venerdì 24 dicembre 2010

SANTO NATALE 2010

giovedì 23 dicembre 2010

SESTRI LEVANTE. NO DEL PDL ALLA VARIANTE AL PIANO EX FIT

Articolo del gruppo consiliare del Popolo della Libertà di Sestri Levante, pubblicato sul numero di dicembre del giornalino comunale.

La nuova variante al Piano di Riqualificazione Urbana (PRU) delle aree ex Fit, votata dalla maggioranza in Consiglio Comunale il 29 ottobre, non corrisponde in alcun modo agli interessi generali della città. Basta analizzare i punti salienti della delibera per rendersene conto.


1) La zona di Cantine Mulinetti, peraltro giù pubblica, viene fatta entrare nel PRU in quanto altrimenti non sarebbe possibile, allo stato attuale delle cose, realizzare il parco urbano dovuto alla città secondo la Convenzione stipulata dieci anni fa con il proprietario delle aree ex Fit e con il soggetto attuatore del PRU. I terreni inizialmente individuati come sede del parco, infatti, sono stati nel frattempo occupati dal cemento. Inoltre, mentre nelle previsioni iniziali il parco doveva espandersi su 29.765 mq, nella variante l’area si riduce a 22.450 mq.


2) Lo scopo dell’operazione, in realtà, non è il verde. Tant’è vero che la Relazione illustrativa della variante non parla più semplicemente di “parco”, bensì di “parco-parcheggio”. Avremo quindi un posteggio di “interscambio” con 343 posti auto, che sostituirà l’attuale tratto stradale dell’Aurelia da Cantine Mulinetti a via Sedini, e un’area sosta per camper localizzata a ridosso della ferrovia (il posto ideale e più tranquillo per sostare con un camper!).


3) Ecco in arrivo anche un’autorimessa in via della Chiusa, nella zona adiacente alle nuove case. Un’opera su tre livelli interrati per un totale di 345 box. La destinazione d’uso di tale autorimessa – afferma la Relazione Illustrativa – “è di tipo privato, a servizio della residenza”. Qui è stata usata una parola sbagliata: il posteggio su tre piani non sarà “a servizio” della residenza, bensì “a pagamento” della residenza. L’introduzione nella variante della struttura interrata su tre livelli comporta inoltre ulteriore cementificazione per 10.323 mq. L’indirizzo politico è ancora una volta chiaro: prima il cemento e poi, se verranno, il verde e la politica ambientale.


4) A meno che non si voglia spacciare per politica ambientale la decisione, contenuta nella variante, di ridimensionare il nuovo collettore fognario. Che non arriverà più dalle aree dell’ex Tubifera fino al “depuratore” di Portobello, come inizialmente previsto, bensì si fermerà in Piazza Bo. Il resto lo farà il vecchio collettore, con risultati che possiamo prevedere esalanti.

5) I costi della variante. In totale, le previsioni parlano di un costo complessivo di 4.043.817,32 euro. Di questi, 1.409.317,32 deriveranno da oneri di urbanizzazione e oneri aggiuntivi. 210.000 euro arriveranno da altre risorse private. Le risorse pubbliche previste ammontano invece a 2.424.500 euro. Per l’ennesima volta il rapporto costi/benefici, tra risorse pubbliche impiegate e vantaggi per la città, è purtroppo sbilanciato a sfavore dei sestresi. Del resto, è così sin dagli inizi dell’operazione sulle aree ex Fit. E’ stato così, continua ad essere così.

Per questo abbiamo detto no alla variante e per questo, nei prossimi mesi, porremo in atto ogni iniziativa politica utile a contrastarla. Nel frattempo, cogliamo l’occasione per augurare a tutte le sestresi e a tutti i sestresi un buon Natale e un felice inizio di nuovo anno. Con la speranza che porti buone nuove.


Gianteo Bordero (capogruppo)

Marco Conti
Giancarlo Stagnaro

martedì 21 dicembre 2010

PD IN STATO CONFUSIONALE

da Ragionpolitica.it del 21 dicembre 2010

La confusione regna sovrana nel Pd. Solo poche settimane fa il segretario Pier Luigi Bersani aveva incontrato Nichi Vendola per stringere un patto elettorale che prevedeva le primarie di coalizione e, negli stessi giorni, aveva confermato l'alleanza con l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Oggi ecco il cambio di rotta. Basta sinistra e basta primarie. La nuova proposta è quella di un accordo con il nascente Terzo Polo formato da Udc, Fli, Api e Mpa. Un accordo che di politico, a ben vedere, avrebbe ben poco, e rischierebbe di risolversi nell'ennesimo sforzo per costruire un'armata Brancaleone senza altro contenuto concreto oltre al vecchio e mai domo antiberlusconismo. In casa democrat sono convinti di risolvere tutti i problemi con l'aritmetica: seduti a tavolino, calcolatrice alla mano, i vari Bersani, D'Alema e Franceschini fanno di calcolo e si convincono che la somma di Pd + Udc + Fli + Mpa risulterà superiore a quella ottenuta mettendo insieme Pd + Sel + Idv.


Peccato soltanto che non facciano i conti, come del resto è loro usanza, con la realtà. Cioè con il loro elettorato. Che, come emerge da numerosi sondaggi (Repubblica esclusa, guarda caso), preferirebbe di gran lunga andare alle urne in compagnia del governatore pugliese e dell'ex pm piuttosto che con i moderati Casini e Rutelli e con l'ex fascista Fini. Tanto più che, in una ipotetica alleanza con il Terzo Polo, al primato numerico del Partito Democratico non corrisponderebbe un altrettanto chiaro primato politico, con tanti saluti alla vocazione maggioritaria sotto la cui stella era nato il Pd. Sarebbe una curiosa riedizione del centro-sinistra col trattino, ma priva di quel collante, quel minimo di coerenza politica di fondo che procurò molte fortune a questa formula nei passati decenni della nostra storia repubblicana. In questo caso avremmo al massimo un matrimonio d'interessi senza una comune cultura politica. Avremmo la somma di ambizioni particolari di corto respiro e non un progetto organico di governo del Paese.


Ha dunque buon gioco Nichi Vendola a denunciare la debolezza costitutiva di tale progetto, a sottolinearne lo scollamento dai problemi reali dell'Italia, a evidenziare il carattere non politico di un'operazione che sembra finalizzata più a garantire rendite di posizione immediate alla classe dirigente del Partito Democratico che non a proporre al popolo della sinistra una forte alternativa programmatica al centrodestra. Curiosamente, assistiamo qui ad un inaspettato rovesciamento di ruoli: non sono più i «moderati» - si fa per dire - del Pd, bensì i partiti più radicali della sinistra a invocare un'uscita dall'antiberlusconismo fine a se stesso come criterio per costruire le coalizioni. E' il presidente della Regione Puglia a chiedere un ritorno alla politica e ai contenuti, mentre l'ex margheritino Dario Franceschini usa toni estremistici da Cln contro il presidente del Consiglio per giustificare le scelte del suo partito.


Di certo archiviare le primarie e fare del Pd la seconda gamba di una strana alleanza con i nemici di un tempo segnerebbe a suo modo una svolta rispetto alle prospettive con cui il partito era nato e si era mosso sino ad ora. Una svolta che però è soltanto tattica, e a cui non corrisponde un altrettanto significativo cambio di rotta per ciò che concerne l'autocoscienza del Pd, la definizione della sua identità, la rielaborazione della sua cultura politica, se mai ne ha avuto una. Se una simile operazione dovesse andare in porto - ed è lecito nutrire più di un dubbio in proposito, considerate le ultime dichiarazioni di Casini - il risultato sarebbe quello di regalare la golden share della sinistra a Vendola e quella del centro (o meglio del «centrino», per dirla con Paolo Bonaiuti) a Udc & CO: così sarebbe definitivamente compiuta la lunga marcia del Pd verso la totale irrilevanza nel panorama politico italiano.

Gianteo Bordero

giovedì 16 dicembre 2010

IL POLO DELLA CONFUSIONE

da Ragionpolitica.it del 16 dicembre 2010

L'annunciato «Terzo Polo» assomiglia all'Araba Fenice: tutti ne parlano, ma nessuno sa in realtà di che cosa effettivamente si tratti. L'unica certezza al riguardo è che non ci sono certezze. L'alleanza tra Casini, Fini, Rutelli e Lombardo nasce infatti all'insegna della confusione. Centrismo come dice l'Udc? Nuovo centrodestra come vaticina Futuro e Libertà? Area di responsabilità come auspica l'Api? Chi vivrà vedrà...


Quello che però già oggi si può dire è che questa coalizione sorge sotto la stella della cocente sconfitta subìta alla Camera dei deputati in occasione del voto di fiducia di martedì, quando un Silvio Berlusconi dato ormai politicamente per morto ha fornito l'ennesima dimostrazione di forza e vitalità. Come inizio non c'è male. E niente può fugare l'impressione che la riunione convocata mercoledì per annunciare con toni altisonanti la nascita del «Polo della Nazione» sia servita, molto più prosaicamente, soltanto a dare ossigeno al vero sconfitto della votazione a Montecitorio, cioè Gianfranco Fini. Il quale, fallito l'assalto al presidente del Consiglio, al termine della sua lunga marcia antiberlusconiana si è ritrovato sull'orlo del precipizio, con un piede già nel vuoto e l'altro pericolosamente malfermo sul ciglio del burrone. Per salvarlo è dunque arrivata la Croce Rossa dell'Udc. Con la conseguenza che domani Casini potrà a buon titolo rivendicare la leadership del Terzo Polo, mentre il fondatore di Fli dovrà ingoiare di buon grado il rospo di essere ancora una volta il numero due. Complimenti davvero, onorevole Fini.


Andando al di là di questa motivazione contingente, tattica più che strategica, poco o nulla di politicamente sostanzioso si può dire al riguardo del sedicente «Nuovo Polo», salvo contestare proprio la definizione di «nuovo» che ad esso è stata assegnata. Che cosa c'è di «nuovo», infatti, in una coalizione i cui leader (o almeno alcuni di essi, e già questa mancanza di unità la dice lunga sul respiro politico di questa alleanza) ripetono un giorno sì e l'altro pure che il bipolarismo italiano ha fallito e che è un modello da archiviare quanto prima? Che cosa c'è di «nuovo» nell'invocare ad ogni piè sospinto la cancellazione dell'attuale legge elettorale, che grazie al premio di maggioranza consente quel minimo di governabilità che è sempre mancato agli esecutivi della nostra Repubblica? Che cosa, ancora, c'è di «nuovo» nel riproporre quell'assetto istituzionale esasperatamente partitocentrico che gli italiani hanno dimostrato di voler superare già dai primi anni Novanta del secolo scorso? Se proprio vogliono darsi un nome adeguato alla cosa, i protagonisti di questa nuova aggregazione possono definirsi come «Polo della Nostalgia».


Se l'adesione di Fini era di fatto obbligata per tentare di sopravvivere, e se l'Api di Rutelli naviga costantemente sotto l'1% dei consensi, una parola va detta sulla scelta di Pier Ferdinando Casini, il cui intestardirsi in un progetto palesemente antistorico e di piccolo cabotaggio lascia quanto meno a desiderare e fa sorgere più di un interrogativo circa i veri scopi che l'Udc si prefigge con la sua azione. Se fine supremo del partito di Casini fosse quello di dare forza alla presenza dei cattolici in politica e respiro al popolarismo europeo di matrice cristiana, egli ci avrebbe pensato non una, ma cento volte prima di imbarcare Gianfranco Fini, che - come ha scritto un lettore di Avvenire in una missiva pubblicata giovedì - «non appartiene alla cultura politica "di centro" e calpesta i "principi non negoziabili" dell'agire politico del cattolico». Inoltre, ovunque in Europa i partiti appartenenti al Ppe sono rigorosamente collocati nel centrodestra, in alternativa alla socialdemocrazia e al centrosinistra. Sarà forse anche per questo che una figura di spicco della Chiesa come il cardinale Camillo Ruini, intervenendo alcuni giorni fa ad un convegno sui 150 anni dell'unità d'Italia, ha ribadito che il bipolarismo, la legge elettorale di impianto maggioritario, il rafforzamento dei poteri del governo all'interno della prossima articolazione federale dello Stato devono essere i punti cardine del nuovo assetto istituzionale del Paese. Punti che proprio il partito di Casini contrasta alla radice. Alla luce di tutto ciò, la domanda sorge dunque spontanea: dove va l'Udc con il suo «Terzo Polo»?

