sabato 27 giugno 2009

SE L'ANTIBERLUSCONISMO DIVENTA RELIGIONE...

da Ragionpolitica.it del 27 giugno 2009

Esiste una religione dell'antiberlusconismo? Un qualche cosa che va oltre l'ideologia e sconfina nel terreno della metafisica? Una fede, cioè, che trasforma l'uomo concreto Silvio Berlusconi nell'incarnazione di un principio trascendente, ancorché negativo? Esiste, eccome. E non bisogna pensare che abiti soltanto nelle redazioni di Micromega, di Repubblica, di Annozero. E' vivo e vegeto anche in molti ambienti cattolici. E non da oggi. E' emerso certamente, in modo chiaro, nel momento dalla «discesa in campo» del Cavaliere, ma già covava anche in anni precedenti, quando il proprietario della televisione commerciale era considerato, da una certa vulgata interna al mondo cattolico, come il Grande Corruttore dei costumi e della morale tradizionale, come il Tentatore che, attraverso l'esibizione di ciò che fino ad allora non poteva essere visto in tv, faceva a pezzi il cosiddetto «comune senso del pudore». Questa visione delle cose presupponeva che esistesse un Eden incontaminato (l'Italia) popolato da tanti Adamo ed Eva senza peccato (gli italiani), divenuto improvvisamente terreno di caccia per il Serpente (nel caso in questione, sarebbe meglio dire il Biscione).

Le cose, come tutti sanno, non stavano così, perché già da tempo questo presunto Paradiso Terrestre non era più immacolato e la stragrande maggioranza dei suoi abitanti aveva abbracciato - chi più chi meno - la «rivoluzione dei costumi», o quanto meno la loro «liberalizzazione», aveva votato per il divorzio e poi per l'aborto, per non parlare del controllo delle nascite per via contraccettiva, divenuto pratica comune già decenni addietro, per di più tra molti degli stessi credenti che avrebbero poi imputato a Berlusconi il degrado della morale individuale (come non ricordare, a tal proposito, le contestazioni che dovette subire sul finire degli anni Sessanta, persino da vescovi e teologi, il Papa Paolo VI quando condannò, nella sua enciclica Humanae Vitae, l'uso del preservativo...). Quindi, la raffigurazione del fondatore di Mediaset come nuovo Satana e della tv commerciale come nuova forma del Frutto Proibito è semplicemente un falso storico.

Eppure la rappresentazione di Berlusconi come il Male (inteso quale principio metafisico) ha proseguito il suo cammino e si è arricchita di nuovi «spunti» nel corso degli ultimi 15 anni. E se è vero che, nel corso di questi tre lustri, buona parte dei cattolici si è smarcata da questo antiberlusconismo religioso e ha iniziato a giudicare il fondatore di Forza Italia per le sue realizzazioni politiche e per le idee che ha promosso nel dibattito pubblico, è altrettanto vero che lo zoccolo duro ha resistito, continuando la sua propaganda in molte parrocchie, in molti gruppi, in molti circoli intellettuali convinti in questo modo di rendere un servigio alla verità.

La persistenza di questa dimensione religiosa di certo antiberlusconismo emerge con chiarezza oggi, nel momento in cui nel mirino dei mezzi di informazione e dei partiti politici da sempre schierati contro il Cavaliere è entrata la sua vita privata, in un rincorrersi di chiacchiere, pettegolezzi, insinuazioni volte a screditare non soltanto l'immagine pubblica del presidente del Consiglio, ma la dignità e la dirittura morale dell'uomo Berlusconi in quanto tale. Per i seguaci dell'antiberlusconismo come religione tutto questo è come il miele per gli orsi. Lo si vede nel recente articolo del direttore di Famiglia Cristiana, don Antonio Sciortino, di cui abbiamo parlato nel precedente numero di Ragionpolitica. Lo si vede in alcuni forum di discussione cattolici. Lo si vede nell'editoriale del teologo Vito Mancuso pubblicato giovedì da La Repubblica. Lo si vede nella lettera aperta che il noto sacerdote genovese Paolo Farinella ha inviato all'arcivescovo del capoluogo ligure e presidente della Conferenza Episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, qualche giorno fa. Tutti questi documenti sono accomunati non soltanto dalla condanna morale del capo del governo e dalla volontà di «scomunicarlo» in quanto portatore di un Male radicale, ma anche da un'aperta critica alle gerarchie cattoliche, accusate di anteporre gli interessi politici a quelli spirituali, di non avere il coraggio di intervenire con una parola chiara di fronte al pubblico trionfo del peccato, di lasciarsi «comprare» con i trenta denari rappresentati dalle promesse berlusconiane di leggi favorevoli alla Chiesa. In sostanza, saremmo di fronte ad una complicità di fatto tra i vertici ecclesiali e il presidente del Consiglio, una sorta di patto silente in cui ciascuno riesce a soddisfare i propri interessi, costi quel che costi. Anche la Chiesa, dunque, come Berlusconi, viene messa sul banco degli imputati in nome di una purezza religiosa violata e di un candore morale tradito.

