venerdì 30 luglio 2010

ALTRO CHE "CACCIATO"... È FINI AD ESSERSI MESSO FUORI DAL PDL

da Ragionpolitica.it del 30 luglio 2010

Diciamolo chiaro: non è l'Ufficio di Presidenza del Popolo della Libertà ad aver «cacciato» Fini, ma è Fini che si è messo fuori dal Pdl da almeno un anno e mezzo a questa parte. E non si è messo fuori con il suo «dissenso», bensì con la sua certosina, quotidiana opera di opposizione e demolizione del programma politico che pure egli aveva sottoscritto alla vigilia delle elezioni del 2008. Un fatto ancor più grave se si tiene conto che il cosiddetto «cofondatore» ha portato avanti questa sua azione distruttrice dall'alto della presidenza della Camera, e quindi rivestendo un incarico istituzionale di primo piano. E se tutti coloro che a sinistra solitamente si riempiono la bocca di «rispetto delle istituzioni» e dei «sacri principi costituzionali» ora tacciono silenti, è soltanto perché Gianfranco Fini, con la sua azione, ha ridato fiato ad una minoranza parlamentare che definire debole è eufemistico. Ne ha ricevuto in cambio le lodi sperticate dell'intellighenzia gauchista a corto di eroi. Rimarrà memorabile, in tal senso, l'editoriale di Eugenio Scalfari all'indomani del primo Congresso nazionale del Pdl: «Meno male che c'è Fini».


Nessun partito serio, sulla faccia della terra, può accettare che un suo esponente di spicco, un giorno sì e l'altro pure, impegni tutte le sue energie per smontare pezzo dopo pezzo le idee, i programmi, i progetti di legge che di questo stesso partito costituiscono l'ossatura, la pietra d'angolo, le fondamenta. Dovrebbe essere lui stesso a rendersi conto che forse ha sbagliato casa politica e ad andarsene, senza bisogno che siano gli altri, esaurita ormai ogni immaginabile dose di pazienza, a ricordarglielo e a pregarlo di accomodarsi alla porta. Se Fini non lo ha fatto non è perché fosse incosciente di ciò, ma perché ha voluto deliberatamente operare - con le sue prese di posizione, con l'azione di logoramento condotta dai suoi seguaci e con la guerriglia interna portata innanzi dai vari Granata e Bocchino - per indebolire dall'interno il Popolo della Libertà, il governo e la leadership berlusconiana. Era un gioco al massacro che qualsiasi partito degno di tal nome avrebbe prima o poi interrotto. E anche il Pd, che oggi parla di epurazione e simili amenità, prima di aprire bocca ripensi al trattamento riservato non più di due anni or sono al senatore Riccardo Villari, peraltro «colpevole» soltanto di essere stato legittimamente eletto alla presidenza della Vigilanza Rai. La sinistra, in questo campo come in altri, non ha proprio titolo per dare lezioni ad alcuno.


La dura presa di posizione di Berlusconi e dell'Ufficio di Presidenza del Pdl rappresenta, al contrario di quanto vogliono far credere i finiani e la gauche al gran completo, un atto di chiarezza e di coraggio. Chiarezza perché contribuisce a porre fine al caos interno al Popolo della Libertà dovuto ai continui smarcamenti e prese di distanze da parte della componente che si riconosce nel presidente di Montecitorio, che si costituirà ora come gruppo autonomo alla Camera e al Senato. Coraggio perché da un punto di vista esclusivamente tattico e di quieto vivere sarebbe stato forse più comodo, per il presidente del Consiglio, proseguire con la politica del compromesso a tutti i costi con Fini e i suoi, come nel caso del ddl sulle intercettazioni. Ma è chiaro che ciò non avrebbe portato nulla di buono né per quanto concerne l'efficacia dell'azione di governo e la realizzazione del programma né per quel che riguarda il rafforzamento del partito di maggioranza relativa. Perciò, come ha affermato il vice presidente vicario dei senatori del Popolo della Libertà, Gaetano Quagliariello, anche in questa vicenda «Berlusconi ha dimostrato di essere un leader, perché ha scelto la strada più difficile: quella della chiarezza. L'alternativa sarebbe stata una lenta consunzione». Non ci sono più alibi. Fini, adesso, è chiamato ad assumersi per intero le sue responsabilità a viso aperto.

