno 15 anni a questa parte, non ragiona più in termini di partiti e di schieramenti, ma avendo come stella polare in politica una presenza trasversale dei cattolici in grado di garantire una solida diga in difesa del bene comune e di quei «principi non negoziabili» quali la vita, la famiglia, l'educazione. Questa linea consente di mantenere ferma la possibilità di prese di posizione e interventi forti e inflessibili sui valori e, allo stesso tempo, di non «compromettersi» troppo con un particolare partito o gruppo di partiti. E' una linea che era già emersa con Giovanni Paolo II negli anni della crisi della Dc durante i Convegni ecclesiali della CEI, e che ora ha trovato la sua piena esplicitazione nel pontificato di Benedetto XVI: non si tratta di un disimpegno della Chiesa italiana dalle cose della politica, ma di un distacco dalle mutevoli vicende partitiche per mantenere una libertà di azione e di giudizio altrimenti non garantita dall'identificazione con una sola sigla.

Colui che ha trasformato in realtà questa prospettiva, checché ne dicano i suoi detrattori, è stato il cardinal Camillo Ruini, che l'ha spinta sino alle sue estreme conseguenze in occasione del referendum sulla procreazione assistita del giugno 2005. Allora il porporato si mise a capo del fronte dell'astensione, raccogliendo attorno a sé un ampio consenso di uomini politici, partiti, associazioni. Fu certamente un'opera politica tout court, un intervento diretto della Conferenza Episcopale di fronte a un fatto che avrebbe potuto aprire la strada, anche nel nostro paese, alla deriva eugenetica collegata alla mancanza di regole nella manipolazione dell'embrione. Il referendum fallì, il testo della legge 40 rimase quello approvato dal parlamento, il cardinale - lui, non i partiti - ne uscì come il vero vincitore della partita.

Da allora, con Papa Ratzinger da poco insediato sul soglio petrino, è iniziata ad apparire più chiara la linea dei «principi non negoziabili», si è creato un vasto network cattolico - e non solo - a supporto delle battaglie della Chiesa sulla difesa della vita dal concepimento al suo termine naturale, della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, della libertà di educazione. Battaglie certo culturali, antropologiche, ma pronte a divenire «politiche» nel momento in cui questi temi siano oggetto di intervento da parte del legislatore (si pensi al disegno di legge sui Dico proposto dal governo Prodi e, per venire all'attualità, alla questione del testamento biologico e del fine vita).

Lo stesso Benedetto XVI ha più volte apertamente elogiato questo modello di intervento politico della Chiesa. Lo ha fatto nei suoi documenti e nei suoi discorsi pubblici, come quelli tenuti in occasione del viaggio apostolico negli Stati Uniti d'America, dal 15 al 21 aprile scorso. Allora il Papa affermò che occorre «respingere la falsa dicotomia tra fede e vita politica, poiché, come ha affermato il Concilio Vaticano II, "nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al dominio di Dio"». Sullo sfondo rimane, come sempre, l'idea della necessità di rafforzare la presenza del cattolico nella società contemporanea in primis attraverso la conversione personale e la testimonianza nella vita quotidiana, poi nell'esperienza comunitaria ecclesiale, infine nell'agone della politica, della cultura, della scienza. La politica, insomma, non è mai il primo obiettivo della presenza cristiana nella società, ma una sua possibile conseguenza, uno degli sbocchi che essa può avere.

Su questa linea si muove anche il cardinal Bagnasco, che certamente ha un temperamento personale meno «politico» di quello del suo predecessore alla guida della CEI, ma che non per questo può essere ritenuto l'anti-Ruini. Le sue parole sulla necessità di una legge riguardante il fine vita, che molti media hanno confuso con la legittimazione del testamento biologico, nascono in realtà dalla stessa motivazione che aveva spinto Ruini, nel 2005, a promuovere l'astensione nel referendum sulla procreazione assistita difendendo la legge varata dal parlamento secondo la logica del «male minore». In questo caso, meglio una legge che regoli il delicato e drammatico momento della fine della vita «riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita» (che però «non avranno la necessità di specificare alcunché sul piano dell'alimentazione e dell'idratazione, universalmente riconosciuti ormai come trattamenti di sostegno vitale») piuttosto che il caos senza regole in cui è un magistrato a poter introdurre di fatto l'eutanasia in Italia.