Gianteo Bordero

GIOIA E DOLORE (Stadio)

martedì 14 dicembre 2010

LA VITTORIA DI BERLUSCONI, LA SCONFITTA DI FINI

da Ragionpolitica.it del 14 dicembre 2010

Il berlusconicidio è fallito. Silvio vince, resta in sella, ottiene una fiducia alla Camera che solo quindici giorni fa sembrava impossibile conquistare, almeno a sentire giornali, tv e opposizioni varie. Lo davano ancora una volta per morto, e ancora una volta devono prendere atto che il Cavaliere è come i gatti: ha sette vite, e proprio quando lo si dà per perso rieccolo fare nuovamente capolino in piena salute. E' la conferma che dopo sedici anni la maggior parte del ceto politico e intellettuale, della grande stampa e degli opinion makers, non ha ancora compreso l'uomo Berlusconi, la forza della sua leadership, la robustezza di ciò a cui egli ha dato politicamente vita dal 1994, con il consenso maggioritario del popolo italiano.


Ancora ieri bastava ascoltare i tg e i programmi di approfondimento per sentire gli esponenti della galassia antiberlusconiana annunciare l'imminente Caporetto del presidente del Consiglio, la sua disfatta finale, l'archiviazione di un ciclo, la fine di un'epoca, il tramonto di un progetto politico, la rovinosa caduta da cavallo di un condottiero stanco e non più in grado di guidare il suo esercito prossimo all'umiliazione.


Invece Silvio è ancora in piedi. E il valore simbolico della votazione alla Camera va ben oltre il valore numerico. Oggi vincere o perdere a Montecitorio, anche se solo per un voto o per un pugno di voti, non era la stessa cosa. Perché in ballo non c'era solamente la sopravvivenza di un governo, ma anche e soprattutto il significato di simbolo che era stato attribuito a questa giornata. Di mezzo, cioè, c'era l'aria da nuovo 25 aprile iniettata in dosi industriali dall'esercito antiberlusconiano al gran completo, a partire dal Pd e dall'Idv per arrivare a Fini, passando per le truppe di complemento giornalistiche, La Repubblica, Il Fatto, L'Unità e simili. Tutti insieme hanno creato un clima torrido da liberazione dal tiranno, certi che questo sarebbe stato il gran giorno, la volta buona, la data da segnare in rosso sul calendario e da tramandare ai posteri, il momento catartico, l'istante in cui il sogno si materializza e diventa realtà.


Tutto questo non si è avverato, e chi ha seminato vento ora raccoglierà tempesta. Perché il pallino del gioco è tornato saldo nelle mani di Berlusconi. Perché la sua figura ne esce rafforzata. Perché la sua leadership sul centrodestra si è rivelata a prova di bomba, cioè a prova di giochi di Palazzo, tradimenti e congiure varie. Come diceva Machiavelli, citato ieri sul Corriere della Sera da Pierluigi Battista, «per esperienzia si vede molte essere state le coniure, e poche aver avuto buon fine», con conseguenze disastrose per i «coniurati». «Se le controffensive non riescono - ha chiosato Battista in riferimento alla mozione di sfiducia promossa da Futuro e Libertà - gli effetti sono disastrosi per chi ha attaccato con troppa e velleitaria frettolosità. La sfiducia a Berlusconi voleva dire infliggere il colpo definitivo al premier. Ma se quel colpo va a vuoto, il contraccolpo sarebbe violentissimo per chi fallisce l'obiettivo».


E' Gianfranco Fini, dunque, il vero sconfitto del voto alla Camera. E' lui che ha perso la partita della vita. E' lui che ha puntato tutto sulla sfiducia al presidente del Consiglio. E' lui che ha dimostrato una totale mancanza di saggezza e lungimiranza politica con la sua strategia antiberlusconiana messa in campo da un anno e mezzo a questa parte. E' lui che ha flirtato con i nemici storici del Cavaliere per tentare di mettere insieme i numeri per farlo cadere. E' lui che più di tutti ne ha chiesto le dimissioni in questi ultimi mesi. Ed è lui, quindi, che paga e pagherà il prezzo più salato di questa sconfitta che fa finalmente piazza pulita di tutto il fango gettato addosso a Berlusconi dai pasdaran di Futuro e Libertà. Il fango passa, il governo resta. Silvio vince, Gianfranco perde. Vince l'interesse nazionale, perdono i personalismi senza costrutto.


Gianteo Bordero

martedì 7 dicembre 2010

IL SENSO DI RESPONSABILITÀ E I SUOI NEMICI

da Ragionpolitica.it del 7 dicembre 2010

I giochetti di Palazzo e le alchimie da Prima Repubblica dovrebbero lasciare spazio, nell'attuale frangente, al senso di responsabilità di fronte ai rischi di attacco al nostro Paese da parte della speculazione finanziaria internazionale. Come ha ricordato qualche giorno fa il presidente del Consiglio, la solidità politica dell'esecutivo è la conditio sine qua non per rimanere al riparo da manovre simili a quelle che hanno colpito altri Stati del Vecchio Continente nei mesi scorsi.


Come ormai unanimemente riconosciuto nelle più prestigiose sedi europee e mondiali, il governo Berlusconi ha avuto il merito, con la politica di rigore portata avanti in questi due anni dal ministro Giulio Tremonti, di tenere i conti in ordine e di impostare una coraggiosa linea d'intervento volta alla riduzione dei costi dell'apparato statale, all'eliminazione degli sprechi e al contenimento del deficit. Quest'azione del ministro dell'Economia è stata possibile proprio perché essa si inseriva nel quadro di un esecutivo forte, capace di resistere al canto delle sirene della spesa pubblica, di non lasciarsi ammaliare dal mito del deficit spending come strumento per mantenere il consenso sociale.


E' stata, questa, una politica di alto profilo e di grande responsabilità, che gli italiani hanno mostrato di apprezzare, consapevoli dei rischi a cui il Paese sarebbe andato incontro qualora fosse stata messa in campo una strategia diversa quando non opposta. Del resto, sin dalla campagna elettorale del 2008 il Popolo della Libertà aveva detto chiaro e tondo che sarebbe arrivata la crisi e, con essa, anni difficili e di vacche magre, mentre il Partito Democratico si esercitava a proporre ai cittadini un libro dei sogni che, per essere attuato, avrebbe comportato un aumento sconsiderato della spesa pubblica, con tutte le esiziali conseguenze del caso. Votando il centrodestra e il governo Berlusconi, gli elettori hanno detto sì alla sua politica economica, dimostrandosi per l'ennesima volta più realisti e più maturi di tanti loro rappresentanti ancora legati ai bei tempi andati della lira e delle cosiddette «svalutazioni competitive».


Dunque, se l'Italia non ha fatto la fine della Grecia e non è stata inghiottita dalla speculazione finanziaria, ciò è dovuto al combinato disposto di stabilità politica e stabilità economica garantita dall'esecutivo Berlusconi in questi due anni. Questo elemento dovrebbe esser tenuto bene a mente da tutti coloro che, da un po' di mesi a questa parte, giocano una partita allo sfascio della maggioranza parlamentare soltanto nominalmente in ragione di un'altra politica (quale?) e di un altro programma di governo (quale?), mentre di fatto operano solo sulla base di personali ambizioni di potere. Ambizioni che, per quanto legittime, dovrebbero cedere il passo al senso di responsabilità nazionale, quella vera e non quella declamata al sol fine di ipotizzare scenari ambigui e confusi, la cui unica ragion d'essere è la volontà di escludere dalla scena colui che è stato liberamente scelto dai cittadini per guidare il Paese.


Oggi, a una settimana dal decisivo voto di fiducia alle Camere del 14 dicembre, dev'essere chiaro che una eventuale interruzione del cammino del governo Berlusconi, che ha fin qui operato molto bene nel difficile contesto dato, non potrà non essere intestata a coloro che hanno preferito anteporre all'interesse generale dell'Italia (come detto, la stabilità politica ed economica) il proprio particulare. A coloro che hanno rimesso in pista i peggiori tatticismi del passato e i peggiori rituali della vecchia partitocrazia, con l'unico scopo di abbattere un solo uomo e indebolire la sua leadership nella quale la maggioranza dei cittadini si è riconosciuta nel 2008 e nelle successive elezioni europee ed amministrative del 2009 e 2010. Invocare un governo sostenuto anche da Pdl e Lega e magari guidato da uno degli uomini più vicini al Cavaliere («TTB, Tutti Tranne Berlusconi», come ha scritto Il Foglio di Giuliano Ferrara commentando la posizione dei terzopolisti) è la conferma che nella testa dei centristi il primato non spetta alla tenuta del Sistema-Paese, ma soltanto alla mai sopita ed immarcescibile ossessione antiberlusconiana.

Gianteo Bordero

mercoledì 1 dicembre 2010

SE IL PARTITO DEMOCRATICO TEME LA DEMOCRAZIA…

da Ragionpolitica.it del 1° dicembre 2010

Un partito che si fregia del titolo «democratico» e che, allo stesso tempo, teme l'espressione massima della democrazia, cioè il voto popolare? Succede anche questo, in Italia, sul finire dell'anno di grazia 2010. Il gioco è semplice: dichiarare con teatrale sussiego che nell'attuale frangente le elezioni sarebbero una sciagura per il Paese al sol fine di non ammettere che la vera sciagura in caso di chiamata alle urne dei cittadini sarebbe quella che, per l'ennesima volta, toccherebbe in sorte a lor signori. A D'Alema, a Veltroni, a Bersani, tutte facce della stessa medaglia, figure intercambiabili di un postcomunismo italiano che, a conti fatti, non ha mai del tutto rinunciato all'antico vizietto di considerare il responso popolare come un fattore secondario rispetto al fine primario della presa del potere. E se il fine giustifica i mezzi, ben venga anche un governo non eletto, un ribaltone che sovverta la volontà del popolo, un compromesso storico con l'innominabile nemico di un tempo. Tutto fa brodo per insediarsi a Palazzo.


Gira che ti rigira, questo è il succo della questione. Questo è il senso, neppure troppo velato, delle dichiarazioni rilasciate in questi giorni dai massimi esponenti del Pd, a partire dall'intervista a D'Alema pubblicata domenica sul Messaggero. Guai a portare il Paese al voto in un momento come questo! Guai a esporre l'Italia al vento della speculazione internazionale! Per carità, argomenti validi se utilizzati da chi, avendo ottenuto il consenso maggioritario dei cittadini e trovandosi sulle spalle l'onore e l'onere di governare e di tenere la barra dritta in mezzo ai marosi della crisi, richiama tutte le forze di maggioranza al senso di responsabilità, invitandole a non gettare il Paese nell'instabilità e nel caos in nome di pur legittime ambizioni personali. Ma usati da partiti che stanno all'opposizione e che in teoria, in un sistema democratico, dovrebbero volere al più presto una legittimazione popolare per diventare maggioranza e mettere in atto un diverso programma e una ricetta alternativa di governo, questi stessi argomenti assumono tutt'altro sapore. Tanto più se si hanno sotto mano sondaggi che vedono la principale forza dello schieramento di minoranza in costante affanno. E tanto più se la coalizione di governo, nonostante tutto quello che è capitato in seno al partito di maggioranza relativa negli ultimi mesi, continua a risultare la più gradita dagli italiani.