Ma due dati devono far riflettere: innanzitutto che i «puri» (catari) che si ergono a difensori unici della vera religione sono stati in grado soltanto, nel corso della storia della Chiesa, di fare letteralmente carta straccia dell'insegnamento spirituale di Cristo, proponendo un dualismo assoluto tra carne e spirito che contraddice il fondamento stesso del cristianesimo: l'incarnazione di Dio, il suo farsi uomo in carne ed ossa, secondo l'espressione di San Giovanni apostolo («Verbum caro factum est»). In secondo luogo, è curioso che quelli che oggi si propongono come paladini della morale cattolica siano gli stessi che abbiano preso ripetutamente le distanze dalla Chiesa per le sue battaglie in difesa di uno dei principi-cardine della morale medesima, ossia la dignità e la sacralità della vita umana (battaglie come quella riguardante la fecondazione assistita e, più di recente, quella per salvare la vita a Eluana Englaro). Mancuso, tanto per fare un esempio, solo qualche tempo fa invocava in queste materie il principio di «relatività», perché «fra cento anni i principi bioetici affermati oggi con granitica sicurezza dalla Chiesa... finiranno per essere rivisti come lo sono stati i principi della morale sociale». E don Farinella, il giorno della morte per fame e per sete di Eluana, scriveva: «Gli urlatori in difesa della vita costi quel che costi... vogliono imporre Dio anche a chi ha scelto di non credere». Tutto ciò vorrà pur dire qualcosa?


Gianteo Bordero

venerdì 26 giugno 2009

POLO OSPEDALIERO DI SESTRI LEVANTE. IL CENTRODESTRA PENSA AI CITTADINI, IL PD ALLE PROSSIME ELEZIONI

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE
GRUPPO CONSILIARE
“IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – LEGA NORD – UDC”

COMUNICATO STAMPA DEL 26 GIUGNO 2009

Strumentalizzare e deformare le posizioni degli avversari politici è un marchio di fabbrica del partito a cui appartiene il sindaco Lavarello e che ancora conta 10 rappresentanti in Consiglio Comunale. Per questo non ci stupiamo delle affermazioni comparse su alcuni organi di informazione il 25 giugno, con le quali il gruppo consiliare del Partito Democratico ci accusa, in merito al nostro voto sulla mozione dal titolo “Riorganizzazione della Asl 4”, di “difendere una posizione politica di parte e non l’interesse concreto di tutti”.

La verità è un’altra. Ed è tutta nelle parole pronunciate dal sindaco stesso nel corso della discussione della mozione in oggetto, avvenuta martedì sera in Consiglio Comunale. Ad un certo punto del suo intervento, Lavarello ha affermato candidamente che “siamo già entrati nella campagna elettorale per le regionali del prossimo anno”. E’ sotto questa luce, dunque, che va letto il testo dell’ordine del giorno approvato dalla maggioranza: un ordine del giorno “elettorale” che attacca le Amministrazioni comunali del Golfo Paradiso e del Tigullio Occidentale sulla questione del Pronto Soccorso a Rapallo senza fare un minimo cenno critico nei confronti del vero detentore delle politiche sanitarie: la Regione Liguria, la cui Giunta redige il Piano Sanitario dal quale dipendono l’organizzazione e la dislocazione delle strutture sanitarie sul territorio. I motivi di tale mancato riferimento nella mozione discussa in Consiglio Comunale sono presto detti: il partito che è alla guida della Regione è lo stesso che guida il Comune di Sestri Levante.

Nel corso della discussione abbiamo fatto presente al sindaco e ai consiglieri del Partito Democratico che a questo inizio anticipato di campagna elettorale il nostro gruppo non intendeva partecipare. Avremmo infatti preferito che l’attenzione del Consiglio Comunale si concentrasse esclusivamente sul polo ospedaliero di Sestri Levante, per dire una parola chiara contro la prospettiva di un suo ridimensionamento. Sarebbe stato questo il modo migliore per difendere l’interessere concreto dei sestresi e il loro fondamentale diritto alla salute. Purtroppo così non è stato e per questo il nostro voto all’ordine del giorno presentato dalla maggioranza, che pure conteneva qualche spunto condivisibile, è stato di astensione. Un’astensione convinta e responsabile, a fronte di un Pd dalla memoria corta e con lo sguardo concentrato unicamente sulle prossime scadenze elettorali.

Gianteo Bordero (capogruppo)
Giuseppe Ianni
Marco Conti
Giancarlo Stagnaro

giovedì 25 giugno 2009

DA QUAL PULPITO...

da Ragionpolitica.it del 25 giugno 2009

Non si limita più a criticare i provvedimenti messi in campo dal governo Berlusconi, da quelli sull'immigrazione alle politiche sociali; non si accontenta più di annunciare ai quattro venti che quello del Cavaliere è il nuovo volto del fascismo nel nostro paese. Famiglia Cristiana compie ora un altro passo in avanti nella sua battaglia antiberlusconiana e arriva alla scomunica tout court del presidente del Consiglio. I motivi? I «comportamenti "gaudenti e libertini"» del premier, con i quali egli ha superato «il limite della decenza». A scrivere la sentenza di condanna del capo del governo è il direttore in prima persona, don Antonio Sciortino, che nel nuovo numero del settimanale, rispondendo ai lettori nella rubrica «Colloqui con il padre», tira in ballo direttamente il giudizio di Dio per far ricadere su Berlusconi il marchio dell'infamia morale. «Non basta le legittimazione del voto popolare o la pretesa del "buon governo" per giustificare qualsiasi comportamento, perché con Dio non è possibile stabilire un "lodo", tanto meno chiedergli l'"immunità morale"». Insomma, se Berlusconi può pensare di cavarsela nelle cose terrene con i provvedimenti ad personam adottati dal governo che egli stesso presiede - sembra voler dire don Sciortino - così non può essere nelle cose dell'anima, dove esiste un giudice severo e implacabile, che non ragiona secondo la logica del «lodo» (Alfano) e dell'«immunità».