Bagnasco non possiede certamente tutto l'appeal mediatico di Ruini, ma è proprio la lunga guida dell'ex cardinal vicario a rendere possibile, oggi, il discorso dell'arcivescovo di Genova sul fine vita (e a rendere possibile, sotto un altro aspetto, il richiamo al governo sulla questione dell'immigrazione). Insomma: se una buona legge verrà promulgata e la legalizzazione dell'eutanasia evitata, ancora una volta l'avrà vinta Ruini.

Gianteo Bordero

mercoledì 24 settembre 2008

VOGLIA DI GIUSTIZIA

da Ragionpolitica.it del 23 settembre 2008

Il 59% degli italiani ritiene necessaria e non procrastinabile una riforma che renda più efficiente, rapido e vicino al cittadino il sistema giudiziario. Se a ciò si aggiunge un altro 33% secondo il quale tale riforma è opportuna, ma non prioritaria, si arriva a un 92% di nostri connazionali comunque favorevoli a una svolta decisa in materia di giustizia. I dati emergono da un sondaggio ISPO per il Corriere della Sera, pubblicato sul quotidiano di Via Solferino domenica 21 settembre. Si tratta di numeri che parlano chiaro e che non lasciano spazio a dubbi: la stragrande maggioranza degli italiani vuole un'amministrazione della giustizia più efficace, soprattutto per quanto riguarda l'azione punitiva nei confronti della criminalità. Al punto che potremmo affermare che la riforma del sistema giudiziario rappresenta un corollario del bisogno di sicurezza dei cittadini, i quali non vogliono soltanto maggiore ordine e tranquillità nei centri cittadini e nelle periferie, ma anche un sistema di repressione che, nel momento in cui tale ordine e tale tranquillità venissero violati, sia pronto ad entrare in azione all'insegna della «tolleranza zero», garantendo poi una certezza della pena reale e non solo verbale.

Stando così le cose, non deve stupire un altro dato fornito dal sondaggio condotto da Renato Mannheimer: il 68% degli italiani dà una valutazione negativa dell'attuale sistema giudiziario italiano, ritenendolo evidentemente non all'altezza della situazione. La fiducia nei confronti della magistratura continua a scendere: basti pensare che nello scorso mese di gennaio essa si attestava, secondo un'indagine Eurispes, al 42,5%. Il dato che oggi l'ISPO rileva è agli antipodi rispetto ai primi anni Novanta, gli anni d'oro di Mani Pulite e della grande ondata giustizialista, quando il gradimento per l'opera di giudici e pm viaggiava attorno al 70%. E' chiaro che i grandi processi mediatico-giudiziari contro i politici non interessano più la maggior parte dei cittadini (resta lo zoccolo duro rappresentato dai seguaci di Antonio Di Pietro, Paolo Flores d'Arcais, Marco Travaglio, Beppe Grillo), i quali chiedono innanzitutto che la magistratura si occupi con severità di quei reati che li colpiscono con sempre più alta frequenza nella vita quotidiana (furti, rapine, scippi, minacce, ricatti, violenze personali di vario genere) e che, nella maggior parte dei casi, o restano impuniti oppure vedono il colpevole cavarsela con qualche mese di detenzione (quando va bene) e libero, dopo poco tempo, di tornare a delinquere.

I numeri citati, infine, sembrano smentire le tesi secondo cui quelli della sicurezza e dell'efficienza della giustizia sarebbero problemi creati ad arte da Berlusconi e dal centrodestra per fomentare l'allarmismo e conquistare così facili consensi. L'intellighenzia politicamente corretta, in questi ultimi mesi, ha continuato imperterrita ad affermare che l'insicurezza e il malfunzionamento del sistema giudiziario sono mere «percezioni» a cui non corrisponde alcuna realtà. Ora, dati alla mano, delle due l'una: o il 92% degli italiani vive in uno stato ipnotico, per cui ogni volontà del presidente del Consiglio diventa per ciò stesso legge per la coscienza e ogni sua parola è creduta vera a prescindere, oppure i problemi esistono sul serio e davvero pesano negativamente sulla vita quotidiana dei cittadini. In quest'ultimo caso, si rovescerebbero le parti e ad essere profeti di irrealtà non sarebbero il premier e i partiti che lo sostengono, ma quegli opinionisti che parlano di «bolle» mediatiche pronte a scoppiare al primo impatto col reale.