E allora è chiaro che la proposta dei vertici del Partito Democratico di dare vita ad un esecutivo che tenga insieme Bersani, Fini, Di Pietro e Casini non ha, non può avere altro fine se non quello di evitare il ricorso alle urne. Anche perché un governo di tal fatta non potrebbe mai, ragionevolmente, dare quelle risposte in nome delle quali esso viene invocato dallo stratega D'Alema: quali miracolose ricette anticrisi e quale ardito programma di incisive riforme sociali potrebbero avere in comune Fli, Udc, Pd e Idv? In realtà, essendo non una visione condivisa del Paese bensì l'antiberlusconismo l'unica forma politica di questa nuova versione del Cln, è evidente che la sola riforma che questo coacervo di forze potrebbe mettere in opera è quella della legge elettorale, per cancellare il premio di maggioranza e impedire un altro giro di valzer del Cavaliere a Palazzo Chigi. Altro che preoccupazione per l'economia! Altro che amor di patria in un momento difficile!


E se poi finisse che le manovre di Palazzo non vanno in porto e ci saranno davvero le elezioni anticipate? Nessun problema, sempre lo statista D'Alema ha già pronta la soluzione: allargare il Cln anche a Nichi Vendola e alla sua sinistra dura e pura, che di resistenza se ne intende, pensando così di assestare il colpo finale al duce di Arcore. Il leader Massimo fa la somma a tavolino dei voti che vanno da Fli a Sel, ma come spesso gli accade fa i conti senza l'oste: il popolo italiano e quella maggioranza silenziosa dei moderati che già in più di un'occasione hanno dimostrato di non credere nella «gioiosa macchina da guerra», e che non crederebbero neppure alla sua ennesima riedizione.

Gianteo Bordero

giovedì 25 novembre 2010

UNIVERSITÀ. IL PD SCHERZA COL FUOCO

da Ragionpolitica.it del 25 novembre 2010

Pur di abbattere il governo Berlusconi, il Partito Democratico è pronto a fare anche i proverbiali patti col diavolo. Non soltanto alleandosi con l'ex odiato e deprecato fascista Fini, ma anche assecondando la protesta studentesca che sta andando in scena in questi giorni nei modi e nelle forme che tutti hanno potuto e possono vedere. La logica democratica richiederebbe che un partito, per salire al governo del Paese, godesse della legittimazione popolare, che passasse attraverso libere elezioni ed ottenesse il consenso maggioritario dei cittadini. Peccato soltanto che ciò oggi risulti, per il Pd, un miraggio lontano come i Tartari del famoso romanzo di Dino Buzzati. E allora? E allora meglio ricorrere ai mezzi alternativi, ai metodi spicci, come ha fatto Bersani unendosi alla protesta degli studenti e salendo con loro sul tetto dell'università nella convinzione di alimentare un'onda di ribellione che, negli auspici dei Democratici, dovrebbe gonfiarsi fino a sommergere e a spazzare via come uno tsunami Berlusconi, il suo governo e la maggioranza che lo sostiene. Come ha osservato il presidente dei deputati del Pdl, Fabrizio Cicchitto, il Pd - in compagnia del movimento estremista per eccellenza, l'Idv - «cavalca la protesta arrivando allo spettacolo grottesco di salire sui tetti, mentre c'è una componente eversiva di questa protesta che ieri ha preso d'assalto il Senato». Ed ha aggiunto, rivolto a Bersani e al suo partito: «Voi state lisciando il pelo a un movimento minoritario ed estremista che provocherà danni seri al Paese».


E' proprio così: in assenza di una proposta politica in grado di porsi come seria e credibile alternativa di governo, incapace di elaborare una piattaforma programmatica all'altezza delle sfide che l'Italia si trova a dover affrontare in questo complesso frangente storico, il Partito Democratico ha scelto ancora una volta la strada dell'estremismo, del peggior conservatorismo sociale, dell'anacronistica difesa di quei privilegi (nel campo della scuola, dell'università, del welfare, solo per citare alcuni casi macroscopici) che negli scorsi decenni hanno portato il nostro Paese ad accumulare debito pubblico, parassitismo, clientelismo e inefficienze varie, con le deleterie conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.


Alla luce dell'atteggiamento tenuto da Bersani e dalla dirigenza democrat in questi giorni, è chiaro che la formula del Pd come «partito riformista», tanto evocata e ripetuta ad ogni piè sospinto a meri fini di propaganda, appare a conti fatti come un ossimoro. Il Pd non è il nuovo, non è la strada italiana alla moderna socialdemocrazia, ma è la somma di tutto ciò che è vecchio, dei privilegi acquisiti, dell'ipertrofia statalista. Esageriamo? Ma se il punto cardine della riforma universitaria della Gelmini è la meritocrazia, come altro definire il tipo di opposizione che sta portando avanti il Partito Democratico, se non come bieca conservazione dello status quo? E questo è solo l'ultimo episodio in ordine di tempo, perché se andiamo ad analizzare la risposta politica data nel corso degli anni dal Pd ai provvedimenti innovatori messi in campo dai governi Berlusconi, l'elenco potrebbe allungarsi a dismisura, a partire dalla pervicace e preconcetta ostilità alle riforme in materia di lavoro e di welfare ispirate alle proposte di Marco Biagi e realizzate grazie alla coraggiosa iniziativa di Maurizio Sacconi.


Insomma, gli anni passano ma i post-comunisti non cambiano mai: sempre arroccati in difesa dell'indifendibile, sempre schierati al fianco dei nemici del rinnovamento, sempre incapaci di rompere una volta per tutte con il loro passato che non vuole passare. D'Alema, Veltroni, Franceschini, Bersani sono, alla fine dei conti, le facce di una stessa medaglia, l'espressione di una medesima cultura - se così si può chiamare - ancora fondata sull'antagonismo e sull'odio preconcetto nei confronti dell'avversario. Addirittura con un'aggravante rispetto al Pci, che per lo meno manteneva un realistico (anche se opportunistico) senso delle istituzioni e sapeva prendere le distanze (ancorché nei modi e nei tempi tipici di un partito legato a doppio filo con l'Unione Sovietica) dai movimenti di lotta violenta. Cosa che il Pd oggi non sembra in grado di fare, preferendo invece scherzare col fuoco pur di cancellare dalla scena politica il nemico Silvio.

Gianteo Bordero

martedì 23 novembre 2010

BENEDETTO XVI, RIFORMATORE INCOMPRESO DALLA CULTURA DOMINANTE

da Ragionpolitica.it del 23 novembre 2010

Il clamore mediatico suscitato dalle anticipazioni del libro-intervista di Peter Seewald a Papa Ratzinger porta con sé la traccia, in molti casi, di un'interpretazione errata del pontificato di Benedetto XVI sin dai suoi inizi. Sul Papa è stato cioè applicato un giudizio superficiale e conformistico che ha impedito alla maggior parte dei media di cogliere il tratto distintivo all'un tempo della personalità di Ratzinger e del suo magistero petrino. Il «panzerkardinal», l'arcigno conservatore refrattario ad ogni tipo di confronto con le questioni poste dalla modernità, il nostalgico del passato e delle sue forme, il novello inquisitore, il freddo teologo tutto ripiegato sui suoi studi, il dottrinario indifferente ai problemi concreti dei cristiani in carne ed ossa: questo e molto altro ancora, sulla stessa lunghezza d'onda, è stato detto e scritto sull'attuale pontefice in questi ultimi anni. Ciò faceva comodo, del resto, a coloro che puntavano ad alimentare una vulgata politicamente e finanche ecclesialmente corretta, volta a dimostrare che era in corso il tentativo, ai massimi livelli della gerarchia, di destrutturare, quando non di cancellare tout court, le cosiddette «conquiste» raggiunte grazie al Vaticano II e all'affermazione, in ambito cattolico, di una teologia e di una pastorale finalmente al passo e all'altezza dei tempi moderni.


Chi ha portato avanti questa operazione non ha dunque saputo cogliere il vero Ratzinger, quello reale e storico e non quello banalizzato e caricaturale presentato ad ogni piè sospinto da giornali e tv. Non ha saputo leggere, ascoltare, approfondire le sue parole e i suoi gesti. Non ha voluto afferrare il filo conduttore di tutto il suo pontificato. Che non è la bieca volontà di tornare al bel tempo che fu, di azzerare il Concilio, di mortificare i «progressisti» e via strologando. No, quello di Benedetto XVI è stato sin dal principio, come abbiamo detto più volte, un papato tutto orientato alla riforma spirituale della Chiesa. Una riforma che non è cambiamento in primis di strutture, di burocrazie vaticane, di strategie pastorali, bensì richiamo costante alla conversione, alla vera fede, al nocciolo dell'esperienza cristiana. Una riforma che, come Ratzinger stesso ha ribadito in più di una occasione, si ottiene innanzitutto non per aggiunta di qualche cosa all'immutabile depositum fidei, ma per sottrazione di ciò che, nel corso del tempo, ha in qualche modo appesantito il cammino della Chiesa nella storia.


Ciò che conta prima di tutto, per Benedetto, è cioè la qualità spirituale dei credenti, la riscoperta del cuore della fede cristiana e l'adesione ad esso. In questa prospettiva è la fede che fonda la morale, è il sì dell'uomo a Cristo che fonda un nuovo modo di vivere. Queste cose Ratzinger le diceva già da cardinale, quando ricordava che il cristianesimo non è in primo luogo una «dottrina che si può ripetere in una scuola di religione», un «seguito di leggi morali», un «certo complesso di riti»: «Tutto questo è secondario, viene dopo. Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento». E' il mistero del Dio che si fa compagno di strada dell'uomo, carne e sangue, che assume su di sé la condizione umana fino all'estremo limite della morte. Che per amore, sacrificando se stesso, salva le sue creature dal naufragio nel nulla, nella disperazione, nel vuoto di significato. Da qui, e non da altro, parte la riforma.


E allora si comprendono anche alcune delle risposte che il Papa ha dato a Peter Seewald nel libro in uscita quest'oggi e anticipate dalla stampa nei giorni scorsi. Come quella, tanto fraintesa e subito salutata con tripudio dagli stessi che fino a ieri dipingevano Ratzinger come il peggiore dei Papi possibili, sull'uso del preservativo nel caso in cui una prostituta (o «prostituto», secondo l'originale tedesco) rischi di contagiare il cliente col virus Hiv. «Questo - ha detto il pontefice - può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole». Tuttavia «questo non è il modo vero e proprio per vincere l'infezione dell'Hiv. È veramente necessaria una umanizzazione della sessualità». Ora, alla luce di quanto detto poc'anzi, è chiaro che il punto centrale dell'affermazione papale non è la questione del condom, peraltro limitata al caso specifico, bensì quella della «umanizzazione della sessualità». La chiave di volta, cioè, è ancora e sempre la sfida dell'«essere nuovo» da cui tutto, anche la morale, discende. Perché è solo l'«essere nuovo» che il cristianesimo ha portato nel mondo a poter rigenerare l'umanità nei suoi costumi e nelle sue pratiche. Non viceversa.