Gianteo Bordero

mercoledì 28 luglio 2010

ALLARME VENDOLA PER IL PD

da Ragionpolitica.it del 28 luglio 2010

E' allarme rosso nel Pd. In tutti i sensi. Non soltanto perché le ultime rilevazioni statistiche registrano un calo di consensi per il partito - e questa non è di per sé una novità - ma anche e soprattutto per le reazioni positive dell'elettorato democrat all'autocandidatura di Nichi Vendola a leader del centrosinistra per la corsa alle prossime elezioni politiche. Una nomination che il presidente della Regione Puglia ha lanciato in grande stile, nei giorni scorsi, proprio in nome del ritorno a una politica autenticamente «rossa», che egli vede ora del tutto assente nel Partito Democratico. Anche se, allo stato attuale delle cose, non è dato sapere con precisione quali siano concretamente le proposte di Vendola per ridare fiato alla suddetta politica «di sinistra», l'impatto che ha fatto registrare la sua iniziativa sull'elettorato gauchista non è da sottovalutare.


Lo mostra con chiarezza un sondaggio condotto da Ipr Markenting per La Repubblica su un campione di elettori del centrosinistra, dal quale emergono numeri che faranno preoccupare più di un dirigente del Pd. Alla domanda «se domani si dovesse votare alle primarie del centrosinistra per scegliere il candidato premier, lei chi voterebbe tra Pierluigi Bersani e Nichi Vendola?», hanno dichiarato di preferire il secondo al primo non soltanto i simpatizzanti dei partiti della cosiddetta «sinistra radicale» (64% a 36%) - da cui Vendola proviene - e dell'Italia dei Valori (56% a 44%), ma anche coloro che alle ultime elezioni hanno votato per il Pd: 52% a 48% per il presidente pugliese. Il segretario del Partito Democratico prevale soltanto tra gli elettori di centrosinistra indecisi: 59% a 41%. Un risultato ancor più netto viene fuori dalle risposte al successivo quesito del sondaggio: «Secondo lei, in caso di nuove elezioni, chi avrebbe più possibilità di battere Silvio Berlusconi?». Qui la forbice si allarga ulteriormente, e tra gli stessi supporter del Pd Vendola ha la meglio col 53% rispetto al 29% di Bersani (18% coloro che non hanno espresso un'opinione).


Sono dati allarmanti per i vertici del Partito Democratico. Soprattutto per la maggioranza interna che sostiene Bersani. La quale, nei giorni scorsi, dopo la «discesa in campo» di Nichi, aveva giudicato la cosa con troppa sufficienza e superficialità di giudizio, ripetendo ad ogni piè sospinto che lo statuto del Pd prevede che il candidato premier ha da essere lo stesso segretario del partito. In tal senso erano arrivate le dichiarazioni di più di un esponente della maggioranza - D'Alema in primis - e ancora martedì Matteo Orfini, membro della segreteria, dichiarava a Libero: «Quando ci saranno le primarie le faremo e batteremo Vendola». Evidentemente non la pensano allo stesso modo, almeno per ora, gli elettori interpellati da Ipr Marketing.


Non che Bersani riscuota un giudizio negativo riguardo alla sua azione politica - chi ha risposto al sondaggio di Repubblica lo giudica «competente e preparato», «affidabile», «onesto», un buon «mediatore», e la fiducia complessiva nei suoi confronti è al 77% tra gli elettori di centrosinistra, una percentuale più alta di quella fatta registrare dallo stesso Vendola. Il fatto preoccupante è che proprio sulla questione della leadership della coalizione, cioè una questione cruciale per i destini della gauche nostrana, il segretario del maggior partito della futura alleanza che affronterà il centrodestra venga ritenuto non adeguato - o comunque non abbastanza - alla sfida. E questo è un problema serio per il Pd. Perché lo obbliga a dover andare alla ricerca di figure alternative, forti e carismatiche, di cui oggi però non si vede traccia. Con una minoranza interna che evoca un «nuovo Prodi» e una maggioranza per ora costretta a difendere d'ufficio una candidatura a premier - quella di Bersani - in cui pochi sembrano effettivamente credere.