Lo ha fatto Barbara Spinelli su La Stampa di domenica, lo stesso giorno nel quale il Corriere ha pubblicato il sondaggio di Mannheimer e in cui - ironia della sorte - proprio il quotidiano torinese ha dato grande risalto, anche in prima pagina, ai fatti di Castelvolturno, con la rivolta dei nigeriani che ha messo a ferro e fuoco la cittadina campana dopo l'attentato camorristico di venerdì. Ancora la stessa Stampa, sabato 20 settembre, aveva ospitato un'intervista al vescovo di Capua nella quale il presule affermava: «Qui il vero problema è che ci sono troppi nigeriani, gente intelligente ma dedita piuttosto alla droga e alla prostituzione... Il litorale domizio ha 7 mila africani su 30 mila abitanti. 27 chilometri di terra di nessuno... Episodi molto crudi sono frequenti». La Spinelli si faccia dunque un giro a Castelvolturno e dintorni per vedere se è davvero così irreale il bisogno di sicurezza e di durezza della pena da parte dei cittadini comuni: capirà che la realtà italiana è molto diversa dalle «bolle di sapone» prodotte nei salotti intellettuali. Dalle «bolle» alle «balle» il passaggio è breve...

Gianteo Bordero

domenica 21 settembre 2008

PER UN VOTO IN PIU'

da Ragionpolitica.it del 20 settembre 2008

Bastava vederli, giovedì, pronti come avvoltoi ad atterrare sul cadavere della trattativa tra la Compagnia Aerea Italiana e i sindacati. Bastava sentirli, ai microfoni delle agenzie, suonare le campane a morto per il sogno berlusconiano di rilanciare la compagnia di bandiera. Non gli sembrava vero... Perfino Piero Fassino, risorto dall'oblio a cui lo avevano condannato la nascita del Partito Democratico e l'avvento della «nuova stagione» veltroniana, nel salotto di Bruno Vespa ritornava quello dei tempi migliori, quando ancora il suo partito contava (e rappresentava) qualcosa nel panorama politico nazionale.

Avere la possibilità di gettare addosso al Cavaliere la croce del fallimento del decollo della CAI era un'occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare. E allora eccoli: Bersani Pierluigi, Finocchiaro Anna, lo stesso Fassino Piero. In coro: se la trattativa è andata in malora, la colpa è di Berlusconi e del suo governo. Come se bastasse dirle, queste cose, per trasformarle magicamente in realtà. Come se bastasse accusare verbalmente il presidente del Consiglio per sgonfiare le vele del suo consenso in continua crescita. Come se bastasse scaricare a parole le responsabilità dell'accaduto sul premier per convincere gli italiani a ravvedersi dopo l'errore capitale compiuto il 13 e 14 aprile.

Perché è lì che bisogna tornare per comprendere le ragioni dell'atteggiamento irresponsabile, sfascista e anti-nazionale tenuto dalla gran parte degli esponenti del Partito Democratico nella vicenda Alitalia. E' lì che bisogna guardare, alla batosta shoccante del 33,8% e allo speculare trionfo berlusconiano. E' lì che bisogna risalire, alle urne avare di consensi per la nuova creatura della sinistra, quella che era stata annunciata come la salvatrice della patria, quella della «vocazione maggioritaria», quella il cui leader sembrava in grado di far dimenticare di colpo i due terribili anni prodiani. Il Pd è ancora fermo lì. Non si è mosso di un passo, paralizzato dal duro impatto con la realtà dopo il lungo bagno di fiction veltroniana.

Anzi. In questi mesi, più passava il tempo e più Berlusconi si dimostrava capace, col suo quarto governo, di risolvere i problemi dell'Italia e degli italiani, più tra i Democratici si assisteva a un processo di regressione, a un salto all'indietro, al ritorno di ciò contro cui il Pd era nato: l'antiberlusconismo fine a se stesso, il «dagli al fascista», l'allarmismo democratico come uniche armi di lotta politica. Messe al bando le parole d'ordine su cui il segretario aveva imbastito la sua trionfale ascesa al trono (dialogo, legittimazione dell'avversario non più nemico, riforme condivise), giorno dopo giorno i dirigenti del Pd non hanno fatto altro che riavvolgere il nastro della storia fino al punto di partenza, appiccicandosi come patelle all'unico scoglio ancora saldo: la guerra a Berlusconi in quanto tale, in quanto male assoluto del paese. Convinti così di recuperare i voti perduti. Come nel quinquennio 2001-2006.

Solo che stavolta il gioco, ai democratici della cattedra e della chiacchiera, non riesce, non riuscirà. Per due motivi. Innanzitutto perché gli italiani (un popolo che la sinistra continua a considerare politicamente immaturo) hanno capito che dietro l'irrigidimento della Cgil nella trattativa con la CAI non vi erano motivi sindacali, ma soltanto politici; hanno visto che l'arrivo sulla scena di Epifani al posto del suo vice ha coinciso con l'inizio della fine delle speranze di riuscita dell'accordo; hanno sentito le dichiarazioni degli esponenti del Pd sin dal giorno in cui il presidente del Consiglio ha annunciato la nascita della cordata e l'avvio del salvataggio della compagnia di bandiera (già, «bandiera», quella che Veltroni è i suoi hanno calpestato nel nome di una ripresa di consenso che non verrà).