Gianteo Bordero

giovedì 18 novembre 2010

COSÌ VINCE L’ANTIMAFIA DEI FATTI

da Ragionpolitica.it del 18 novembre 2010

Una grande vittoria dello Stato, delle forze di Polizia, del ministero dell'Interno, del governo Berlusconi. La cattura di Antonio Iovine, uno dei capi storici del clan dei Casalesi, «delfino» del boss Francesco Schiavone, rappresenta l'ennesimo duro colpo inferto alla criminalità organizzata negli ultimi due anni. E' l'arresto che accorcia ulteriormente la lista dei latitanti più pericolosi: ventiquattro mesi fa si era partiti da trenta, oggi ne mancano soltanto due: Matteo Messina Denaro e Michele Zagaria. Un risultato straordinario, che ormai senza ombra di dubbio fa dell'ultimo biennio quello più efficace e più fruttuoso nella lotta alle cosche, ai clan, alle 'ndrine. I numeri parlano da soli: 6.754 mafiosi arrestati, di cui 410 latitanti; più di 660 operazioni di polizia giudiziaria; 29.700 beni sequestrati per un valore di quasi 15 miliardi di euro; 5.900 beni confiscati, pari a 3 miliardi di euro. Un'azione capillare e mai prima d'ora così incisiva. Un coordinamento straordinario tra le varie istituzioni coinvolte.


Lo Stato, insomma, è tornato a fare lo Stato. Ha fatto sentire la sua presenza nei territori infestati dalla criminalità organizzata. Ha inviato l'esercito nei luoghi simbolo della malavita per non far sentire i cittadini abbandonati a se stessi, per non lasciare che la paura continuasse a inghiottire intere comunità, per non perpetuare la drammatica realtà di pezzi d'Italia controllati totalmente dalle cosche. Ha dato un segnale chiaro e inequivocabile anche col rafforzamento del carcere duro per i boss, col Piano straordinario antimafia varato dal governo e approvato pochi mesi fa dal parlamento (contenente misure quali la creazione dell'Agenzia per la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, il Codice delle leggi antimafia, l'introduzione di nuovi strumenti di aggressione ai patrimoni mafiosi e all'ecomafia), con la firma del Protocollo per la lotta alla criminalità organizzata assieme a Confindustria. Tanti provvedimenti che vanno in un'unica direzione: contrastare la malavita in ogni modo possibile e in tutti i settori nei quali essa ha infiltrazioni. E' una battaglia dura, durissima, contro un nemico con cento facce e mille diramazioni. Ma decisivo è appunto mostrare e dimostrare che lo Stato c'è, che le istituzioni ci sono, che la volontà di sradicare le mafie si concretizza in atti concreti.


Questa, come è stato detto, è l'antimafia dei fatti e non l'antimafia delle chiacchiere. L'antimafia che combatte ogni giorno la criminalità sul campo e non nei salotti. L'antimafia di tanti eroi ignoti e silenziosi, dei servitori fedeli dello Stato, dei valorosi uomini delle squadre «catturandi», e non di coloro che affollano le tribune mediatiche in cerca di gloria personale. E' l'antimafia di cui c'è bisogno, non quella che ha bisogno della ribalta perché così fa più chic. E' l'antimafia che unisce gli italiani, non quella che li divide sulla base di rozzi stereotipi ideologici, per cui se sei di centrodestra non hai diritto alla patente di perfetto antimafioso, mentre se sei di sinistra sei per ciò stesso un paladino della lotta ai clan. E' l'antimafia che vogliamo, non quella che tentano di imporci certi giornali e tv come strumento di lotta politica. A proposito, tra i principali quotidiani oggi in edicola l'unico che s'è scordato - diciamo così - di dare ampio risalto in prima pagina all'arresto di Iovine è stata l'Unità. Chissà perché...

Gianteo Bordero

mercoledì 17 novembre 2010

COSI' IL COMUNE DI SESTRI LEVANTE HA SPREMUTO I CITTADINI

Testo dell'intervento che ho tenuto durante il Consiglio Comunale di Sestri Levante il 16 novembre 2010, in merito al Rendiconto di Gestione 2009.

Visto che siamo in periodo di olive e di olio, potremmo paragonare il Bilancio Consuntivo 2009, che ci troviamo a discutere questa sera, ad una abbondante spremitura. La grande spremitura delle tasche dei cittadini sestresi, che l’anno passato si sono visti piovere sulla testa una gragnola di aumenti di tasse, canoni e quant’altro, giustificata allora dall’assessore Ceselli con la supposta necessità di attingere risorse per il Comune a causa – uso le parole dell’assessore – del “furto”, dello “scippo”, della “rapina” messi in atto dal governo nei confronti degli Enti locali. Ebbene, alle parole di Ceselli rispondono, contraddicendole, i numeri del Rendiconto 2009.


Un Rendiconto che, peraltro, ha avuto un iter travagliato. Lo prova in primo luogo il fatto che siamo qui a discuterlo praticamente a fine anno, tanto che gli stessi Revisori dei Conti, nella loro relazione, raccomandano - cito testualmente - “per la successiva annualità di effettuare una rendicontazione più tempestiva, che consenta di rispettare i termini di legge per l’approvazione del Consuntivo. Questo – proseguono i Revisori – anche ai fini di poter utilizzare l’eventuale avanzo di amministrazione non vincolato tenendo conto delle priorità in ordine al finanziamento dei debiti fuori bilancio ed al vincolo per crediti di dubbia esigibilità”.


In secondo luogo, che questo Rendiconto sia frutto di un percorso a dir poco faticoso è testimoniato dal fatto che sono state necessarie ben due stesure del Bilancio per giungere alla versione definitiva, quella che stasera siamo chiamati a votare. Nella prima versione, quella già approvata dalla Giunta e poi sostituita dalla presente, risultavano spese correnti maggiori per 350 mila euro nel settore Ambiente e Territorio, alla voce “servizio smaltimento rifiuti”. 350 mila euro che sono poi andati ad ingrossare il già copioso avanzo di amministrazione, che nella prima versione risultava essere di 3.351.000 euro, mentre nella seconda risulta essere di 3.701.000 euro. Appunto, 350 mila euro in più. A tal proposito, chiediamo all’assessore Ceselli una spiegazione in merito a tale significativa modifica che ha reso necessario annullare la prima delibera e votarne una seconda.


Parlavamo all’inizio di “spremitura”. Lo si evince proprio dal dato sull’avanzo di amministrazione, che chiude, come detto, a 3.701.000 euro, mentre nell’anno precedente risultava pari a 1.996.000 euro. Lo si evince poi dai dati sulle entrate tributarie ed extratributarie, entrambe in aumento rispetto al 2008. In particolare, per quanto riguarda le entrate tributarie, la tassa sulla spazzatura, la TARSU, passa da 2.630.000 euro a 3.208.000 euro, in conseguenza della revisione delle tariffe adottata con delibera di Giunta il 12 febbraio 2009. Per quanto riguarda le entrate extratributarie, svettano le “Sanzioni codice della Strada”, le cosiddette “multe”, che passano da 606.000 euro del 2008 a 1.269.000 euro del 2009. Un aumento cospicuo, anche al netto della riscossione coatta per contravvenzioni verbalizzate nel 2004 e prima non pagate. Sempre tra le entrate extratributarie fa la sua comparsa il Cosap, il Canone per l’occupazione del suolo pubblico, che l’anno scorso ha sostituito la Tosap, l’omonima tassa, garantendo all’Amministrazione 590.000 euro, mentre la Tosap ne portava 527.000. In totale, le entrate extratributarie passano dai 4.953.000 euro del 2008 ai 5.876.000 euro del 2009. Quasi un milione di euro in più. E il cittadino paga.


E veniamo al capitolo relativo ai trasferimenti, dove ci imbattiamo in qualche sorpresa. Vediamo ad esempio che il totale dei trasferimenti passa dai 6.171.000 del 2008 ai 5.884.000 del 2009, quindi più di 200 mila euro in meno. Ma la cosa interessante è andare a vedere la composizione e il trend di questi trasferimenti. E così scopriamo che ad aver subìto una sensibile riduzione sono i trasferimenti dalla Regione Liguria al Comune di Sestri Levante. Sia i trasferimenti correnti, che erano 1.960.000 euro nel 2008 e sono 1.674.000 nel 2009, sia i trasferimenti per funzioni delegate. In particolare, tra questi ultimi, vediamo che il contributo regionale per le politiche abitative passa dai 216 mila euro del 2008 ai 148 mila euro del 2009, il contributo regionale per l’assistenza scolastica passa da 105 mila euro a 98 mila euro, e soprattutto il contributo regionale per anziani passa dai 675 mila euro del 2008 ai 409 mila euro del 2009, 265 mila euro in meno. E mentre abbiamo più 10 mila euro di contributo regionale per minori e più 15 mila euro di contributo regionale per i disabili, per quanto riguarda il contributo regionale per attività sociale passiamo dagli 821 mila euro del 2008 ai 669 mila euro del 2009: meno 150 mila euro. Chissà che cosa ne pensa, di tutti questi tagli, l’assessore Valentina Ghio.


Una riflessione va fatta anche sui trasferimenti dallo Stato al Comune per il mancato introito dell’ICI sulla prima casa, abolita dal governo Berlusconi nel 2008. Nel 2009 l’importo certificato di tale trasferimento di risorse, come emerge dalla relazione dei Revisori dei Conti, è stato pari a 1.642.000. L’assessore Ceselli ne aveva messi a bilancio 1.500.000 mila. Quindi, rispetto alle previsioni dell’assessore, sono arrivati dal governo 142 mila euro in più. Per due anni, in questa sede, ci siamo sentiti dire e ridire dall’assessore, dal sindaco e dalla maggioranza che con l’abolizione dell’ICI sulla prima casa il governo metteva alla fame i Comuni. Noi abbiamo sempre sostenuto che non era così, e oggi ne abbiamo anche la prova provata. Se si sommano infatti a tali trasferimenti le entrate derivanti dall’ICI ancora vigente sulle seconde case, sulle attività commerciali e quant’altro, pari a 5.705.000 euro, otteniamo la cifra di 7.347.000 euro, di gran lunga superiore a quella di 6.719.000 euro che il Comune otteneva prima del 2008. Quindi potremmo perfino dire, numeri alla mano, che il Comune di Sestri Levante, dall’abolizione dell’ICI sulla prima casa, ci ha persino guadagnato. Il contrario del “furto”, il contrario dello “scippo”, il contrario della “rapina”. Semmai bisognerebbe dire un “grazie Roma” che però dubitiamo di sentire questa sera dai banchi della maggioranza.


Venendo poi alla parte relativa alle spese, si può sùbito osservare che assistiamo ad un aumento della spesa corrente e ad una contrazione della spesa in conto capitale. Per quanto riguarda la spesa corrente, il dato del 2009 consolida purtroppo una tendenza che si registra da diversi anni: nel 2007 la spesa corrente è aumentata del 7,4%, nel 2008 del 5,49%, nel 2009 un aumento più lieve dello 0,1% circa. Per quanto riguarda la spesa in conto capitale, passa dai 5.802.000 euro del 2008 ai 5.300.000 euro del 2009, con una diminuzione di 500 mila euro, pari all’8,64%. Sul totale delle spese, quelle correnti incidono per il 67,43%, quelle in conto capitale per il 18,21%. Segnaliamo dunque, per l’ennesima volta, che è necessario agire ulteriormente sul fronte del contenimento della spesa corrente, mettendo in atto politiche virtuose volte all’eliminazione degli sprechi, al risparmio, alla maggiore efficienza.


Da notare, in particolare, l’aumento delle spese correnti per prestazioni di servizi, che passano da 7.397.000 euro a 7.925.000 euro, in percentuale dal 37,7 al 40,3% sul totale delle spese correnti; la sostanziale stabilità delle spese per il personale, che passano dal 36,53% al 36,28%; l’aumento delle spese per l’acquisto di beni di consumo, da 753 mila a 833 mila euro; infine l’aumento delle spese per oneri straordinari della gestione, raddoppiate rispetto al 2008, da 137 mila a 278 mila euro.