Gianteo Bordero

lunedì 26 luglio 2010

LA PRETESTUOSA ED IRRESPONSABILE GUERRIGLIA DEI FINIANI

da Ragionpolitica.it del 26 luglio 2010

Per il sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano parlano i fatti, cioè l'impegno costante del governo Berlusconi e del ministero guidato da Roberto Maroni nel contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata. Un impegno che ha prodotto risultati straordinari, mai prima d'ora ottenuti da nessun altro esecutivo nella storia della Repubblica. Le accuse mosse nei giorni scorsi dall'onorevole finiano Fabio Granata, dunque, sono prive di fondamento, sono letteralmente fuori dalla realtà.


L'impressione è che le truppe d'assalto che si ritrovano nelle posizioni del presidente della Camera cerchino quotidianamente un pretesto qualsiasi per condurre innanzi la loro battaglia di logoramento contro il governo che pure essi formalmente appoggiano, contro la leadership berlusconiana e contro gli ex An che in essa si riconoscono. Qui, come ha osservato il presidente dei deputati del Popolo della Libertà, Fabrizio Cicchitto, non siamo più nel campo del «legittimo dissenso» all'interno del Pdl, ma ci troviamo di fronte ad una strategia della «guerriglia» che ha come unico obiettivo quello di destabilizzare l'attuale quadro politico, creare il caos nel partito di maggioranza relativa e indebolire l'esecutivo votato dagli italiani alle elezioni dell'aprile 2008.


Questa strategia è un clamoroso regalo fatto a una sinistra per certi versi inesistente, in crisi di idee, di programmi e di progetti di governo, ma che gode immensamente nel trovare un appiglio insperato per attaccare la maggioranza, nel dare fiato, attraverso i suoi giornali e i tg amici, ad ogni parola che esce dalla bocca delle nuove reclute dell'esercito antiberlusconiano. E chissenefrega se questa è l'ennesima conferma dell'inconsistenza dell'opposizione parlamentare della gauche, di fatto costretta a glorificare qualche ex missino, fino all'altro ieri odiato e rappresentato come la peste bubbonica, per dimostrare di esserci ancora e di lottare contro il tiranno di Arcore... Tanto basta per invocare fantomatici governi di transizione, inedite coalizioni della legalità, improbabili maggioranze alternative. Con soli due punti all'ordine del giorno: cacciare Berlusconi e riscrivere una legge elettorale che, tolto il premio di maggioranza, riconsegni ai manovrieri di palazzo il pallino della politica italiana. Sono due obiettivi su cui oggi convergono sia i partiti del centrosinistra sia - almeno così pare - la pattuglia finiana.


Quello che si ripropone è dunque, in ultima analisi, lo scontro tra il rispetto della volontà popolare espressa in libere elezioni e il ritorno a un passato in cui i governi venivano fatti e disfatti in men che si dica nelle secrete stanze romane, magari da uomini con tanto «senso istituzionale» ma con pochi voti, abili a ottenere con accordi tra notabili ciò che essi non avrebbero potuto avere attraverso il voto degli italiani. Se essere «berlusconiani» significa credere che la volontà degli elettori conti ancora qualcosa e che la democrazia non la fanno gli illuminati, i benpensanti e i profeti del politicamente corretto - ovunque essi alberghino - bensì il voto del popolo, allora ben venga - anzi s'accresca - il «berlusconismo», ultimo baluardo contro insopportabili operazioni di palazzo che, oltre a riportare indietro le lancette dell'orologio, non fanno altro che allontanare l'uomo comune dalla politica, cioè dal governo della polis, con esiti che non potranno non essere nefasti per il paese.

Gianteo Bordero

mercoledì 21 luglio 2010

LEGGE SULLE INTERCETTAZIONI. CHI TRADISCE IL PROGRAMMA...

da Ragionpolitica.it del 21 luglio 2010

Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il Guardasigilli Angelino Alfano, seppur con modi e toni diversi, lo hanno detto chiaro: il testo del disegno di legge sulle intercettazioni uscito dalla Commissione Giustizia di Montecitorio, che passa ora alla discussione e alla votazione in aula, non corrisponde a quanto previsto dal programma presentato dal Popolo della Libertà alla vigilia delle elezioni politiche del 2008: «Limitazione dell'uso delle intercettazioni telefoniche e ambientali al contrasto dei reati più gravi; divieto della diffusione e della pubblicazione delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, con pesanti sanzioni a carico di tutti coloro che concorrono alla diffusione e pubblicazione».