Il secondo motivo è che anche stavolta Di Pietro ha fregato il Pd, è stato più lesto nel cavalcare l'onda dell'antiberlusconismo. Da consumato capopopolo, fiutata l'aria, si è precipitato a Fiumicino proprio mezz'ora prima dell'annuncio del ritiro della CAI, si è messo in mezzo ai piloti e agli steward ed ha iniziato a rilanciare dai microfoni, davanti alle telecamere, i loro slogan. Si è fatto uno di loro per accalappiarne le simpatie, la preferenza e, domani, il voto. Chapeau, signor Di Pietro. Se i sondaggi danno la sua Italia dei Valori in crescita continua ai danni del Partito Democratico, un motivo ci sarà. C'è. Ed è che il Pd è talmente in balìa degli eventi, privo com'è di una identità e di una strategia, che non riesce ad essere convincente né quando dialoga con Berlusconi, né quando, il giorno dopo, lo dipinge come il demonio.

Il Partito Democratico non ha equilibrio perché non ha un punto di equilibrio. L'altro ieri si fregava le mani per il fallimento della trattativa, oggi dice che la trattativa va riaperta. Quanta schizofrenia! Quanta ipocrisia! E che faccia di bronzo! Dopo aver auspicato neppure troppo larvatamente, dal 14 aprile in poi, che il salvataggio dell'Alitalia andasse a rotoli; dopo aver spedito Epifani a far saltare l'accordo; dopo aver dato tutte le colpe al premier, ora i notabili democratici piangono lacrime di coccodrillo come se nulla fosse, come se i cittadini non avessero visto, sentito, capito. Che cosa? Che il Pd è pronto a sacrificare sull'altare dello 0,001% in più 20 mila posti di lavoro, l'appetibilità turistica del paese e, infine, l'interesse nazionale. Del resto, che cosa ci si poteva aspettare da chi, soltanto pochi mesi fa, era pronto a svendere Alitalia (che fa rima con Italia) ai francesi? Non se ne esce. La sinistra era, è e sempre rimarrà anti-nazionale, anti-patriottica, anti-italiana.

Gianteo Bordero

venerdì 19 settembre 2008

DA RATISBONA A PARIGI


Nel suo incontro con il mondo della cultura francese, avvenuto a Parigi lo scorso venerdì presso il Collège des Bernardins, Benedetto XVI è tornato a parlare di un tema a lui molto caro: le origini della teologia occidentale e le radici della cultura europea. Due realtà indissolubilmente legate non soltanto dalla storia, ma anche dal comune orientamento nei confronti del sapere e della razionalità. Il punto in cui ciò appare chiaro, secondo il Papa, è costituito dall'esperienza del monachesimo occidentale. Come noto, è grazie ai monasteri se la gran parte dell'immenso tesoro rappresentato dalla cultura classica è giunta fino all'epoca moderna, attraverso una paziente opera di trascrizione e trasmissione di quei testi dai quali avrebbero tratto linfa vitale prima la teologia medievale e poi il pensiero umanistico. Eppure - ha affermato il Papa - scopo primario dei monaci non era, in prima battuta, quello di compiere un'operazione culturale: «Non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato». Che cosa li muoveva, dunque? Sta nella risposta a questa domanda la chiave per comprendere il legame tra teologia e cultura europea e per leggere ancora una volta sotto una nuova luce la questione della razionalità e del suo rapporto col fatto religioso.

A Ratisbona, nella tanto discussa lectio magistralis del 12 settembre 2006, Benedetto XVI aveva messo a tema «fede e ragione» ed aveva sostenuto la tesi secondo cui tra di esse esiste un legame talmente profondo che «non agire secondo ragione» è contrario persino «alla natura di Dio». Questa affermazione non è in primis un dato di fede, ma una conquista della stessa ragione, sulla base delle categorie fornite dal pensiero greco. Da qui Ratzinger aveva preso le mosse per un'analisi dei rapporti tra filosofia greca e cristianesimo, criticando le tre grandi ondate della dis-ellenizzazione del pensiero occidentale, avvenute con la Riforma, con la teologia liberale del XIX e XX secolo e, da ultimo, più di recente, col diffondersi dell'idea secondo cui «la sintesi con l'ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture». Tutto questo per arrivare a dire che, assieme alla dis-ellenizzazione, nell'epoca moderna si è avuto, in particolare col razionalismo scientista, un oggettivo restringimento dell'orizzonte conoscitivo della ragione, alla quale è stata di fatto preclusa la possibilità di attingere al senso ultimo e trascendente del reale, in nome di un'autolimitazione alla conoscenza del mero dato verificabile nell'esperimento. Da qui l'invito finale del Papa ad aprirsi «alla vastità della ragione», a non «rifiutarne la grandezza». Perché la vera razionalità non è quella che esclude dal suo campo d'indagine la fede, ma quella che ad essa si apre come propria, estrema possibilità di compimento.