Per quanto concerne l’esame delle funzioni di spesa corrente, osserviamo un aumento per quel che riguarda la gestione del territorio e ambiente (in particolare la gestione dei rifiuti) e una contrazione del settore sociale, con 300 mila euro in meno rispetto al 2008. Da segnalare anche lo 0,82% destinato al turismo, lo 0,17% destinato allo sviluppo economico, l’1,53% destinato al settore sportivo e ricreativo. Turismo, sviluppo economico e settore sportivo vengono penalizzati anche negli investimenti. Il settore sportivo registra, in conto capitale, 89 mila euro, pari all’1,70%, in netta diminuzione rispetto al 2008. Lo sviluppo economico e il turismo, invece, si attestano in conto capitale a quota zero virgola zero zero. Quando si dice le priorità strategiche… Segnalo, tra l’altro, che anche per quel che riguarda gli investimenti il settore sociale passa da 1.399.000 euro del 2008 a 876.000 euro del 2009, scendendo in percentuale dal 24,13 al 16,54%.


Per quanto concerne poi il conto economico, facciamo nostre le osservazioni dei Revisori dei Conti, i quali affermano che “l’equilibrio economico è un obiettivo essenziale ai fini della funzionalità dell’Ente. Il mantenimento del pareggio economico della gestione deve essere pertanto considerato un obiettivo da perseguire”.


Infine, una riflessione sull’indebitamento e sulla gestione del debito. L’indebitamento del Comune di Sestri Levante, a fine 2009, è pari a 18.787.000 euro. Ciò significa che ogni nuovo sestrese che nasce si ritrova sulle spalle un debito di più di mille euro. Credo che un’Amministrazione seria e che davvero abbia a cuore il futuro debba mettere in atto robuste politiche di riduzione di questo debito: è un atto dovuto nei confronti delle nuove generazioni. Per questo il nostro gruppo si augura che, come peraltro consigliato dai Revisori dei Conti nella loro Relazione, l’avanzo di amministrazione non vincolato possa essere utilizzato in tale direzione.


In conclusione deve essere ribadito il dato politico che emerge dal Rendiconto di Gestione 2009: il robusto aumento delle tasse e il forte aumento dell’avanzo di amministrazione. Il combinato disposto di questi due elementi ci dice che la Giunta Lavarello, in un periodo di crisi economica che ha colpito in maniera significativa anche il nostro Paese, ha scelto non soltanto di andare a tartassare i cittadini, ma lo ha fatto anche oltre il necessario. Insomma, in un momento di crisi avete spremuto i sestresi e poi vi siete tenuti i soldi lì. Credo che sia una politica che si commenta da sola. Del resto, altre politiche questa Amministrazione non sembra ontologicamente in grado di metterne in campo. Eppure sono quelle che servirebbero alla città: quelle virtuose, liberali e improntate allo sviluppo.

Gianteo Bordero
Capogruppo “Il Popolo della Libertà” - Sestri Levante

venerdì 12 novembre 2010

QUANDO FINI ERA CONTRO I RIBALTONI

da Ragionpolitica.it del 12 novembre 2010

«In Costituzione la norma antiribaltone». «Se il governo perde la maggioranza si va alle urne». Firmato Gianfranco Fini. Peccato soltanto che si tratti di dichiarazioni risalenti all'anno di grazia 2005. Quattordicesima legislatura. Terzo governo Berlusconi. Maggioranza di centrodestra formato Casa delle Libertà: Forza Italia, An, Lega e Udc. Intervistato dal Gazzettino di Venezia, l'allora vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri analizza la situazione politica, che vede all'ordine del giorno le dimissioni di Marco Follini da segretario dell'Udc e le conseguenti voci su un possibile passaggio di quest'ultimo al centrosinistra. Domanda dell'intervistatore, Giorgio Gasco, a Fini: «Lei ha appena detto che c'è in giro qualcuno che ha governato per quattro anni e ora si chiama fuori, all'ultimo giro. Insomma, i voltagabbana. Pensava a Follini?». Risposta: «Pensavo a quelli che, eletti col centrodestra, poi si sono collocati nel centrosinistra, magari attraverso quel grande riciclatore, quella lavanderia della politica, che è Mastella dell'Udeur». A futura memoria. Passando poi all'esame del più importante provvedimento in votazione alle Camere in quella fase, e cioè la riforma costituzionale che sarebbe poi stata bocciata dal referendum dell'anno successivo, affermava l'allora presidente di An: «La revisione (della Costituzione, ndr) conterrà la norma antiribaltone, così che se il governo perde la maggioranza si va alle urne, evitando di replicare le storture di Prodi e D'Alema».


Chissà se oggi l'onorevole Fini condivide ancora queste parole da lui stesso pronunciate. Sono infatti tali e tante le giravolte di idee e di posizioni politiche a cui egli ci ha abituati da un po' di tempo a questa parte (immigrazione, temi etici, Costituzione, ecc...), che è lecito nutrire qualche dubbio anche in merito al tema in oggetto. Chi ha avuto occasione di seguire il dibattito tra il presidente della Camera e Massimo D'Alema organizzato qualche tempo fa ad Asolo dalle fondazioni FareFuturo e Italianieuropei se ne sarà reso conto: il feeling tra i due andava ben oltre la personale stima reciproca, che entrambi non hanno mai nascosto. Si trattava invece di una liaison politica a tutti gli effetti. Per quanto riguarda D'Alema, non c'è da stupirsi: stiamo parlando del maggior teorico - e pratico - del ribaltone che vi sia in circolazione, avendo egli già organizzato quello del post Berlusconi nel 1994, che portò alla nascita del governo Dini, e avendo realizzato quello del 1998 con il quale cacciò da Palazzo Chigi il suo compagno di schieramento Romano Prodi e si insediò personalmente alla guida dell'esecutivo. Quello che oggi lascia perplessi - per usare un eufemismo - non è dunque la tendenza dalemiana a reiterare i tentativi del passato con manovre finalizzate a trasformare gli sconfitti dalle urne in vincitori con giochi di Palazzo, quanto la china intrapresa da Fini in merito alla nascita di governi non legittimati dal voto popolare.


Ce lo ricordiamo tutti il segretario del Msi tuonare contro la Prima Repubblica, contro il consociativismo e contro la partitocrazia. Ce lo ricordiamo tutti il presidente di An strenuo difensore del bipolarismo e del rispetto della volontà popolare contro ogni ritorno al passato. E più vivi sono questi ricordi, più stride con la memoria l'immagine che oggi Fini fornisce di sé con le sue scelte, con quel suo tatticismo esasperato, con quel riportare in auge le peggiori liturgie politiche del tempo che fu, i riti fumosi di un'epoca che gli italiani non rimpiangono. Tant'è vero che, come ha sottolineato di recente il direttore responsabile de Il Giornale, Alessandro Sallusti, il Fini in versione Alleanza Nazionale, alleato di Berlusconi, era riuscito a portare il suo partito al 15% dei consensi, mentre oggi il Fini nella versione antiberlusconiana di Futuro e Libertà non ne raccoglie - sondaggi alla mano - neppure la metà nella migliore delle ipotesi, e ancora meno ne raccoglierebbe se decidesse di lanciarsi in spericolate alleanze con coloro che egli ha sempre combattuto e contrastato.


Insomma, il «nuovo Fini», come già ci è capitato di osservare, potrà pure piacere un sacco all'intellighenzia politicamente corretta, ai maitre-a-penser della sinistra radical chic, ai benpensanti che leggono Repubblica e ai giustizialisti che leggono Il Fatto, agli antiberlusconiani in servizio permanente effettivo. Ma il rischio più che concreto - per lui - è che a non seguirlo siano proprio molti dei suoi estimatori di un tempo, quel popolo della destra che vedeva in Fini una bandiera della coerenza, della fedeltà ai patti e alle alleanze, della chiarezza politica, dei valori tradizionali, e che oggi non si riconosce più in un politico che sembra rinnegare, gettandolo a mare, tutto ciò che egli ha costruito negli ultimi vent'anni.

Gianteo Bordero

lunedì 8 novembre 2010

FINI. E QUESTO SAREBBE IL LEADER DEL FUTURO?

da Ragionpolitica.it dell'8 novembre 2010

E questo sarebbe il nuovo? Questo sarebbe il coraggio di un grande leader? Ma ci faccia il piacere, onorevole Fini. Raschiando via dal suo discorso alla convention di Futuro e Libertà i quintali di chiacchiere senza costrutto e di retorica da vecchia politique politicienne, quello che resta è da un lato la sua richiesta a Berlusconi di aprire una crisi parlamentare al buio, come ai tempi peggiori della Prima Repubblica (a proposito, Fli non doveva inaugurare a Perugia la Terza?) e, dall'altro lato, la sua mancanza di coraggio nel trarre le conseguenze logiche delle sue stesse parole, votando la sfiducia al governo Berlusconi, in cui non si riconosce più, nelle sede a ciò preposta, cioè - come lei dovrebbe ben sapere, anche se domenica ha fatto finta di dimenticarsene - il parlamento. Altro che ruggito del leone! La sua è soltanto una fuga dalla piena assunzione di responsabilità, la dissociazione - tipica anche in questo caso della peggior politica politicante - tra il dire e il fare. Del resto, come diceva Manzoni, il coraggio se uno non ce l'ha non può darselo. Al suo confronto il tanto vituperato Clemente Mastella, che dopo essersi dimesso da ministro andò in Senato per votare la sfiducia al governo Prodi, svetta come un gigante di coerenza e di credibilità.


Esageriamo? Sono i fatti stessi a darci ragione. Anzi, i non fatti, cioè quello che non accade. Se secondo lei il Berlusconi IV è al capolinea e non è più in grado di mettere in atto scelte utili per il Paese, c'è una sola strada maestra da percorrere. Innanzitutto, prima di invocare le dimissioni di Berlusconi, si dimetta lei da presidente di Montecitorio, visto che ormai è chiara a tutti l'assoluta insostenibilità della sua posizione di terza carica dello Stato che invece di rappresentare in modo imparziale tutta la Camera, come stabilisce lo stesso regolamento oltre che il comune buon senso, si fa attore di parte, promuovendo scissioni, dando vita a un nuovo partito, gettando fango su quello dal quale proviene, lavorando attivamente e in prima fila per rivoltare come un calzino il quadro politico uscito da libere elezioni. Poi, dopo essersi dimesso, da capo parlamentare della sua nuova - si fa per dire - creatura, sfili anche lei sotto il banco della presidenza della Camera e voti di fronte ai rappresentanti del popolo la sfiducia al governo. Questo sì che sarebbe un atto di coraggio, da vero leader quale lei aspira ad essere.


Ma lei non farà nessuna delle due cose. Ritirerà la delegazione di Fli dall'esecutivo e poi, come ha annunciato a Perugia, si terrà le mani libere, votando di volta in volta, senza vincolo di maggioranza, i provvedimenti sottoposti all'attenzione delle Camere. Così, oltre a creare il caos parlamentare e la paralisi dell'azione di governo, facendo pagare al Paese il prezzo salato della sua personale ambizione politica, riporterà indietro le lancette della nostra storia repubblicana, riproponendo la deleteria prassi delle maggioranze variabili slegate da qualsiasi rapporto organico con l'esecutivo. Lei, che per decenni è stato il fautore di una svolta presidenziale per l'Italia in nome della governabilità e dell'ammodernamento delle nostre istituzioni, si comporta ora come un qualsiasi segretario del pentapartito che fu. Tutto questo non in nome del ritorno alla politica da lei invocato dal palco della convention di Futuro e Libertà, ma per un mero calcolo tattico.