La cosiddetta «ala finiana» all'interno del Pdl ha condotto infatti, in questi mesi, un continuo ed estenuante gioco al ribasso, edulcorando e svuotando, giorno dopo giorno, un provvedimento a cui gli italiani, con il loro voto, avevano dato ampio e maggioritario sostegno. Si trattava di porre un significativo argine a un malcostume che ormai da molti anni ammorba la vita democratica del paese, con sistematiche violazioni del segreto istruttorio e conseguente messa alla gogna e sputtanamento della vita privata di persone colpevoli unicamente di aver parlato al telefono con soggetti sottoposti ad indagine da parte della magistratura. E invece, in nome di un conclamato legalitarismo ideologico - derivazione diretta del giustizialismo che ancora alberga in certi settori della destra italiana - e, soprattutto, in nome di una battaglia di logoramento politico contro il presidente del Consiglio, i finiani hanno fatto di tutto per giungere ad un compromesso al ribasso - l'unico possibile nelle attuali circostanze politiche, ha spiegato il ministro Alfano - che vanifica de facto le buone e sacrosante intenzioni espresse dal programma del 2008.


Il presidente della Camera ha salutato le modifiche al testo approvate martedì come una vittoria del parlamento e come una garanzia di rispetto del dettato costituzionale. Il primo punto mostra come Fini abbia ormai abbandonato il suo cavallo di battaglia presidenzialista per sposare una visione del parlamentarismo che molto assomiglia a quell'assemblearismo che ha prodotto soltanto ingovernabilità ovunque esso abbia avuto corso - nella prima Repubblica italiana e nella quarta Repubblica francese, ad esempio. Per quanto riguarda il secondo punto, resta da capire come potrà essere veramente rispettato, dopo l'emendamento voluto dai seguaci della terza carica dello Stato, l'articolo della Carta costituzionale che definisce come «inviolabili» la «libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione».


Ma l'aspetto più grave in tutta questa vicenda è quello, cui già abbiamo accennato, del tradimento delle promesse elettorali che è stato consumato da chi, grazie a quello stesso programma e grazie alla vittoria del 2008 su di esso fondata, ha potuto non soltanto essere eletto, ma anche accedere a importanti cariche istituzionali che molto probabilmente non avrebbe mai potuto occupare con le proprie sole forze. Tutto ciò contrasta con uno dei capisaldi che sin dal 1994 è stato alla base della grande avventura politica di Silvio Berlusconi e del suo successo: il rispetto degli impegni assunti con gli elettori («Pacta sunt servanda»), fondamento di quella «nuova moralità della politica» che ha permesso al nostro paese di uscire - almeno in parte - dalle secche dell'assemblearismo, del consociativismo e dei conseguenti giochi di palazzo portati avanti da questa o quella corrente, e di evolvere materialmente verso un parlamentarismo moderno e maturo, in cui le Camere non sono «terze» rispetto al governo, ma hanno come compito primario quello di esprimere una maggioranza chiamata a sostenere l'attività e le iniziative legislative dell'esecutivo. Se c'è una cosa di cui oggi c'è bisogno, come ha ricordato più volte il presidente del Consiglio, è una consacrazione anche formale della nuova Costituzione materiale nata con la seconda Repubblica, di certo non il ritorno a vecchie liturgie che creano soltanto confusione, instabilità di sistema e disaffezione dei cittadini nei confronti della politica.