Questo a Ratisbona. Ora, due anni dopo, a Parigi, Benedetto compie un altro passo e ci dice che ciò che ha storicamente fondato sia la teologia occidentale che il pensiero europeo non è stato un progetto culturale calato - per così dire - dall'alto, bensì un condiviso desiderio esistenziale di verità. Lo stesso che spinse i monaci a compiere la loro formidabile opera di trasmissione e commento dei testi antichi: «Quaerere Deum», cercare Dio. Ha detto il Papa: «Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa». Che c'entra, questo, con il lavoro culturale? C'entra, perché la ricerca di Dio non era un cammino «in un deserto senza strade», ma aveva come via maestra la Parola. Una via che «nei libri delle Sacre Scritture era aperta davanti agli uomini». Da qui il passaggio fondamentale: «La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola». Per questo in ogni monastero erano presenti i libri, era presente la biblioteca: essa «indica le vie verso la parola». Conclusione del Papa: la cultura della parola (e quindi della sua interpretazione), che sarebbe poi stata alla base del sapere europeo così come è giunto fino a noi, si è sviluppata non come alternativa a Dio, ma partendo proprio dalla ricerca di Lui.

Il messaggio finale è che teologia e cultura europee potranno ritrovare forza, attrattiva e freschezza nella misura in cui saranno capaci di rimettersi in cammino, come i monaci, alla ricerca di Dio. Cioè alla ricerca della verità, del senso ultimo delle cose, di ciò che dà fondamento alla realtà. I tempi - ha detto Benedetto XVI a Parigi - sono certamente cambiati rispetto a quelli in cui ebbe a svilupparsi il monachesimo occidentale. Ma rimane, seppure il più delle volte nascosta, come se non avesse parole per esprimersi, la domanda su Dio: «Quaerere Deum - cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell'umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell'Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura».

Gianteo Bordero

sabato 13 settembre 2008

IL NODO FEDERALISTA


Negli ultimi 15 anni, in Italia, abbiamo spesso assistito alla consunzione lenta, al logoramento quotidiano di governi dilacerati al loro interno da fratture insanabili tra partiti, leader, programmi (il caso dell'ultimo gabinetto Prodi è, in tal senso, esemplare). Ora che le ultime elezioni politiche del 13 e 14 aprile hanno portato ad una netta semplificazione del quadro parlamentare, spingendo il bipolarismo della seconda Repubblica verso una più marcata forma di bipartitismo, scene come quelle viste nel passato non dovrebbero in teoria più ripetersi. Le cronache degli ultimi giorni sembrano, invece, riportare sulla scena ciò che credevamo esserci lasciati alle spalle. Titola in prima pagina La Stampa dell'8 settembre: «Lega-Pdl, scontri a raffica». Il quotidiano torinese, in un commento a firma di Ugo Magri, cita, come casi di dissidio tra le due formazioni che compongono l'attuale maggioranza, il federalismo fiscale, la sicurezza, la giustizia, la presidenza delle Regioni del nord.

Che succede, dunque, nei rapporti tra il Popolo della Libertà e la Lega Nord? Siamo di fronte a una fisiologica dialettica tra alleati, a scaramucce tattiche oppure affiorano in superficie divergenze strategiche o, peggio ancora, discrepanze tra prospettive politiche? La risposta non è facile. Eppure è da essa che dipendono, in sostanza, le sorti del quarto governo Berlusconi. Premesso che vi è senz'altro una gonfiatura giornalistica (soprattutto da parte dei quotidiani tradizionalmente ostili al centrodestra) di quanto sta accadendo, sarebbe però stolto negare ciò che è invece si intravede con sufficiente nitidezza: la Lega manda «segnali di fumo» abbastanza evidenti, forte del consenso ricevuto il 13 e 14 aprile e delle ultime rilevazioni dei sondaggisti, al fine di imprimere in profondità il suo copyright sull'azione dell'esecutivo. E' chiaro che il Carroccio non pretende l'esclusiva ai danni del Pdl, ma un'impronta netta e duratura sul Berlusconi IV, quella la vuole lasciare. In primis con l'introduzione del federalismo fiscale, vero nucleo della proposta politica leghista, a cui sta alacremente lavorando, anche in dialogo con il Partito Democratico e con i suoi amministratori locali, il ministro Calderoli.