A parte il fatto che Famiglia Cristiana sembra scambiare per oro colato il fango gettato addosso al presidente del Consiglio in queste ultime settimane con una campagna mediatico-gossippara senza precedenti, è curioso che una rivista che da sempre si è distinta, nel panorama della pubblicistica cattolica, per le sue posizioni morbide, concilianti, perdoniste e progressiste in campo di dottrina morale - che gli sono valse, in passato, più di una critica ufficiale da parte dei più alti livelli delle gerarchie vaticane - si erga ora a paladina del rigorismo etico e lo faccia - essa sì - ad personam, cioè nei confronti di una sola persona. La memoria torna al 1997, quando, con un'iniziativa clamorosa, il Papa Giovanni Paolo II decise, l'11 febbraio, di «commissariare» il settimanale e la stessa Congregazione Paolina, e di inviare un legato pontificio (monsignor Antonio Buoncristiani) dopo che Famiglia Cristiana aveva ripetutamente assunto posizioni in netta divergenza dalla dottrina cattolica sia nel campo teologico che in quello morale (quanto a quest'ultimo aspetto, fecero molto discutere le dichiarazioni dell'allora direttore, don Leonardo Zega, su masturbazione, droga, omosessualità).

Potremmo dire, dunque: da qual pulpito vien la predica, visto che Famiglia Cristiana non sembra propriamente l'organo di stampa più titolato a dare lezioni di morale cattolica ad alcuno. Ma il problema non è solo questo. Perché il settimanale paolino, oltre ad emettere indebite sentenze di scomunica morale e a spalancare le porte dell'inferno per Berlusconi, pretende pure di rappresentare con i suoi articoli tutti i credenti italiani e di dare lezioni alla stessa Chiesa. Secondo don Sciortino, essa «non può abdicare alla sua missione e ignorare l'emergenza morale nella vita pubblica del paese». E i cristiani «sono frastornati e amareggiati da questo clima di decadimento morale dell'Italia, attendono dalla Chiesa una valutazione meno "disincantata". Non si può far finta che non stia succedendo nulla, o ignorare il disagio di fasce sempre più ampie della popolazione, e dei cristiani in particolare». Quindi - è il presuntuoso ragionamento del direttore - visto che tutti i cattolici italiani sono nauseati dall'attuale situazione e si ribellano all'immoralità libertina del presidente del Consiglio, la Santa Sede dovrebbe imbracciare anch'essa le armi e scendere il battaglia contro Berlusconi, dicendo una parola chiara e non lasciandosi lusingare dalle promesse di «leggi favorevoli alla Chiesa» che, scrive ancora don Sciortino, sarebbero il «classico "piatto di lenticchie", da respingere al mittente». Da condannare, dunque, secondo Famiglia Cristiana non è soltanto il comportamento del premier, ma anche quello della Chiesa, che con i suoi silenzi rischia di non fare nulla per arginare il «decadimento morale» del paese.

Con ciò prendiamo atto che il settimanale dei Paolini ha definitivamente abdicato a quella fedeltà alla verità che dovrebbe contraddistinguere, in particolare, una rivista cattolica, e constatiamo che ormai il suo nuovo vangelo è costituito da ogni parola che esce dalla bocca di Repubblica e del Corriere della Sera. Due giornali, com'è noto, filo-cattolici e paladini della dottrina morale della Chiesa. Congratulazioni!

Gianteo Bordero

martedì 23 giugno 2009

SUCCESSO NETTO

da Ragionpolitica.it del 23 giugno 2009

Dopo i ballottaggi di domenica e lunedì è possibile tracciare un bilancio di questa tornata di elezioni amministrative, che hanno visto andare al voto 62 Province e 4.200 Comuni. Per quanto riguarda le prime, 3 erano di nuova costituzione, 9 erano governate dal centrodestra e 50 dal centrosinistra; ora il quadro si presenta così: 34 Province saranno amministrate dal centrodestra (che ha confermato tutte quelle in cui già era maggioranza, ne ha conquistato 2 di nuova costituzione e ne ha strappate 23 agli avversari - 15 al primo turno e 8 al secondo), e 28 dal centrosinistra (che ne perde quindi quasi la metà). Per quanto concerne invece i Comuni, analizzando in particolare quelli capoluogo, su 30 che andavano al voto 4 erano governati dal centrodestra e 26 dal centrosinistra; ora la situazione si presenta con 14 città che saranno amministrate dal centrodestra (che conferma le sue 4 e ne conquista altre 10) e 16 dal centrosinistra (che ne perde più di un terzo). Da segnalare, soffermandoci sui ballottaggi, alcune significative vittorie dell'asse Pdl-Lega, che, oltre a riprendersi la Provincia di Milano con Guido Podestà, riesce a strappare alla sinistra alcune sue roccaforti come la Provincia di Venezia, quella di Savona, il Comune di Prato.

Il voto amministrativo cambia dunque in modo profondo la geografia politica del paese: consegna quasi interamente il nord al centrodestra, pone fine al dominio pressoché incontrastato del centrosinistra in diverse aree del centro, rafforza la presenza di governi locali del Popolo della Libertà al sud. Dunque, invece che parlare di un fantomatico ed inesistente «inizio del declino della destra», il segretario del Pd, Dario Franceschini, dovrebbe innanzitutto guardare in casa propria e iniziare a prendere sul serio le ragioni che hanno condotto il suo partito e gli alleati a cedere agli avversari numerose amministrazioni, anche nelle cosiddette «zone rosse». Dovrebbe chiedersi, ad esempio, perché in una città come Prato l'elettorato da sempre schierato in massa con la sinistra scelga oggi come sindaco l'imprenditore Roberto Cenni. Oppure perché la gauche venga sconfitta, come ricorda Mario Giordano sul Giornale, a Sassuolo e a Orvieto, solo per citare altri due casi eclatanti. Se il livello dell'analisi del voto nel Partito Democratico è racchiuso nelle parole dell'attuale segretario, secondo cui a dover masticare amaro è il centrodestra, allora viene da rimpiangere i vecchi comitati centrali del Pci, in cui ogni dato, anche quello proveniente dal più piccolo e sperduto Comune, era preso sul serio - tant'è vero che fu quella «scuola» a costruire l'egemonia rossa in molte Regioni italiane, mentre oggi, con Franceschini, siamo alle comiche finali.