Gianteo Bordero

giovedì 15 luglio 2010

D'ALEMA. QUANDO IL PALAZZO SOSTITUISCE GLI ELETTORI

da Ragionpolitica.it del 15 luglio 2010

A Massimo D'Alema, intervistato da Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera, sfugge un concetto basilare che sta a fondamento delle moderne democrazie: i governi non li fanno i «migliori», gli «illuminati», i «filosofi della politica», gli «intellettuali» più o meno organici (alla sinistra), bensì nascono dalla volontà del popolo espressa mediante libere elezioni. All'ex segretario diessino questo evidentemente non piace: basti pensare al modo in cui entrò a Palazzo Chigi nel 1998 dopo aver mandato gambe all'aria il governo Prodi scelto dagli elettori due anni prima: fuori Bertinotti e dentro qualche transfuga del centrodestra allora all'opposizione... e il gioco è fatto. Oggi, a dodici anni di distanza, Baffino è ancora lì a discettare della necessità di dare al paese un altro esecutivo sempre attraverso gli stessi metodi d'allora: non il voto degli italiani, non il rispetto della volontà popolare, che D'Alema mostra di non tenere in grande considerazione, bensì le manovre di Palazzo, le alchimie tra partiti, le formule da piccolo chimico della politologia.


E allora via con la «fase nuova», le «larghe intese», l'«appello alla responsabilità». Tutto questo per dire cosa? Per ottenere cosa, alla fine dei conti? Un ritorno al governo del partito postcomunista senza passare per la strada maestra delle elezioni, che in questo momento - come peraltro accade da un po' di anni a questa parte - punirebbero in maniera severa una sinistra senza arte né parte, priva di un leader autorevole, di un programma chiaro, di un progetto potenzialmente vincente. E' il solito vizietto degli eredi del Pci, a cui la democrazia sta bene fino a quando premia loro, ma che diventa insopportabile ingiustizia quando manda al governo l'altra parte, di solito definita «nemica del popolo» - e non si capisce bene perché, se è lo stesso popolo ad averla votata. Del resto, i figli di Berlinguer sono così: talmente convinti della loro superiorità politica, morale, antropologica e culturale da ritenersi loro i veri interpreti, i maieuti della volontà di un popolo bue, immaturo, e che, se lasciato a se stesso, produce solo disastri su disastri.


D'Alema ci informa poi per l'ennesima volta - ormai abbiamo perso il conto - che «la lunga fase della parabola berlusconiana è finita». Sono dieci anni che sentiamo gli esponenti della sinistra ripetere che Berlusconi è in declino, è sul viale del tramonto, è a fine corsa, non ha più benzina nel motore, ha fallito e gli italiani gli hanno voltato le spalle e via strologando... La storia dimostra la lungimiranza di certi illuminati giudizi che i dirigenti della gauche nostrana e i maître à penser dell'antiberlusconismo militante hanno propalato per due lustri dipingendo ogni giorno come se fosse l'ultimo dell'esperienza politica del Cavaliere. E' proprio questa lontananza, questo distacco dalla realtà ad aver condotto la sinistra a quella marginalità politica che oggi è sotto gli occhi di tutti e che spinge D'Alema a ipotizzare strane soluzioni per ottenere coi metodi della vecchia politica politicante ciò che il suo partito non potrebbe avere passando attraverso le urne.


E che cosa dovrebbe fare questo fantomatico governo di larghe intese, ovviamente non più guidato dall'impresentabile Berlusconi? Al primo posto, e non a caso, Baffino mette la riforma della legge elettorale. Perché l'attuale, a suo dire, «produce un bipolarismo fondato su una personalizzazione distorta della politica». Basta, dunque, con il bipolarismo muscolare, meglio tornare al vecchio sogno dalemiano del modello tedesco, rimettendo al centro i partiti al posto delle leadership, le nomenklature al posto del rapporto diretto tra leader e popolo, infine gli apparati al posto degli elettori. Solo così, infatti, D'Alema e altre figure di spicco - diciamo così - del panorama politico nazionale potrebbero aspirare a guidare governi frutto sì di maggioranze parlamentari, ma figli sciagurati della sommatoria di minoranze elettorali.