Ora, a questo punto si pone il problema: il cuore politico, l'atto politicamente decisivo del quarto governo Berlusconi deve essere il federalismo fiscale oppure, come auspicato dal Pdl, la ripresa di autorevolezza dello Stato, la sua riconquistata autorità, il restyling delle sue principali articolazioni amministrative? O meglio: è possibile conciliare (e se sì, fino a che punto) un percorso volto a «spostare» verso il basso, cioè verso le Amministrazioni locali, l'attribuzione delle entrate fiscali con un progetto che punta a garantire allo Stato in quanto tale maggiore efficienza, maggiore credibilità, maggiore forza? In linea di massima sì, vista anche l'esperienza di altre grandi democrazie occidentali che hanno saputo armonizzare centrale e locale con saggio equilibrio. Però siamo in Italia. E le cose si complicano.

In primo luogo perché, almeno fino ad ora, il «federalismo» in salsa italiana non ha dato grande prova di sé. Anzi, il più delle volte esso ha voluto dire, come nel caso dei nuovi poteri assegnati alle Regioni, soltanto una duplicazione delle burocrazie, un aggravio dei costi, un aumento delle spese e, dal punto di vista istituzionale, una paralizzante serie di conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni. Si dirà: la colpa è dello Stato che non ha voluto cedere sul serio le sue competenze ai livelli amministrativi più prossimi ai cittadini. Vero, come è vero che le Regioni, col pretesto del «federalismo» e della «vicinanza ai cittadini», si sono trasformate in macchine mangiasoldi, centri di clientela, fontane inesauribili di spesa. Senza una previa revisione di questo perverso meccanismo, riesce oggettivamente difficile pensare al federalismo fiscale come a un qualcosa di veramente utile ed efficace per i fini che esso si prefigge di raggiungere (efficienza amministrativa, equità fiscale, dinamismo sociale ed istituzionale).

In secondo luogo, non può essere elusa una questione: se il grosso delle entrate fiscali rimane sul territorio e anche ai sindaci viene data una più ampia facoltà di tassare, chi ci garantisce che anche i Comuni non diventino dei moloc che si auto-alimentano voracemente prelevando denaro dalle tasche dei contribuenti, dando vita ad una curiosa forma di «statalismo municipale», differente da quello «romano» soltanto per il fatto di essere più vicino (e quindi potenzialmente più oppressivo) ai cittadini? Calderoli, intervistato da La Stampa del 7 settembre, sostiene che un sindaco «scialacquerà una volta sola, perché la gente lo giudicherà e non sarà più rieletto». Bene. E se il sindaco successivo facesse lo stesso? E quello dopo ancora idem? Il rischio è che la catena non si interrompa mai. Occorrono a monte meccanismi di garanzia contro la possibilità del «centralismo comunale».

In terzo luogo, il federalismo non può essere pensato come un gioco a somma zero. Sull'altro piatto della bilancia vi dovranno essere delle contropartite costituzionali che ridiano in termini istituzionali allo Stato ciò che gli sarà stato tolto in termini fiscali. In sostanza: un forte potere di controllo e di veto sull'attività di Regioni e Comuni (le prime già oggi fanno il bello e il cattivo tempo coi soldi pubblici, i secondi lo potrebbero fare domani o dopodomani); un'accentuazione dei poteri del governo nelle materie che riguardano l'interesse e la sicurezza nazionali (immigrazione, difesa, politica estera); un rafforzamento del potere legislativo nazionale da attuarsi attraverso la chiara definizione costituzionale delle materie di esclusiva competenza statale, l'abbandono del bicameralismo perfetto e lo snellimento delle procedure per l'approvazione delle leggi.