Le proporzioni della vittoria dell'asse Pdl-Lega divengono ancora più chiare se si pensa che il successo arriva dopo una lunga e feroce campagna di delegittimazione morale del presidente del Consiglio e leader del partito di maggioranza relativa. Una campagna condotta dal giornale-guida della sinistra, La Repubblica, con l'unico scopo di destabilizzare l'attuale quadro politico, obbligare il premier alle dimissioni e insediare un governo non eletto dal popolo ma gradito a poteri forti dell'economia, dell'editoria, delle istituzioni. Lo ha lasciato intendere in modo non equivocabile Eugenio Scalfari nel suo editoriale di domenica, in barba ad ogni rispetto della volontà popolare che sta a fondamento del nostro sistema democratico. Per questo, dopo le pubbliche accuse della signora Veronica, dopo il caso Noemi, dopo la pubblicazione degli scatti rubati a Villa Certosa dal fotografo sardo Antonello Zappadu, e infine dopo le dichiarazioni della escort barese Patrizia D'Addario, la vittoria netta alle elezioni amministrative rappresenta una robusta prova di forza da parte di Berlusconi e dei partiti che lo sostengono, capaci di bene condurre la campagna elettorale in mezzo al fango, alla melma e alla spazzatura gettatigli addosso da Repubblica & CO. Conquistare la maggioranza delle Province e numerose grandi città in queste condizioni è segno di una incredibile solidità politica.

Se la campagna elettorale fosse stata condotta secondo i canoni della pur dura e aspra contesa politica e del rispetto dell'avversario, probabilmente oggi saremmo qui a celebrare non soltanto il successo, ma addirittura il trionfo assoluto del centrodestra. E, contestualmente, celebreremmo il funerale del progetto del Partito Democratico, che resta in piedi soltanto perché, alla fine, qualche effetto la strategia della delegittimazione morale di Berlusconi qualche risultato lo ha portato, se non altro rafforzando ai ballottaggi un astensionismo che tradizionalmente colpisce al secondo turno i partiti di centrodestra. Franceschini e compagni ringrazino quindi La Repubblica (e, ultimamente, anche dal Corriere della Sera), che, nel bel mezzo della crisi strategica e programmatica del Partito Democratico, ha svolto un ruolo di supplenza e ha garantito al centrosinistra di restare, alla fine, di poco sopra la soglia della disfatta totale. Ma tutto ciò non cancella i problemi del Pd, che restano ed anzi rischiano di incancrenire se i suoi dirigenti abdicano, come è accaduto in questa campagna elettorale, al compito di elaborazione e di proposta politica ed affidano le sorti del partito al gossip, alla chiacchiera pruriginosa, al sensazionalismo antiberlusconiano.

Gianteo Bordero

venerdì 19 giugno 2009

FANGO, FANGO E ANCORA FANGO

da Ragionpolitica.it del 19 giugno 2009

L'antiberlusconismo militante non si fa proprio mancare niente. Dopo aver cavalcato il cosiddetto «Noemi gate» per cercare di dare un fondamento alle accuse della signora Veronica Lario, secondo la quale il marito «frequenta minorenni» ed è «malato» (chiaramente dal punto di vista - diciamo così - del rapporto con l'altro sesso); dopo aver spiato dal buco della serratura attraverso l'obiettivo del fotografo sardo Antonello Zappadu, che, con i suoi cinquemila scatti, ha immortalato scene di vita quotidiana all'aeroporto di Olbia e a Villa Certosa per tentare di dimostrare da un lato l'uso privato e arbitrario dei voli di Stato da parte del premier, dall'altro il clima a dir poco libertino che vige nella residenza sarda del medesimo... Eccolo ora attaccarsi all'ultimo, roboante scoop, stavolta pubblicato sulle pagine del Corriere della Sera, che ha deciso di abbandonare la linea istituzionale seguita nell'ultimo periodo per competere, in quanto a gossip, con i rivali de La Repubblica. L'accusa nei confronti del presidente del Consiglio, stavolta, è nientepopodimeno che quella di «induzione alla prostituzione»: Berlusconi avrebbe organizzato feste a Palazzo Grazioli pagando giovani e belle ragazze affinché si intrattenessero con lui nottetempo. Lo racconta al quotidiano di Via Solferino tale Patrizia D'Addario, un'avvenente biondona che sostiene di essere stata per ben due volte invitata nella residenza romana del premier per partecipare a tali feste e di aver registrato tutto.

Ovviamente, poi non importa se quanto viene scritto o riportato si rivela essere una montagna di menzogne e di calunnie; se il presunto testimone attendibile nella vicenda Noemi, l'ex fidanzato della stessa, è un tipo poco raccomandabile, già condannato per furto e in odore di cattive frequentazioni a Casoria; se l'utilizzo dei voli di Stato viene riconosciuto come legittimo dai magistrati; se nessuna foto di Villa Certosa - almeno così lascia intendere lo stesso Zappadu - è compromettente per il presidente del Consiglio; se la giovane D'Addario viene definita poco credibile dallo stesso giornale che pure dà così ampio risalto alle sue dichiarazioni.