Gianteo Bordero

lunedì 12 luglio 2010

LE CORRENTI NUOCCIONO ALLA SALUTE

da Ragionpolitica.it del 12 luglio 2010

Le correnti d'aria provocano torcicollo e mal di schiena. Nuocciono alla salute. Fuor di metafora, in un partito politico esse causano ripiegamento su se stessi e autoreferenzialità. Tanto più se si ha a che fare con un movimento nato e cresciuto attorno ad una leadership carismatica legittimata in maniera chiara dall'elettorato. Corrente significa parzialità, lotta a suon di tessere contro l'avversario interno, gruppo di potere più o meno ristretto. Mentre il movimento berlusconiano, come ha ricordato su queste pagine il coordinatore nazionale del Pdl e ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, è sorto dalla volontà di «rappresentare non una parte soltanto, un partito appunto, bensì di contribuire agli interessi generali dell'Italia. Fin dal primo istante della sua discesa in campo, tutte le parole e tutti gli atti di Berlusconi sono sempre stati improntati ad un'idea di cambiamento e di modernizzazione che corrispondevano e corrispondono ai veri interessi nazionali».


E' da qui che occorre ripartire se si vuole evitare che il dibattito interno al Popolo della Libertà si trasformi in un ritorno ai tempi peggiori della Prima Repubblica, quando proprio il trionfo del correntismo fu all'origine della consunzione del grande partito - la Democrazia Cristiana - che aveva retto per decenni le sorti dello Stato e che nei suoi ultimi lustri di vita fu corroso dalla lotta intestina tra gli «amici» di questo e gli «amici» di quello, tra i sostenitori di Tizio e i sostenitori di Caio... Tutti intenti a condurre innanzi una battaglia senza quartiere non contro il partito alternativo al blocco moderato e occidentale, bensì contro gruppi ed esponenti della stessa Dc. Sappiamo che cosa ha prodotto e a che cosa ha portato quella stagione della nostra vita repubblicana, e non vi è alcun ragionevole motivo per volgere lo sguardo indietro e riportare in auge pratiche deleterie per la credibilità della politica e per lo stesso sistema-paese.


Invece che di correnti, in questa torrida estate italiana c'è bisogno di aria fresca, quella che dà sollievo e respiro, quella che fa bene al corpo e allo spirito, che consente di osservare le cose sotto la giusta prospettiva. Quella che fa diradare l'afa e può far ritrovare le ragioni più profonde del proprio agire. Per il Popolo della Libertà, questo significa riscoprire ciò che gli ha permesso di diventare il primo partito italiano, di vincere dal 2008 ad oggi tutte le competizioni elettorali che si è trovato ad affrontare, di essere il perno della maggioranza che sostiene un governo il quale ha saputo dar prova di intelligenza, efficienza e credibilità in campo nazionale ed internazionale. Il fattore decisivo, in questo senso, è e rimane la leadership berlusconiana, senza la quale niente di tutto ciò sarebbe stato possibile e neppure lontanamente immaginabile.


Proprio perché, come ha ricordato Bondi, l'avventura politica di Silvio Berlusconi ha avuto inizio non per dare vita ad un partito in senso classico, ma per offrire rappresentanza alle istanze di cambiamento e di modernizzazione che giungevano a gran voce dal paese nel suo complesso, e quindi per unire sotto un unico tetto tutti coloro che non volevano un futuro illiberale e declinante per l'Italia, mettere in piedi correnti e correntine - magari mascherate da associazioni o fondazioni - per portare innanzi il proprio «particulare» e garantirsi una rendita di posizione significa per ciò stesso contraddire lo spirito vitale di quello che impropriamente è stato chiamato «berlusconismo»: la volontà di rompere con la vecchia politica politicante, con le stantie liturgie di partito, e di concentrarsi invece sugli interessi generali del paese, da promuovere e difendere attraverso l'attività di governo e attraverso un movimento di persone libere che attorno a tale progetto costruisse una rete inclusiva sempre più ampia. Non correnti esclusive l'un contro l'altra armate.

Gianteo Bordero

giovedì 8 luglio 2010

SOGNARE IL TERZO POLO E SVEGLIARSI SUDATI

da Ragionpolitica.it dell'8 luglio 2010

Il mitico e mitizzato «Terzo Polo», di cui oggi si torna ancora una volta a parlare, è il sogno perpetuo di tutti quei politici che, con la testa e con il cuore, sono rimasti fermi alla Prima Repubblica. Cioè a quando i governi e i presidenti del Consiglio non li sceglievano i cittadini col voto, bensì le segreterie di partito. Le quali, dopo ogni tornata elettorale, si sedevano a tavolino e, come piccoli alchimisti, cercavano la formula giusta e i numeri necessari per mettere in piedi un esecutivo.