Come si vede, si tratta di problemi complessi, che hanno a che fare con l'essenza stessa della nostra Repubblica e con il suo ordinamento. Sarebbe perciò un errore capitale quello di procedere in fretta e senza prima aver ben soppesato tutti i pro e i contro della «rivoluzione federalista». Soprattutto, sarebbe esiziale eludere previamente la questione dell'equilibrio complessivo del sistema, ossia del rapporto tra Stato centrale ed Enti locali, che riguarda, in ultima analisi, l'unità stessa della nazione e il modo in cui essa ha da articolarsi. Trovandoci al cuore dell'Italia come realtà politica, bisognerebbe mettere da parte il tornaconto immediato in termini di consenso e ragionare invece, se possibile e se ciò interessa veramente, come padri (premurosi e saggi) della patria. Altrimenti il rischio è che venga messo a repentaglio l'equilibrio del governo e, cosa ancora peggiore, del paese. Mai come oggi le due cose sono state così intimamente legate.

Gianteo Bordero

domenica 7 settembre 2008

L'ORDINE DEL GIORNO


La concessione del voto agli immigrati, dice il presidente del Consiglio mettendo i puntini sulle i dopo le dichiarazioni possibiliste del presidente della Camera, «non è all'ordine del giorno». Non è cioè nell'agenda del governo, come - del resto - non è neppure nel suo programma. Dichiarazione breve ma assai efficace, quella del premier. Con tutti i problemi legati alla sicurezza e all'immigrazione che il Berlusconi IV si trova a dover affrontare - e che, fino ad ora, ha affrontato egregiamente - ci mancava soltanto la stucchevole discussione sul diritto dei migranti a diventare elettori prima ancora che cittadini. No, grazie.

Il patto stipulato con gli italiani il 13 e 14 aprile non prevede scartamenti dal programma e, tanto meno, bonarie concessioni al politicamente corretto che già tanti danni ha fatto nel nostro paese, nelle nostre città. Al contrario - e l'azione di governo di questi quattro mesi lo dimostra - è necessario procedere speditamente e senza indugi oltre la cortina fumogena del politically correct, diradando le nebbie create da un'ideologia che negli ultimi lustri ha fatto del pensiero dominante in Italia una notte in cui tutte le vacche sono grigie e in cui ogni cosa si equivale. Il volto concreto di questo cedimento al politicamente corretto è la sinistra in tutte le sue declinazioni: assistenzialista, ambientalista, comunista, eccetera. Una sinistra che i cittadini, con il loro voto, hanno mandato senza appello all'opposizione o hanno spedito direttamente fuori dalle aule parlamentari assieme alle sue ideologie buoniste, multiculturaliste, arcobaleniste. Che bisogno c'è, dunque, di andare a dissotterrare ciò che la storia ha già sepolto e consegnato al passato? «Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti», dice il Vangelo. Ergo: lasciamo che i cadaveri politici seppelliscano le loro defunte ideologie. E così sia.

L'ordine del giorno del governo, come ha ricordato il premier, è un altro. E va in tutt'altra direzione. Al sentimento anti-Stato della sinistra il centrodestra risponde ridando allo Stato dignità, autorità e autorevolezza (Napoli docet); alla politica delle porte aperte e - conseguentemente - delle città insicure contrappone la politica delle porte sotto controllo e dell'Esercito al servizio della sicurezza dei cittadini; allo sfascio sessantottino della scuola oppone il ritorno alla disciplina, alla serietà, all'educazione; all'indulgenza verso l'assenteismo e i fannulloni dice «stop» e mette in campo la nuova parola d'ordine: meritocrazia.

Il Berlusconi IV ha scelto di essere e di presentarsi ai cittadini come la squadra che affronta le emergenze e risolve i problemi, differenziandosi dai suoi predecessori anche per la sobrietà della parola, evitando di alimentare sterili e inconcludenti dibattiti sul nulla, forieri di chiacchiericcio parapolitico ma vuoti di sostanza e di utilità. L'alternativa è il ritorno allo stile dell'Unione durante il governo Prodi: parole (e litigi) tante, fatti zero. Siccome l'indice di gradimento popolare di quella maggioranza e di quel governo è stato il più basso di tutta la nostra storia repubblicana, è chiaro che la strada da percorrere è quella opposta: parole (e litigi) pochi, fatti tanti. Questa è la via battuta finora dal centrodestra, ripagata sia dai risultati ottenuti sul campo che dall'apprezzamento degli italiani, la cui fiducia nei confronti dell'esecutivo è ancora salda e solida. Non v'è motivo, dunque, di cambiare rotta e di concedere spazio a ciò che, nell'esperienza di governo 2001-2006, ha rappresentato per l'allora Casa della Libertà motivo di divisione, incomprensione e, infine, di logoramento. Le parole che gli elettori hanno impresso col loro voto sull'agenda dell'esecutivo non sono quelle care a Veltroni, ma quelle di un programma che su immigrazione e cittadinanza parla una lingua diversa. Indietro non si torna.