Perché è chiaro che lei, onorevole Fini, non sta facendo politica, alta politica - checché ne dicano i suoi pasdaran che sembrano affetti da quello stesso culto cieco della personalità rimproverato agli esponenti e ai militanti del Pdl - bensì un logorante, cinico e sterile tatticismo fine a se stesso. Come altro spiegare, ad esempio, il fatto che solo un mese fa Fli aveva votato, alla Camera e al Senato, la fiducia all'esecutivo sui cinque punti programmatici illustrati dal presidente del Consiglio, mentre oggi scopriamo che questi punti sono diventati «punticini», il «compitino» assegnato a ogni parlamentare, e che serve una «nuova agenda» di governo, anzi serve un nuovo governo con una nuova maggioranza?


Quando lei ha camminato in proprio in chiave antiberlusconiana, in questi ultimi sedici anni, non ha avuto grande fortuna. L'episodio dell'Elefantino con Mario Segni, naufragato miseramente causa disarmante mancanza di voti, è li a dimostrarlo. Non sappiamo come finirà la sua nuova avventura. Questa volta lei gode dell'ampio consenso dei media e della sinistra, di Scalfari e di D'Alema. Dubitiamo fortemente che le basterà per realizzare i suoi sogni di gloria. Non si illuda: non saranno i voti della gauche a benedire quella «nuova destra, moderna ed europea» che Fli dice di voler costruire. Quanto ai voti del centrodestra, nella stragrande maggioranza dei casi continueranno ad andare, come peraltro documentato dai sondaggi, verso colui che il centrodestra ha creato e fatto crescere in questi anni. Chiaramente non si tratta di lei, ma di colui dal quale sono dipese, dal '94 ad oggi, anche le sue fortune politiche.

Gianteo Bordero

sabato 6 novembre 2010

ELOGIO DI GUIDO BERTOLASO

da Ragionpolitica.it del 6 novembre 2010

Guido Bertolaso va in pensione. L'11 novembre lascerà la direzione della Protezione civile e l'incarico di sottosegretario del governo Berlusconi. E' una «brutta notizia», come ha affermato il presidente del Consiglio durante la conferenza stampa tenuta venerdì al termine del Consiglio dei ministri, auspicando allo stesso tempo che la collaborazione con lui possa continuare in altre forme.


In questi anni Bertolaso è stato soprannominato «l'uomo delle emergenze», chiamato a gestire le situazioni più difficili e complicate conseguenti alle calamità naturali (dalle alluvioni ai terremoti alle frane agli incendi), e a intervenire in circostanze di degrado non più sostenibili (ad esempio la questione dei rifiuti in Campania). Ma la definizione che più si attaglia al capo della Protezione civile è quella che lui stesso ha dato di sé: un «servitore dello Stato». Perché Guido Bertolaso questo ha rappresentato da circa quindici anni a questa parte: il simbolo, il volto, la presenza tangibile dello Stato nei luoghi colpiti e martoriati dalla furia della terra e/o dall'incuria degli uomini. Egli ha portato lo Stato dove lo Stato non c'era o risultava non pervenuto.


Chi l'ha criticato e lo critica per il dilatarsi dei poteri che nel corso degli anni si sono stratificati attorno alla Protezione civile da lui guidata, non tiene conto di questo dato sistemico con cui Bertolaso, sin dal suo primo incarico ricevuto durante il governo Prodi nel 1996, ha dovuto fare i conti: la drammatica debolezza dello Stato in molte parti della Penisola. Una debolezza, quando non un'assenza, dovuta al fatto che per molti decenni, e in maniera più accentuata a cominciare dagli anni Sessanta del secolo scorso, lo Stato - si perdoni la ripetizione - è stato assorbito quasi per intero dai partiti (la «Repubblica dei partiti», come la chiamava Pietro Scoppola), con conseguente indebolimento della dimensione istituzionale degli organismi preposti al governo del Paese. Partito indica infatti una parte, mentre l'istituzione rappresenta tutti, rappresenta la nazione nel suo insieme. E un conto è lavorare per una parte, un conto è lavorare nel e per l'interesse generale.


Guido Bertolaso non è stato e non è uomo di parte, ma in tutto e per tutto uomo delle istituzioni, che è un altro modo per dire «servitore dello Stato». E proprio per questo Silvio Berlusconi lo ha chiamato a ricoprire l'incarico di sottosegretario nel suo quarto governo: non soltanto perché il capo della Protezione civile è, come il presidente del Consiglio, «uomo del fare», ma anche e soprattutto perché egli ben rappresenta, incarnandolo in sé, il programma con il quale la coalizione di centrodestra si è presentata agli elettori nel 2008, riassunto in quel «Rialzati, Italia» che significava e significa la volontà di lavorare per dare forma ad uno Stato degno di tal nome, più efficiente, più vicino al cittadino, capace di far sentire la sua presenza laddove le circostanze lo richiedano. Lo stesso Berlusconi, del resto, ha più volte affermato, anche di recente, di non intendere la sua missione politica come un impegno di parte e quindi di partito, ma come dedizione all'insieme, a tutto il popolo italiano, allo Stato in quanto casa comune dei cittadini.


Lo spirito con cui Bertolaso ha operato in questi anni, e in ragione del quale si è creata una particolare sintonia con il premier, è dunque una ricchezza per il nostro Paese, è ciò che serve all'Italia per continuare nel cammino verso la costruzione di uno Stato nel quale tutti possano riconoscersi e di cui tutti possano andare orgogliosi. Chi conosce i volontari della Protezione civile che negli ultimi lustri, in ogni parte dello Stivale e nelle condizioni più difficili, hanno lavorato con Bertolaso, sa di che cosa stiamo parlando. Il resto - le inchieste, il fango mediatico, i giudizi affrettati, i presunti scandali - lo lasciamo ai professionisti del giustizialismo e dell'ideologia anti-italiana che purtroppo alberga in tanta parte degli opinion makers nostrani. Anche perché al clamore iniziale delle recenti inchieste non ha fatto finora seguito alcuna sentenza, e perché già in passato abbiamo assistito alla condanna preventiva e alla delegittimazione pubblica di fedeli servitori dello Stato rivelatisi poi, alla prova dei fatti, totalmente estranei alle accuse mosse nei loro confronti.


Gianteo Bordero

mercoledì 3 novembre 2010

ANTIBERLUSCONISMO, SINISTRA OSSESSIONE

da Ragionpolitica.it del 3 novembre 2010

Su RaiNews24 va in onda un'intervista ad uno psichiatra che tenta di illustrare ai telespettatori la presunta malattia del presidente del Consiglio, con un compiaciuto Corradino Mineo, direttore della testata, a fargli da suggeritore e da spalla. E' l'ultimo dei tanti segnali, questo, che mostra come davvero il nostro Paese stia toccando uno dei punti più bassi del dibattito pubblico. Sommato agli articoli e alle analisi - chiamiamole così - pubblicate in questi giorni dalla cosiddetta «grande stampa» nazionale e alle dichiarazioni dei leader dell'opposizione, esso certifica che la vera psicosi non è quella che secondo i benpensanti di ogni ordine e grado attanaglia il capo del governo, bensì quella che ormai da lunga pezza ha preso dimora nelle menti dell'intellighenzia antiberlusconiana. E' infatti dal 1994, cioè dalla fondazione di Forza Italia e dalla vittoria elettorale sulla «gioiosa macchina da guerra» capitanata da Achille Occhetto, che si è diffusa nel nostro Paese, soprattutto tra i rappresentanti della cultura radical-chic e politicamente corretta, dominante nelle «alte sfere» della società e tra i cosiddetti «poteri forti», un'ossessione monomaniacale nei confronti dell'uomo di Arcore.


Per tutti coloro che sedici anni fa, avendo cavalcato l'onda giustizialista e ipocritamente moralista di Mani Pulite, si ritenevano titolati ad assumere sulle proprie spalle anche il potere politico e la guida del governo, Berlusconi ha rappresentato e rappresenta l'incubo che diventa realtà quando meno te lo aspetti, l'odioso imprevisto che ti taglia il fiato a un metro dal traguardo, la sciagura che fa affondare la nave che sta per approdare in porto. La iattura delle iatture. Intollerabile come tutte le disavventure che ti colpiscono sul più bello, quando sei lì che pregusti quella vittoria finale che niente e nessuno ti potranno mai togliere dalle mani. E invece... E invece succede, e la vittoria si trasforma in sconfitta, la realtà evapora tra le nebbie dei sogni, la meta sicura diventa di colpo un miraggio.


Quando si parla dei motivi per i quali la sinistra italiana e i suoi sostenitori nel mondo della cultura, dell'informazione, della scuola e della magistratura non sono riusciti a comprendere, salvo qualche rarissima eccezione, gli elementi politici del successo elettorale di Berlusconi, occorre tenere presente questa dimensione metapolitica e - in questo caso sì - psicologica che pesa come un macigno nel determinare ancora oggi l'atteggiamento di tanti oppositori nei confronti del presidente del Consiglio. Se la sinistra con i suoi addentellati, infatti, considerasse il Cavaliere un avversario politico, lo combatterebbe con mezzi politici, lo contrasterebbe sul piano dei programmi, delle proposte, dell'azione di governo, delle riforme. Il fatto che invece lo assalti un giorno sì e l'altro pure sul piano personale, andando a rovistare quasi voyeuristicamente nella sua vita privata, mettendo in scena processi mediatici al suo «stile di vita» e via degradando senza soluzione di continuità, conferma che il campo in cui essa si muove è un altro, che la rappresentazione di Berlusconi che essa propone agli italiani nasce da qualcosa di diverso dall'avversione politica e persino dall'odio politico.


E' appunto un'ossessione, è quello che la Treccani definisce come «fenomeno patologico che si manifesta con la presenza, persistente o periodica, di una rappresentazione mentale, un impulso, un affetto, che la volontà non riesce a eliminare, e che risulta accompagnata da un sentimento sgradevole di ansia, paragonabile a quello di una minaccia incombente». Come spiegare altrimenti le quotidiane montagne di carta dedicate prima al caso Noemi, poi alla vicenda D'Addario e oggi alla storia della giovane «Ruby Rubacuori»? Come trovare altrimenti giustificazione ai numeri monotematici de La Repubblica, alle puntate di Annozero in versione gossip, alle dichiarazioni moraleggianti dell'onorevole Di Pietro? Questa è infine l'opposizione oggi: non un'alternativa politica, ma una congerie di gruppi, centri di potere, circoli intellettuali tenuti insieme non da una «certa idea del Paese», non dalla comune volontà di realizzare un programma di riforme, bensì, ancora e sempre, da un antiberlusconismo psicologico e patologico che la fa rimanere lontana anni luce dalla realtà profonda dell'Italia e degli italiani.

Gianteo Bordero

lunedì 1 novembre 2010

SARÀ PER TE

sabato 30 ottobre 2010

SESTRI LEVANTE. AREE EX FIT, AL PEGGIO NON C'È MAI FINE

Testo dell'intervento che ho tenuto durante il Consiglio Comunale del 29 ottobre 2010 in merito alla variante al Piano di Riqualificazione Urbana delle aree ex Fit di Sestri Levante.

Vi sono due domande fondamentali che questa sera ci dobbiamo porre, in ordine alla nuova variante al Piano di Riqualificazione Urbana delle aree ex Fit sottoposta alla nostra attenzione. Due domande molto semplici e strettamente collegate tra loro. La prima: questa variante corrisponde agli interessi generali della città? La seconda: questa variante prevede più cemento o meno cemento a Sestri Levante? E’ dalla risposta a tali quesiti che credo debba dipendere il voto che il Consiglio Comunale e i gruppi che ne fanno parte esprimeranno al termine di questa discussione. Non sono domande capziose, perché è evidente che quella delle aree ex Fit e delle scelte che per tali aree sono state compiute è una questione che non soltanto riguarda una parte significativa del territorio di Sestri Levante, ma anche e soprattutto riflette l’indirizzo amministrativo che ha guidato l’azione delle Giunte che hanno governato la città negli ultimi quattordici anni. Quello che è stato realizzato a partire dall’elaborazione del PRU per le aree ex Fit reca su di sé il segno da un lato della de-industrializzazione, dall’altro lato della cementificazione e della progressiva saturazione del territorio, segnali evidenti, questi ultimi, di una preoccupante assenza di una politica ambientale degna di tal nome.