Quel tempo - piaccia o no - è finito sedici anni fa, nel 1994, quando un imprenditore brianzolo di nome Silvio Berlusconi decise, dopo lo tsunami di Mani Pulite e di fronte alla prospettiva di un'inquietante ascesa al potere della «gioiosa macchina da guerra» organizzata dal partito post-comunista, di gettarsi nella mischia e di creare un «Polo» alternativo a quello della sinistra uscita miracolosamente indenne dalle inchieste giudiziarie. Da lì, anche grazie al sistema elettorale maggioritario che si era affermato nei referendum Segni del 1993, prese finalmente forma anche nel nostro paese il bipolarismo tipico delle democrazie più evolute, in cui si fronteggiano due schieramenti distinti e distanti per idee, obbiettivi, cultura politica. Tali schieramenti si presentano agli elettori chiedendo la fiducia sulla base di un programma di governo ben definito, e per così dire «incarnato» dalla figura del leader della coalizione. Non più, dunque, estenuanti liturgie di palazzo e bizantinismi di vario genere per decidere consociativamente, nelle segrete stanze di partito, a chi affidare la guida del paese, bensì la scelta diretta, da parte dei cittadini, di uno schieramento, di un leader, di un programma e, in sostanza, dello stesso governo.


Ma - osservano oggi i terzopolisti di ogni ordine e grado - negli scorsi tre lustri le due coalizioni si sono spesso dimostrate politicamente fragili, litigiose e non in grado di reggere la prova di un'intera legislatura (solo la Casa delle Libertà ci è riuscita negli anni 2001-2006). Ergo - ne deducono - bisogna buttare via il bambino assieme all'acqua sporca, cioè mettere sotto accusa il bipolarismo in quanto tale, il sistema dell'alternanza tra centrodestra e centrosinistra, scrivere una nuova legge elettorale che con qualche astruso meccanismo permetta al «Terzo Polo» antibipolare di prendere più potere con meno voti, di insediarsi a palazzo sol in nome di un superiore senso di «responsabilità nazionale». Come se i cittadini fossero incapaci di intendere e di volere e occorresse un partito di illuminati per raddrizzare le loro scelte sbagliate e testardamente fossilizzate sulla scelta tra destra e sinistra. Popolo bue.


Quello che i fautori del Terzo Polo non comprendono è che i difetti di quella che è stata chiamata «Seconda Repubblica» non sono imputabili al bipolarismo in sé considerato, ma sono dovuti semmai alle iniezioni del vecchio sistema nel nuovo. A partire, ad esempio, dalla sciagurata scelta del «Mattarellum», che si fece beffe del referendum Segni introducendo una quota di proporzionale nel nuovo metodo di voto e aprì la strada a una frammentazione che oggi è stata superata solo grazie all'evoluzione in senso ancor più bipolare delle due coalizioni (2008).


Insomma, come in ogni processo politico di grande portata bisogna dare tempo al tempo, lasciare che le cose maturino, operando per correggere le criticità che man mano emergono. Senza catastrofismi, senza invocare a ogni piè sospinto il ritorno al passato, senza evocare un giorno sì e l'altro pure il motto «si stava meglio quando si stava peggio». La qual cosa può essere vera per certi terzopolisti ora finiti ai margini del panorama politico, ma di sicuro non per la stragrande maggioranza degli elettori, che di giochi e giochetti di palazzo non ne può davvero più.