No. L'importante è gettare fango in dosi industriali sul premier, in una corsa al ribasso verso le peggiori nefandezze morali che si possano immaginare. Ci manca soltanto che alla vigilia dei ballottaggi di domenica e lunedì esca, sulla Repubblica o sul Corriere (o su entrambi, il che non guasterebbe), un fragoroso scoop sulle terribili sale tortura collocate nelle «secrete stanze» di Arcore per giustiziare i nemici del popolo ed ecco che il catalogo sarebbe esaurito. Pedofilo, abusatore d'ufficio, organizzatore di orge, magnaccia... Oltre che ladro, corruttore e colluso con la malavita - le nuove accuse che si sommano ai vecchi cavalli di battaglia dell'antiberlusconismo duro e puro. Che altro dovremo leggere sulle pagine della tanto glorificata e incensata «grande stampa libera» del nostro paese, ormai trasformatasi in gazzetta del gossip alla stregua di una Novella 2000 qualsiasi?

Qui non è solo una questione di trame e di complotti. E' questione innanzitutto di buon gusto e di senso della misura. Perché è come se in un buon ristorante venisse servito in tavola un grande vassoio pieno di maleodorante e nauseabonda spazzatura, per non dire di peggio. E' vero - si dirà - che La Repubblica ha aumentato le sue vendite da quando ha iniziato a riempire le sue pagine con indiscrezioni sulla vita privata del presidente del Consiglio, e che quindi esiste un pubblico a cui questa spazzatura piace e che è desideroso di cibarsene. Ciò non toglie, però, che gli editori e i direttori di importanti giornali nazionali dovrebbero sempre essere responsabilmente vigili affinché non venga mai superato quel senso del limite di cui sopra.

Quanto alla denuncia del premier di un tentativo eversivo ai suoi danni, alcune domande sorgono spontanee: si rendono conto, il Corriere, la Repubblica e i poteri (economici, politici e istituzionali) che ad essi fanno riferimento, che con le loro recenti campagne danneggiano non soltanto l'immagine del presidente del Consiglio, ma anche quella del paese intero, che egli rappresenta? E, se la risposta è affermativa, perché lo fanno? Quali interessi stanno alla base della loro azione di quotidiana delegittimazione morale del capo del governo? Perché vogliono destabilizzare l'attuale quadro politico e indebolire un esecutivo sorretto da una forte maggioranza liberamente scelta dai cittadini? Se si pensa alla storia italiana degli ultimi quindici anni, cioè a partire dal 1994 e dall'avviso di garanzia inviato a mezzo stampa (guarda caso dal Corriere della Sera) a Berlusconi durante il G7 di Napoli, è chiaro che tali domande non sono campate per aria. Non sono un modo per alimentare le teorie complottistiche a fini di propaganda elettorale. Sono invece i quesiti di chi vuole vivere in un paese davvero normale, in una democrazia matura dove chi vince governa e chi è all'opposizione combatte la sua battaglia con gli strumenti, anche duri e ruvidi, della politica e non del gossip o, peggio, della diffamazione. Sono gli interrogativi preoccupati di chi non vuole vedere l'Italia ripiombare nel caos a causa di un clima di veleni, odio e violenza ideologica che già tanto male ha fatto al paese. Un altro G8 è alle porte. Non vorremmo rivedere un brutto film già visto tre lustri fa.

Gianteo Bordero

giovedì 18 giugno 2009

ALTRO CHE “ROCCAFORTE DEL PD”! A SESTRI LEVANTE IL VENTO STA CAMBIANDO. LO DICONO I NUMERI

IL POPOLO DELLA LIBERTÀ – SESTRI LEVANTE

COMUNICATO STAMPA DEL 18 GIUGNO 2009

Il voto europeo del 6 e 7 giugno a Sestri Levante ha messo innanzitutto in evidenza un crollo di ampie proporzioni del Partito Democratico. Alle elezioni politiche del 2008 il Pd aveva raccolto, nella nostra città, il 42,1% dei consensi; alle europee 2009 si è fermato al 34%. Si tratta di un calo di ben 8 punti percentuali rispetto a un anno fa. Se poi raffrontiamo il dato delle europee 2009 con quello delle europee 2004, le cose per il Partito Democratico vanno ancora peggio: allora la lista Uniti nell’Ulivo, che raccoglieva Ds e Margherita, ottenne il 44,4% dei voti. La perdita è stata, in questo caso, del 10,4%. In termini assoluti, dal 2004 al 2009 il partito che governa Sestri Levante è passato da 5072 a 3454 voti, lasciando per strada il 31,9% dei consensi che raccoglieva tra i cittadini, quasi un elettore su tre.

Per quel che riguarda invece il nostro partito, il Popolo della Libertà, se è vero che vi è stata una flessione rispetto alle elezioni politiche del 2008 (dal 30,7% al 29,5%), guardando alle europee del 2004 si scopre che Forza Italia e Alleanza Nazionale, che allora correvano ancora divise, ottenevano in totale il 24,9% dei consensi, 2849 voti. Ciò significa che oggi il Popolo della Libertà è cresciuto, rispetto al 2004, del 4,6% in termini percentuali e, in termini assoluti, di 147 voti (ne ha raccolti, il 6 e 7 giugno, 2996).

Questi dati indicano, come elemento politico di prim’ordine, il differente esito dei processi di unione e semplificazione avvenuti rispettivamente col Partito Democratico e col Popolo della Libertà. Nel primo caso assistiamo oggi al fallimento sostanziale della fusione dei Democratici di Sinistra e della Margherita in un unico soggetto; nel secondo caso, invece, osserviamo la buona riuscita della convergenza di Forza Italia e Alleanza Nazionale nel Pdl, una convergenza che trova il gradimento dell’elettorato sestrese. In sintesi: nella nostra città, mentre il Pd prende meno voti di Ds + Margherita, il Pdl prende più voti di Forza Italia + An.