Tornando alle due domande che ho posto all’inizio, per arrivare a formulare una risposta ad esse è necessario prendere in esame i punti centrali della variante per poi inserirli in un quadro d’insieme.


Il primo punto nevralgico della delibera che andremo tra poco a votare consiste nell’inclusione dell’area comunale di Cantine Mulinetti all’interno del perimetro del PRU delle aree ex Fit. Tale scelta viene spiegata, nella Relazione Illustrativa della variante, con motivazioni – cito testualmente – “legate prioritariamente alla bonifica dell’area industriale dismessa ed alla volontà della Civica Amministrazione di realizzare un Parco con caratteristiche di elevata qualità paesaggistica e funzionale, obiettivo difficilmente raggiungibile – prosegue la Relazione – limitando la zona verde all’area ex Fit”. Alcune domande sorgono spontanee: non sarebbe stato meglio, da tutti i punti di vista, come peraltro previsto inizialmente, mettere in opera una radicale bonifica del sottosuolo di un territorio caratterizzato, come si poteva leggere nello Studio di Impatto Ambientale redatto nel 1998 dallo studio Apua, da “un forte livello di inquinamento”? Solo oggi ci si rende conto che la scelta compiuta in luogo dell’originaria previsione di modalità di bonifica ha creato, come esplicitamente scritto nella Relazione Illustrativa, “la necessità di rinunciare agli originari obiettivi e caratteri compositivi degli spazi verdi?” E ancora, solo oggi ci si rende conto – cito sempre dalla Relazione – che “la decisione di prevedere la realizzazione di un complesso sportivo in una porzione dell’area destinata a parco… ha consistentemente ridotto gli spazi disponibili per le sistemazioni del verde e creato le condizioni per un ripensamento complessivo di assetti e funzioni del cosiddetto parco urbano”? E infine, solo oggi si scopre che – leggo ancora dalla illuminante Relazione Illustrativa – “la collocazione in sicurezza dei terreni inquinati provenienti dagli scavi della UA4 sull’area destinata a parco ha creato l’ultimo e rilevante vincolo… su di una ulteriore parte dell’area destinata a parco”?


In attesa di una risposta da parte dell’Amministrazione, che certo non può fingere di essere arrivata oggi alla guida della città, quello che appare chiaro è che in seguito alle scelte operate negli anni scorsi sulle aree ex Fit non sarebbe possibile, allo stato attuale delle cose, realizzare il cosiddetto “polmone verde” della città, il tante volte annunciato parco urbano. La conferma sta nei numeri riportati dalla Relazione Illustrativa del progetto, nella parte relativa al confronto tra il PRU vigente e la variante. Nel progetto approvato nel 1999 era prevista la sistemazione di un’area di 29.765 mq a parco. Nella variante propostaci questa sera l’area destinata a parco si riduce a 22.450 mq, ricadente per 12.690 mq nel comparto ex Fit e per 9.760 mq nelle aree del sedime dell’Aurelia e di Cantine Mulinetti. Insomma, il concetto è chiaro: no Mulinetti, no Parco. E’ l’ennesima conferma del fatto che questa Amministrazione ha dato priorità assoluta non al verde e all’ambiente, come richiesto dai cittadini, bensì alla cementificazione ed alla saturazione del territorio. Non è un’opinione del sottoscritto, ma è ciò che emerge, come abbiamo visto, dagli stessi documenti allegati al progetto di variante.


Ma poi – e vengo al secondo punto nodale della delibera – è veramente il recupero di spazi per la realizzazione del Parco lo scopo della variante? Se stiamo ancora una volta a quanto scritto nella Relazione Illustrativa, la risposta è purtroppo negativa. Tant’è vero che la Relazione compie un mutamento linguistico di non poco conto, e non parla più semplicemente di “parco”, bensì di “parco-parcheggio”. E con ciò è detto tutto: non si tratta in primo luogo di realizzare quello che da molti anni la città attende – il parco appunto – e che alla città è dovuto secondo le previsioni della prima Convenzione stipulata con il proprietario delle aree ex Fit e con il soggetto attuatore del PRU. No, la priorità assoluta è quella di nuovi parcheggi, come peraltro si desume in maniera chiara anche dalla tabella contenente il cronoprogramma della variante. Avremo quindi un parcheggio alberato di interscambio con 343 posti auto e un’area sosta per camper localizzata a ridosso della ferrovia (il posto ideale e più tranquillo per sostare con un camper!).


Ma non è tutto. Perché - e così vengo al terzo punto centrale della delibera - ecco arrivare anche un’autorimessa privata in via della Chiusa, nella zona classificata come UA4. Un’autorimessa su tre livelli interrati (per un totale di 345 box) con sistemazione esterna a verde e parcheggi (86 posti auto pubblici). La destinazione d’uso di tale autorimessa – afferma la Relazione Illustrativa – “è di tipo privato, a servizio della residenza e delle attività del terziario presenti nell’area”. Credo che in questo caso si sia usata una parola sbagliata: il posteggio su tre piani non sarà “a servizio” della residenza, bensì “a pagamento” della residenza. Infatti, come è evidente, i primi beneficiari della costruzione dell’autorimessa, la cui realizzazione – guarda caso – ha la priorità nel cronoprogramma della variante, non saranno di certo i sestresi. Ancora una volta, dunque, prima il cemento, e poi, se verrà, il verde. Andando anche in questo caso a fare il raffronto tra il PRU vigente e la variante, si nota che l’introduzione della struttura interrata su tre livelli comporta ulteriore cementificazione per 10.323 mq. L’indirizzo politico è chiaro: prima la saturazione del territorio e poi, se verrà, la politica ambientale.


A meno che non si voglia spacciare per politica ambientale - e passo così al quarto punto importante - la decisione, contenuta nella variante, di ridimensionare la previsione del nuovo collettore fognario. Che non arriverà più dalle aree dell’ex Tubifera fino al cosiddetto “depuratore” di Portobello, bensì si fermerà in Piazza Bo. Il resto lo farà il vecchio collettore, con risultati che possiamo prevedere esalanti. E’ l’ennesima dimostrazione, questa, dell’attenzione che l’attuale Amministrazione riserva all’ambiente, in continuità ideale e reale con coloro che tempo addietro decisero che il luogo migliore per costruire un depuratore a Sestri Levante era nientepopodimeno che la Baia del Silenzio.


Quinto punto. I costi degli interventi previsti dalla variante che stiamo discutendo. In totale, le previsioni, come da tabella allegata agli atti, parlano di un costo complessivo di 4.043.817,32 euro. Di questi, 1.409.317,32 deriveranno da oneri di urbanizzazione e oneri aggiuntivi. 210.000 euro arriveranno poi da altre risorse private. Le risorse pubbliche previste ammontano invece a 2.424.500 euro. In considerazione delle osservazioni precedenti, mi pare che ancora una volta il rapporto costi/benefici, tra risorse pubbliche impiegate e vantaggi per la città sia purtroppo sbilanciato a sfavore dei sestresi. Del resto, è così sin dagli inizi dell’operazione sulle aree ex Fit. E’ stato così, continua ad essere così.


Non si vede dunque, in questa delibera, alcun significativo mutamento di rotta rispetto al passato. Non c’è discontinuità, non c’è un minimo di autocritica, non c’è insomma la consapevolezza del fatto che le scelte compiute sulle aree ex Fit sono state un danno, e non un vantaggio, per la città. L’unica cosa che si riesce a dire di fronte al provvedimento che tra poco voteremo è che si tratta solo nominalmente di una “variante”, mentre sostanzialmente non fa che confermare le scelte di fondo di un piano nato male e che rischia di finire peggio, propagando i suoi effetti negativi per molto tempo ancora. Immaginiamo per un attimo di essere un sestrese del futuro che fra trent’anni, in una serata come questa, transita nelle aree ormai ribattezzate, con un acronimo, CML. Immaginiamo il suo sguardo triste di fronte alle tapparelle chiuse, alle seconde case vuote, ai parcheggi deserti, all’area camper senza camper. Gli sembrerà di essere come il protagonista del più bel romanzo di Dino Buzzati “Il deserto dei Tartari”: “Là dove la strada finisce, fermo sulla riva di un mare di piombo – in questo caso di cemento – tutto così da immemorabile tempo”.

Gianteo Bordero
Capogruppo “Il Popolo della Libertà” - Sestri Levante 

martedì 26 ottobre 2010

COME SI VINCE A WATERLOO

L'ALTERNATIVA A BERLUSCONI? IL RITORNO DELLA PARTITOCRAZIA

da Ragionpolitica.it del 26 ottobre 2010

Che cosa teorizzano, in realtà, coloro che oggi caldeggiano la nascita di un governo di transizione alternativo al governo Berlusconi? Niente di più e niente di meno che il ritorno alla partitocrazia. Le giustificazioni (la necessità di modificare la legge elettorale e di gestire in modo diverso la crisi economica) che i vari D'Alema, Casini, Fini adducono per motivare siffatta proposta altro non sono altro che lo specchietto per le allodole con cui essi tentano di nobilitare un'operazione che di nobile ha davvero poco. Si tratta, in sostanza, di una prospettiva che riporterebbe il nostro Paese agli anni peggiori della Prima Repubblica, quando la democrazia parlamentare compiuta alla quale aveva lavorato Alcide De Gasperi degradò verso quella forma di regime partitocratico e consociativo che si è protratta fino all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso.


De Gasperi aveva compreso che il problema centrale derivante dall'assetto istituzionale prodotto dalla Carta del '48 era l'assenza di un vero statuto di governo, tale cioè da garantire robustezza e continuità all'azione riformatrice dell'esecutivo. Occorreva, a Costituzione invariata, affermare con chiarezza l'idea secondo la quale compito supremo del parlamento è quello di esprimere una solida, stabile e coesa maggioranza di governo. Egli tentò di realizzare la sua intuizione con la legge elettorale varata, dopo molte polemiche e un forte ostruzionismo delle opposizioni, nei primi mesi del 1953. La nuova normativa prevedeva la possibilità dell'apparentamento di due o più partiti e, assieme a ciò, un premio di maggioranza (65% dei seggi) al partito o alla coalizione di partiti che avessero superato la metà del totale dei voti validi. Quella che la sinistra definì come «legge truffa» era in realtà lo strumento che avrebbe potuto evitare al Paese trent'anni e più d'instabilità di governo - con tutte le deleterie conseguenze che ciò ha comportato - e il diffondersi sempre più pervasivo della partitocrazia. Purtroppo, nelle elezioni politiche del 7 giugno del '53, il premio di maggioranza non scattò per poche migliaia di voti (il quadripartito Dc, Pli, Pri e Psdi raggiunse quota 49,8%). Fu una sconfitta cocente per De Gasperi. Una sconfitta che segnò il tramonto non soltanto della parabola politica del grande leader democristiano, ma anche, per usare le parole di Baget Bozzo, del «tentativo cattolico liberale di dare una vera vita parlamentare alla democrazia italiana». Ciò che venne dopo, infatti, fu infatti quell'assemblearismo consociativo che ha rappresentato una pagina grigia della nostra storia. La politica - nota ancora Baget Bozzo - fu ridotta a «mera tattica, fatta di accordi convergenti senza fini comuni, maggioranze di fatto e di compromesso».