Gianteo Bordero

mercoledì 7 luglio 2010

OCCIDENTE, TERRA DI MISSIONE

da Ragionpolitica.it del 7 luglio 2010

Nei giorni scorsi Benedetto XVI ha istituito il Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione dell'Occidente, e vi ha posto a capo monsignor Rino Fisichella, già presidente della Pontificia Accademia per la vita e rettore dell'università Lateranense. L'annuncio è stato dato dal Papa il 28 giugno nel corso dei primi vespri della solennità dei santi Pietro e Paolo: «Vi sono regioni del mondo - ha spiegato - in cui il Vangelo ha messo da lungo tempo radici, dando luogo ad una vera tradizione cristiana, ma dove negli ultimi secoli, con dinamiche complesse, il processo di secolarizzazione ha prodotto una grave crisi del senso della fede cristiana e dell'appartenenza alla Chiesa. In questa prospettiva - ha proseguito - ho deciso di creare un nuovo organismo, nella forma di Pontificio Consiglio, con il compito precipuo di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e sono presenti Chiese di antica fondazione, ma che stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della società e una sorta di "eclissi del senso di Dio", che costituiscono una sfida a trovare mezzi adeguati per riproporre la perenne verità del Vangelo di Cristo».


Una decisione importante, quella di Benedetto XVI, in linea con la sua decennale riflessione a proposito dell'Europa e dell'Occidente. Luoghi che sono tornati ad essere terra di missione, in cui l'incisività della presenza cristiana non può più darsi per scontata come un tempo. Quando il Papa parla di «progressiva secolarizzazione» e di «eclissi del senso di Dio» tornano alla mente le espressioni con le quali il cardinale Ratzinger aveva descritto, nella messa pro eligendo pontifice che aprì il conclave del 2005, la situazione della Chiesa nel mondo attuale, soprattutto in quei contesti nei quali il cristianesimo è radicato da quasi due millenni: qui la «barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata» dalle onde delle correnti ideologiche, e oggi proprio il «lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina appare come l'unico atteggiamento all'altezza dei tempi odierni». E' il dramma della «dittatura del relativismo, che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».


Occorre però capire che cosa significhi e in che cosa consista questa «nuova evangelizzazione». Innanzitutto non si tratta di proporre nuovi contenuti, ma di testimoniare nuovamente la fede cristiana trasmessa dalla tradizione nei luoghi in cui ci si trova a vivere, nell'ordinarietà della vita quotidiana: un piccolo ma grande eroismo feriale che diventi segno visibile e tangibile della presenza reale di Dio nel mondo, proprio in quei contesti che più sembrano lontani dall'adesione all'annuncio cristiano. Mostrare che la fede fa vivere e riempie di significato ogni meandro dell'esistere proprio laddove la mancanza di un senso totale della vita viene data per scontata, quasi un non detto che però finisce per diventare il criterio orientativo di ogni gesto, di ogni parola, di ogni scelta. E' qui, dove una sorta di tacito nichilismo di massa sembra esser divenuto la concreta professione di fede di tanti, che il cristiano, con la sua testimonianza, col suo stesso essere prima ancora che con il suo dire, può farsi sale della terra e lievito per una nuova fioritura di umanità. Perché il cristiano, prima ancora che una dottrina, porta con sé le tracce dell'incontro col Dio fattosi uomo, che agisce laddove ogni teoria umana non può arrivare: negli abissi dell'anima, nei silenziosi drammi interiori che solo Lui vede e conosce, che solo Lui può redimere.


In secondo luogo, il Pontificio Consiglio non vuole essere in quanto tale la risposta alla secolarizzazione e alla scristianizzazione. Esso è semmai uno strumento, un aiuto affinché siano chiari i termini del problema e possano così esser date indicazioni che ogni comunità e ogni singolo credente potranno poi fare propri. La risposta, dunque, non è la struttura in sé, ma è e resta la fede della Chiesa. Su questo punto il cardinale Ratzinger era stato chiaro nel suo libro-intervista con Vittorio Messori, Rapporto sulla fede. Parlando del «nostro darci da fare zelante per erigere nuove, sofisticate strutture», aveva detto: «Riforma vera non significa tanto arrabattarci per erigere nuove facciate, ma darci da fare per far sparire nella maggiore misura possibile ciò che è nostro, così che meglio appaia ciò che è Suo, del Cristo. È una verità che ben conobbero i santi: i quali, infatti, riformarono in profondo la Chiesa non predisponendo piani per nuove strutture ma riformando se stessi. L'ho già detto, ma non lo si ripeterà mai abbastanza: è di santità, non di management che ha bisogno la Chiesa per rispondere ai bisogni dell'uomo».


Gianteo Bordero