Per avere conferma del fatto che ha preso corpo, a Sestri Levante, una tendenza favorevole al centrodestra e di sfiducia nei confronti del centrosinistra, basta guardare ai dati delle coalizioni attualmente presenti in Consiglio Comunale. Il centrosinistra che sostiene il sindaco Lavarello ha ottenuto, il 6 e 7 giugno, il 42,5% dei consensi, mentre il centrodestra, rappresentato dal gruppo Pdl-Lega-Udc, ha raggiunto quota 44,1%. La sinistra radicale - che nel nostro Comune è all’opposizione - è al 7,6%. Anche se si è trattato di elezioni europee e non amministrative, quello che è importante cogliere è appunto il trend, la tendenza, che in modo chiaro e incontestabile indica un declino della sinistra e una crescita del centrodestra a Sestri Levante.

Per questo non è possibile concordare con quanti, nei giorni scorsi, hanno parlato di Sestri Levante come di una “roccaforte del Pd”. Il Partito Democratico, su base nazionale, ha perso, rispetto alle politiche del 2008, il 7,3% dei consensi; a Sestri, come abbiamo visto, ha perso l’8%. Dove sia la “roccaforte” è difficile a dirsi. Quello che invece rileva, numeri alla mano, è il cambio di direzione del vento politico nella nostra città, con un centrodestra che cresce a vista d’occhio e che ormai è una realtà forte e radicata anche a Sestri Levante.

I dirigenti e i consiglieri comunali
del Popolo della Libertà, Sestri Levante

Graziano Stagni
Giancarlo Stagnaro
Gianteo Bordero
Marco Conti
Giuseppe Ianni

martedì 16 giugno 2009

NEL PD E' GUERRA APERTA IN VISTA DEL CONGRESSO

da Ragionpolitica.it del 16 giugno 2009

La tregua è finita, andate in guerra. Neanche il tempo di conoscere l'esito dei ballottaggi amministrativi di domenica e lunedì prossimi ed ecco che all'interno del Partito Democratico si aprono le danze in vista del congresso di ottobre. Un congresso che ha tutta l'aria di essere il momento della resa dei conti finale non tanto tra ex Ds ed ex Margherita, quanto tra i duellanti di sempre della sinistra italiana: Massimo D'Alema e Walter Veltroni. Il primo ha annunciato il suo sostegno a Pierluigi Bersani, salvo mettere in campo la sua disponibilità, come extrema ratio, in caso di emergenza, ad assumere la guida del partito. Il secondo è tornato a farsi sentire con una lettera su Facebook nella quale, in sostanza, rivendica la necessità di riprendere il cammino iniziato col Lingotto (e indebolito dal logoramento della sua leadership dopo la sconfitta alle elezioni politiche), dando continuità all'attuale segreteria e magari innervandola di giovani promesse del partito come Debora Serracchiani e amministratori affermati come Sergio Chiamparino. Mentre l'ex presidente del Consiglio ha stretto alleanza con Enrico Letta, l'ex segretario del Pd ha convocato per il 2 di luglio, al Capranica di Roma, un incontro con i suoi fedelissimi ed estimatori per «rafforzare e rilanciare» il suo originario progetto, quello del partito riformista a vocazione maggioritaria, «senza correnti e personalismi, senza vecchie e paralizzanti logiche figlie di un tempo superato».

Dietro il rinnovarsi dell'eterno scontro personale tra D'Alema e Veltroni, però, si nasconde anche la radicale divergenza di progetti strategici: è cosa nota che Baffino lavori per rimettere in piedi un ampio sistema di alleanze che guardi, oltre che alla nuova sinistra di Vendola (sponsorizzata da Bertinotti), anche all'Udc di Pier Ferdinando Casini - un dato, questo, confermato appunto dal patto stretto con Letta, maggiore sostenitore dell'intesa con il leader centrista -, mentre Walter punta in primis alla riproposizone del progetto Pd così come inaugurato due anni or sono con il discorso del Lingotto. Ha scritto l'ex sindaco di Roma nella lettera pubblicata su Facebook: «Se ritengo opportuno, in questo momento, tornare a dire quel che penso, è perché avverto che il nostro progetto, il progetto del Partito Democratico, è messo in discussione. E' perché sento che attorno ad esso si muovono richiami antichi». Non bisogna andar lontano per capire a chi si riferisce Veltroni.

Tra l'altro - sia detto per inciso - è possibile leggere anche alla luce di questa battaglia tra D'Alema e Veltroni le dichiarazioni del primo in merito alla necessità, per l'opposizione, di farsi trovare pronta nel caso in cui, prossimamente, avessero luogo quelle «scosse» (di cui egli ha parlato domenica nel corso della trasmissione di Lucia Annunziata, In Mezz'ora) tali da mettere in discussione la tenuta dell'esecutivo Berlusconi. Se la speranza di D'Alema, esperto in giochi di palazzo come quelli che lo portarono al governo dopo la caduta di Prodi nel 1998, è quella di riuscire a mettere insieme in parlamento - non si sa come - i numeri per sostenere un esecutivo pseudo «tecnico» o di «salute pubblica», i veltroniani, che puntano diretti al bipartitismo, hanno già fatto sapere che, in un fanta-scenario come quello disegnato da D'Alema, non ci sarebbe alternativa al ritorno alle urne.