Questo breve excursus storico è utile per comprendere qual è il rischio che corre il nostro Paese qualora dovesse realizzarsi, nei prossimi mesi, l'ipotesi di un governo di transizione sostenuto da forze in gran parte diverse da quelle premiate dai cittadini nel 2008. Tanto più che tale esecutivo avrebbe, come primo punto all'ordino del giorno, proprio la cancellazione, dall'attuale legge elettorale, di quel premio di maggioranza che oggi garantisce alla coalizione che ha ottenuto il maggior numero di consensi la quota di parlamentari sufficiente per governare e dare attuazione concreta al programma presentato ai cittadini. Il tanto detestato e criticato «Porcellum» ha infatti il pregio, così come lo aveva la legge De Gasperi, di far coincidere maggioranza parlamentare e maggioranza di governo, anche grazie all'indicazione del nome del candidato presidente del Consiglio all'interno del simbolo elettorale. Ciò corrisponde a quello che gli italiani hanno chiesto a gran voce a partire dai referendum Segni del '93, che diedero l'impulso alla nascita di quel bipolarismo che rappresenta la conquista maggiore della Seconda Repubblica. L'alternativa proposta dai fautori di un nuovo esecutivo (sostenuto da partiti altri da quelli usciti vincitori due anni fa) e di una nuova legge elettorale (senza più premio di maggioranza) non è dunque, checché essi ne dicano, un passo in avanti verso una compiuta democrazia governante, ma una pericolosa replica del tempo in cui i partiti pensavano di avere dai cittadini una delega in bianco per gestire a modo loro tutto il potere disponibile, assorbendo così in se stessi tutta l'ampiezza della sovranità popolare.


Gianteo Bordero

venerdì 22 ottobre 2010

IL DESERTO DI GIOVANNI

TU QUOQUE, SAVIANO!

da Ragionpolitica.it del 22 ottobre 2010

Giusto pochi giorni fa parlavamo su queste pagine della bassa considerazione che un dirigente di primo piano della sinistra, Massimo D'Alema, nutre nei confronti degli italiani che votano Berlusconi. Quello dell'ex segretario dei Ds non è un caso isolato, tant'è vero che giovedì sera è stata la volta di un altro potenziale leader - almeno così pare leggendo gli auspici di molti organi di stampa nazionali - della gauche nostrana. Parliamo dello scrittore Roberto Saviano, che dagli schermi di Annozero, nel corso del dibattito sulla sua prossima trasmissione Vieni via con me, ha dichiarato quanto segue: «Io non parlo alla sinistra, io non ho scritto monologhi per parlare a una parte, ma per parlare anche agli elettori di centrodestra, dicendogli anche "Continua a votare, non voglio cambiarti le idee. Vorrei solo che quando vai a votare o quando credi a queste idee fossi solo un po' più consapevole"».


Rieccoci dunque alla stucchevole rappresentazione dell'elettore di centrodestra come persona non pienamente «consapevole» del voto che esprime, come individuo che si lascia facilmente abbindolare dalla propaganda berlusconiana, come cittadino che non conosce, non sa chi e che cosa siano veramente il leader e lo schieramento a cui egli dà la sua preferenza. C'è dunque bisogno che qualcuno dall'alto, qualche illuminato della prima o dell'ultima ora, si premuri di «raccontare», come dice Saviano, la verità. Perché il problema è la «narrazione» di una realtà che, se fosse davvero conosciuta, impedirebbe ai rozzi elettori berlusconiani e leghisti di compiere un'altra volta il madornale errore di dare fiducia al Cavaliere o al Senatur.


Saviano si propone di fare ciò con la trasmissione che sta preparando insieme a Fabio Fazio e che andrà in onda fra due settimane - guarda caso - su Rai3. E con che cosa l'autore di Gomorra cercherà di aprire gli occhi dei cavernicoli destrorsi? Non con la propaganda politica, da cui egli pare essere ontologicamente alieno ed immune, bensì appunto con la pura «narrazione» ed il semplice «racconto». Di che cosa? Della «macchina del fango» mediatica, di come «chi si oppone a certi poteri viene demolito». E ancora: del post-terremoto all'Aquila, del caos rifiuti a Napoli, della vicenda Dell'Utri, per finire con la discriminazione contro gli omosessuali che verrà illustrata nientepopodimeno che da Nichi Vendola. Perché sono questi, evidentemente, i punti nodali attorno ai quali chi guida il Paese ha costruito in questi anni una rappresentazione di se stesso che non corrisponde in alcun modo - così lascia intendere Saviano - alla realtà.


Ma non è tutto. Perché il Potere, di fronte a tale coraggioso affronto via etere, non poteva di certo stare a guardare senza colpo ferire. E infatti, nelle scorse settimane, lo stesso Potere, rappresentato nella fattispecie dal direttore generale della Rai, Mauro Masi, ha fatto di tutto, sempre stando alle parole di Saviano, affinché il benemerito programma non andasse in onda. Come? Ad esempio lasciando che si creasse un polverone mediatico con la pubblicazione su alcuni giornali - quelli dediti alla quotidiana produzione di fango, va da sé - dei costi della trasmissione (più di due milioni di euro per quattro puntate) e dei lauti compensi previsti per gli ospiti. Atti che l'autore di Gomorra ha definito - udite udite - come diffamatori, forse dimenticando che trattasi di denaro pubblico del cui utilizzo i cittadini hanno pieno diritto di venire a conoscenza. «Voi - ha detto Saviano rivolgendosi a Maurizio Belpietro - pubblicate i compensi cercando e sperando di innescare rabbia e invidia nelle persone che guadagnano 1.500 euro al mese, di cui noi raccontiamo le storie».


La verità non ha prezzo e dunque andare a fare i conti in tasca a chi tale verità racconta sarebbe l'ennesimo indice di quell'arretratezza culturale che caratterizza i sostenitori del centrodestra. I quali, invece che pensare alla grana, dovrebbero incollarsi in religioso silenzio di fronte allo schermo al momento della messa in onda di Vieni via con me. Ne usciranno certamente migliori di prima e più «consapevoli», perché - annuncia Saviano - «nel momento in cui rompi il giocattolo della macchina del fango, come vogliamo fare con la nostra trasmissione, a quel punto sta al cittadino, al lettore, all'ascoltatore capire come funzionano le cose». Rai3 vi farà liberi.

Gianteo Bordero

martedì 19 ottobre 2010

D'ALEMA, ICONA DELLA SINISTRA CHE HA DIVORZIATO DALLA REALTÀ

da Ragionpolitica.it del 19 ottobre 2010

Possibile che la sinistra non impari mai dai suoi errori? Possibile, anzi certificato dai fatti. L'ultimo esempio, in ordine di tempo, lo ha fornito lunedì sera a Otto e Mezzo Massimo D'Alema. Non un esponente qualsiasi della gauche nostrana, dunque, bensì colui che più di chiunque altro ne rappresenta oggi, in qualche modo, l'icona, avendo vissuto da protagonista la storia del passaggio dal Pci al Pds, poi ai Ds e infine al Pd, ed essendo diventato, nei modi che tutti conosciamo, il primo presidente del Consiglio proveniente dal Partito Comunista italiano.


Interrogato da Lilli Gruber a proposito della situazione politica del Paese, D'Alema ha ancora una volta fatto venire a galla, con le sue analisi che si pretendono argute e raffinate, il vero vizio capitale che caratterizza l'attuale sinistra. Un vizio che essa ha ereditato, senza alcun significativo mutamento di rotta, dal Pci: quel senso di superiorità culturale, politica e morale che l'ha condannata in passato, la condanna oggi e la condannerà in futuro, se le cose non cambieranno, a non saper entrare in connessione profonda con il popolo italiano, da essa ritenuto perennemente immaturo, bue, facile a lasciarsi incantare dalle sirene dell'uomo della provvidenza di turno. Ascoltare per credere. Ha affermato D'Alema: «Purtroppo un certo numero di italiani sembra disposto ad accettare l'anomalia» rappresentata da Berlusconi. Già, purtroppo - per l'illuminato leader Massimo e per i suoi colleghi di partito e di schieramento - tanti nostri connazionali, nel momento in cui sono chiamati a entrare in cabina elettorale per affidare a qualcuno le chiavi del governo del Paese, mettono la loro croce sul nome dell'impresentabile uomo di Arcore e non sui gloriosi simboli della gloriosa sinistra italiana.


Ora, se fossimo all'anno zero dell'avventura politica di Berlusconi, le affermazioni di D'Alema si potrebbero comprendere. Invece sono sedici anni - sedici - che la storia va avanti così, e che ad ogni vittoria del Cavaliere e ad ogni sua esperienza a Palazzo Chigi i suoi avversari non sanno fare altro che ripetere senza posa la solita teoria del popolo incapace di intendere e di volere, di distinguere tra il Bene (la sinistra) e il Male (la destra berlusconiana). Pensando di mettersi la coscienza a posto sol scaricando ogni colpa sui cittadini elettori, i post-comunisti hanno così evitato, ed evitano tuttora, di fare i conti con i propri errori, con la propria miopia politica, con la propria siderale distanza dal sentire della gente comune. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: antiberlusconismo monomaniacale, assenza di una seria e credibile proposta programmatica di governo, astrattismo assoluto riguardo alle soluzioni con cui affrontare i problemi del Paese.


Però - potrebbe obiettare qualcuno - è stato lo stesso D'Alema, sempre a Otto e Mezzo, ad annunciare che il nuovo numero della sua rivista, Italianieuropei, ha messo al centro il tema del lavoro e del conflitto sociale come punto di ripartenza della sinistra. Ecco, appunto: non si ascolta in presa diretta il popolo, i bisogni dei cittadini in carne ed ossa, dei povericristi che ogni mattina si spezzano la schiena in fabbrica per sbarcare il lunario e mandare avanti la famiglia; si pontifica invece dall'alto, ex cathedra, tra un convegno e l'altro, dalle patinate pagine di una rivista che tutt'al più finisce in mano agli intellettuali dei salotti buoni, alla gente che piace all'establishment culturale più o meno radical-chic. Non certo agli operai, alle manovalanze, a quello che un tempo era chiamato, non senza enfasi, il «popolo della sinistra». Un popolo a cui oggi dà invece risposte concrete, come ha documentato su La Stampa del 10 ottobre Luca Ricolfi, il governo di centrodestra, il governo del tanto odiato Silvio Berlusconi: «Cassa integrazione in deroga, estensione degli assegni di disoccupazione, social card, sussidi alle famiglie e ai non autosufficienti - ha scritto tra le altre cose Ricolfi - sono misure che hanno attenuato sensibilmente l'impatto della crisi, come mostra piuttosto inequivocabilmente la serie storica Isae delle famiglie in difficoltà, calate proprio nel momento più basso della congiuntura (fra la metà del 2008 e la metà del 2009)». D'Alema e i dotti analisti e politologi vicini alla sinistra possono ironizzare quanto vogliono sulla «politica del fare» di cui mena vanto il presidente del Consiglio, ma a dare ragione a Berlusconi sono, appunto, i fatti, come quelli riportati dall'editorialista del quotidiano torinese.


E se spostiamo la nostra attenzione sul prediletto di Baffino, Pier Luigi Bersani, le cose non cambiano. Ospite dieci giorni fa di Annozero, il segretario del Pd, dopo una lunga intervista a una cassaintegrata della Omsa che raccontava le sue tante difficoltà in questo periodo di crisi e chiedeva risposte ai politici presenti in studio, non ha saputo fare di meglio che spostare sùbito il discorso su Santoro e sul contenzioso col direttore generale della Rai. Altro che lavoro! Altro che disagio sociale! Meglio occuparsi delle grane del milionario conduttore tv. E poi si chiedono perché il Partito Democratico sia in crisi di consensi e gli italiani abbiano voltato le spalle alla sinistra: perché è la sinistra, e in particolare il Pd, ad aver voltato le spalle agli italiani.

Gianteo Bordero