Gianteo Bordero

mercoledì 3 settembre 2008

PDL. UN PARTITO NAZIONAL-POPOLARE

da Ragionpolitica.it del 2 settembre 2008

Avanzo una proposta per definire in termini politici il nascituro partito del Popolo della Libertà. Poiché il nuovo soggetto dovrà giocoforza presentarsi sugli scaffali del grande supermarket dei partiti con un suo brand specifico e ben riconoscibile dai cittadini, e lo dovrà fare differenziandosi da quelle che sono le offerte presenti attualmente sul mercato politico, propongo di assegnare al Pdl la caratterizzazione di «partito nazional-popolare». Cioè di partito dell'Italia, della tradizione italiana, dell'identità italiana.

Vediamo che oggi, infatti, esistono sulla scena un grande partito che si definisce «democratico», un grande partito «federalista», un (meno grande) partito «dei valori», un partito «centrista». E, se guardiamo anche al di fuori delle aule parlamentari, troviamo due partiti «comunisti», un partito «verde», un partito «socialista», un partito di «destra», solo per citare i più rappresentativi di tendenze ben radicate all'interno dell'elettorato. E' chiaro quindi, rebus sic stantibus, che la definizione di «partito nazional-popolare», con tutto il valore aggiunto che una tale caratterizzazione comporta, sarebbe prerogativa assoluta del Popolo della Libertà, il suo marchio di fabbrica.

E sarebbe anche, in sostanza, il miglior modo per sintetizzare le due grandi esperienze politiche che in esso stanno confluendo: quella di Forza Italia e quella di Alleanza Nazionale, che fanno entrambe riferimento, nella loro denominazione, al nostro paese, e che, sin dal momento della loro fondazione, hanno portato avanti con tenacia ed orgoglio una politica incentrata sulla difesa e sulla promozione dell'interesse nazionale, dell'italianità e dell'immagine dell'Italia nel mondo.

La genesi storica dei due partiti può aiutarci a comprendere anche la particolare declinazione che potrebbe assumere l'aggettivo «nazional-popolare» in riferimento al Pdl e la differenza del nuovo soggetto dal resto dei partiti «popolari» presenti in Europa. Forza Italia nasce nel momento culmine della delegittimazione dell'idea dell'Italia come Stato nazionale, quando l'onda lunga di Mani Pulite copre d'infamia la classe politica che aveva governato il paese dal dopoguerra in poi. Nasce come risposta all'azzeramento per via giudiziaria della tradizione repubblicana. Nasce come nuova possibilità democratica offerta al popolo orfano dei partiti popolari. Alleanza Nazionale nasce invece come ultimo approdo del percorso intrapreso dalla destra italiana nel dopoguerra, come distillato finale di un lungo cammino di purificazione dalle scorie del fascismo, trattenendo il valore della patria ma reinserendolo in un quadro ormai compiutamente democratico. Da un lato, dunque, un partito creato nell'emergenza per salvare ciò che restava dell'Italia come sentimento popolare, dall'altro un partito nato come frutto maturo della decennale storia della destra nazionale.

Un connubio singolare - un caso unico in Europa - ma ineluttabile. Un connubio che, come abbiamo visto, ha alle spalle non tanto l'ideologia, quanto la storia: la storia di un uomo, Berlusconi, che si fa voce del popolo, e la storia di un partito che, nei lunghi anni del «sonno della nazione», tiene vivo l'orgoglio nazionale. Un connubio fondato perciò non su un'astrazione («liberalismo», «riformismo», eccetera) ma su un fatto: l'Italia, la sua tradizione, la sua identità. La sua storia, la sua cultura, le sue città. I suoi valori, i suoi tesori, le sue radici.

Questa è e sarà la forza del Popolo della Libertà, il miglior investimento per un lungo e duraturo cammino politico: mettere al centro di ogni proposta, di ogni campagna elettorale, di ogni atto di governo l'amore per l'Italia. Il che non significa buoni sentimenti campati per aria, ma precise politiche nei più svariati campi: dall'immigrazione alla sicurezza, dall'economia all'industria, passando per la politica estera. Lo sta già mostrando il governo Berlusconi con i suoi provvedimenti di questi primi mesi di attività, da ultimo quello sull'Alitalia. Ora si tratta di proseguire su questa strada - che non è pragmatismo puro senza ideali, ma puro patriottismo - nel cammino che porterà alla nascita del Popolo della Libertà come partito. Il partito del popolo e della nazione italiani.

Gianteo Bordero