Tutto questo accade mentre su un altro fronte, quello della collocazione europea del Pd, un altro big dei Democratici, Francesco Rutelli, fa sapere, attraverso un'intervista rilasciata lunedì al Corriere della Sera, che potrebbe giungere al punto di abbandonare il partito se dovesse continuare a prevalere la linea filo-socialista portata avanti dagli ex Ds e fatta propria anche dal segretario Franceschini, e che ha condotto alla decisione di creare un euro-gruppo «socialista e democratico» (Asde). Secondo Rutelli, «la scelta simbolica di far entrare il Pd nella casa socialista in Europa è un errore capitale... Significa buttare a mare tutta la novità e la singolarità del Pd». Non è, per l'ex segretario della Margherita, soltanto una questione europea, perché potrebbe avere anche risvolti di politica interna: «Se il Pd - dice - si connota a sinistra, si chiude ogni strada di crescita».

Sono queste alcune delle tensioni che stanno emergendo nel Partito Democratico in questi giorni del post-voto ed è lecito ipotizzare che altre ne verranno a galla nelle ore e nelle settimane a venire. La tregua invocata da Franceschini almeno fino ai ballottaggi del 21 e 22 giugno non è durata. Segno che le divisioni interne, le divergenze sulla linea politica da seguire, sulle strategie, sul compito e sull'identità stessa del partito sono talmente profonde e radicate che le correnti - che tali divergenti linee rappresentano - hanno fretta di organizzarsi al meglio in vista del congresso di ottobre, senza fare sconti agli avversari. I giochi sono aperti, si affilano le armi. Stavolta - si augura Prodi (L'Unità, 16 giugno) - scorrerà il sangue. Perché più a fondo di così il Pd non può andare, e non scegliere significherebbe soltanto compiere l'ultimo passo verso il baratro.

Gianteo Bordero

lunedì 15 giugno 2009

PIANO COMUNALE PER I NUOVI BAR E RISTORANTI: POZZO E LAVARELLO NON SI PRENDANO MERITI CHE NON HANNO

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE
GRUPPO CONSILIARE “IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – LEGA NORD – UDC”

COMUNICATO STAMPA DEL 15 GIUGNO 2009

Se non fosse stato per il senso di responsabilità e per il contributo fornito dai gruppi di opposizione, nel corso dell’ultima seduta di Consiglio comunale sarebbe stato approvato un pessimo regolamento per l’apertura di nuovi bar e ristoranti a Sestri Levante. Il testo fatto pervenire ai consiglieri dall’assessore Pozzo, infatti, era in continuità con la pessima qualità di altri regolamenti approntati dalla Giunta Lavarello. Tant’è vero che, durante il Consiglio Comunale, resisi conto della fondatezza e del buon senso che ispirava le critiche mosse dall’opposizione, sia l’assessore che il sindaco hanno chiesto una riunione dei capigruppo per apportare quelle modifiche necessarie a rendere migliore il documento. Una riunione che si è protratta per più di un’ora, e in cui il provvedimento presentato da Pozzo è stato in molte parti rivoltato come un calzino.

Da notare che, sempre su suggerimento dei gruppi di minoranza, diversi commi di articoli del regolamento sono stati stralciati e verranno ripresentati dall’amministrazione nella prossima seduta di Consiglio Comunale. Invece che cantare vittoria, dunque, l’assessore e il sindaco dovrebbero ringraziare un’opposizione responsabile, che ha evitato che per l’ennesima volta venisse approvato un provvedimento che, per usare un eufemismo, lasciava a desiderare. Invece che auto-incensarsi sui quotidiani locali, Pozzo e Lavarello dovrebbero meglio concentrarsi sulla qualità dei regolamenti da loro proposti, senza intestarsi vittorie che sono, semmai, merito esclusivo di un’opposizione seria, preparata e attenta al bene della città più che agli sterili giochetti di potere che tanto piacciono all’attuale maggioranza.

Gianteo Bordero (capogruppo)
Giuseppe Ianni
Marco Conti
Giancarlo Stagnaro

sabato 13 giugno 2009

IL NUOVO SOGNO DI FAUSTO: UN'UNICA, GRANDE SINISTRA

da Ragionpolitica.it del 13 giugno 2009

Pungente come al suo solito, la Jena della Stampa, Riccardo Barenghi, aveva così commentato il titolo dell'ultimo libro di Fausto Bertinotti, Devi augurarti che la strada sia lunga: «Tranquillo, Fausto, sarà lunghissima». Era il 7 maggio. Oggi, a un mese di distanza, dopo il risultato delle elezioni europee ed amministrative dello scorso fine settimana, trovare il bandolo della matassa per ricostruire la sinistra in Italia è diventata impresa ancor più difficile. E allora l'ex leader di Rifondazione prende carta e penna e scrive al nuovo giornale di Piero Sansonetti, L'Altro, per analizzare il dato emerso dalle urne e tracciare la rotta per l'immediato futuro della gauche nostrana. Se la prima parte riesce meravigliosamente bene al subcomandante Fausto, è la seconda che lascia quanto meno perplessi: Bertinotti individua con precisione la malattia, ma è sulla cura che nutriamo più di un dubbio.

Ma andiamo con ordine: «Il disastroso risultato del 6 e 7 giugno - scrive - ha sancito la fine, o la sconfitta storica, dei partiti eredi del Novecento... Bisogna prendere atto che davvero una storia è finita, si è conclusa». E questo, secondo Bertinotti, non riguarda soltanto la sinistra radicale, rimasta esclusa dal parlamento europeo dopo che analoga sorte le era toccata dopo le elezioni politiche del 2008. Riguarda anche il Pd: «Anche il progetto del Partito Democratico è fallito... Quattro milioni di voti perduti in dodici mesi, la perdita massiccia di Comuni e Province, la penetrazione leghista nelle Regioni rosse... Mi pare un bilancio grave». Soprattutto - dice l'ex presidente della Camera - il Pd ha mancato quello che era il suo obiettivo principale: «Contrastare davvero, fermare, arginare, l'avanzata della destra, la sua egemonia "valoriale", la sua conquista di un consenso largamente popolare». Si tratta di un'analisi impietosa, certo, che però non fa una piega. Bertinotti non cede a quell'ipocrisia collettiva che ha portato molti esponenti del Pd, dopo il voto europeo ed amministrativo, a bendarsi gli occhi di fronte all'evidente disfatta e a concentrarsi sul calo contenuto di voti del Pdl invece che sui quattro milioni di consensi perduti e sulle tante amministrazioni passate al centrodestra, anche in aree del paese un tempo roccaforti della sinistra. Bertinotti non cade nel tranello: la sua intelligenza politica gli consente di non censurare la realtà e di guardare senza infingimenti alla vera dimensione del tracollo della sinistra il 6 e 7 giugno.

Ma, come dicevamo poc'anzi, è la pars construens dell'articolo dell'ex segretario di Rifondazione a non convincere. Che cosa propone, infatti, Bertinotti per risollevare le sorti della gauche italiana? Un nuovo partito che metta insieme tutto quello che in qualche modo possa essere ricondotto sotto il termine «sinistra», dal Partito Democratico fino a Vendola, dai Radicali ai Comunisti. «Un partito nuovo, unitario e plurale, della sinistra, di tutta la sinistra. Un partito capace di rappresentare le "grandi mete" (uguaglianza e libertà, laicità, nonviolenza) che danno senso alla sinistra. Una forza da ricostruire processualmente... Entro le prossime elezioni politiche». Bertinotti pensa a una «Grande Sinistra» che non sia «una somma dell'esistente», e non sia frutto di «processi puramente fusionistici». Una strada nuova, dunque, che però ha tutta l'aria di essere l'ultima spiaggia, dopo che tutti gli altri tentativi sono stati esperiti senza portare a risultati duraturi nel tempo, dopo che anche l'Unione prodiana, che teneva insieme, nel nome del mero antiberlusconismo, partiti profondamente diversi e tra loro inconciliabili (Mastella e Di Pietro, Rutelli e Diliberto, la Binetti e Pannella), è naufragata sotto il peso delle sue contraddizioni. La fantasia politica di Bertinotti partorisce dunque una nuova «rifondazione». Stavolta, però, si tratta della «rifondazione di qualcosa che non c'è ancora». Un ossimoro che colpisce l'immaginazione e produce un indubbio effetto fascinoso.

Ma la sostanza dov'è? In nome di che cosa tutti i partiti riconducibili alla sinistra dovrebbero dar vita ad un unico, grande partito, dopo che l'antiberlusconismo si è rivelato incapace di produrre una realtà politica degna di tal nome? Quale ragione politica, insomma, sarebbe alla base di questo nuovo soggetto, nel momento in cui tutte le basi ideali a cui si era appoggiata la sinistra nel Novecento sono state sgretolate dalla storia? L'impressione, alla fine, è che Bertinotti voglia ripartire dal fascino di un nome a cui però non corrisponde più la cosa. Quello dell'ex segretario di Rifondazione appare, alla fine dei conti, solo come un esercizio di ottimismo della volontà finalizzato a rianimare ciò che la sua stessa ragione vede oggi come privo di vita, di anima e forse anche di corpo.


Gianteo Bordero

giovedì 11 giugno 2009

I BALLOTTAGGI DEL 21 E 22 GIUGNO

da Ragionpolitica.it dell'11 giugno 2009

Saranno 38 i ballottaggi che si svolgeranno domenica 21 e lunedì 22 giugno. 22 coinvolgeranno gli elettori delle Province, 16 quelli dei Comuni capoluogo. Per quanto concerne le prime, 10 sono nel nord Italia, 6 nel centro e le restanti 6 nel sud. 5 al nord, 5 al centro e 6 al sud per quanto riguarda invece le amministrazioni comunali. Dopo il primo turno dello scorso fine settimana, questi ballottaggi rivestono un'importanza particolare, perché potrebbero sancire un ulteriore salto in avanti dell'asse Popolo della Libertà-Lega Nord nel processo di radicamento nelle amministrazioni locali, anche in zone da tempo appannaggio del centrosinistra.

LE PROVINCE

Occorre innanzitutto ricordare che, laddove avrà luogo il ballottaggio, le amministrazioni provinciali uscenti sono tutte di centrosinistra: ogni vittoria del centrodestra rappresenterà quindi un doppio successo. Vediamo nel dettaglio, Regione per Regione, le sfide che si giocheranno.

Partendo da nord-ovest, in Liguria, a Savona, il candidato del centrodestra, Angelo Vaccarezza, ha mancato per pochi voti il successo al primo turno e riparte dal 49,5% contro il 38% dello sfidante di centrosinistra, Michele Boffa. In Piemonte è partita aperta a Torino, dove l'uscente Antonino Saitta ha pochi punti di vantaggio (+2,8%) su Claudia Porchietto, sostenuta da Pdl e Lega; ad Alessandria è avanti il candidato di centrodestra, Francesco Stradella, su Paolo Filippi, uscente del centrosinistra (46,6% a 43,3%). In Lombardia, una sfida molto importante si gioca a Milano, dove il candidato del centrodestra, Guido Podestà, ha anch'egli sfiorato la vittoria al primo turno (49,8%) e ora affronta il ballottaggio contro l'uscente Filippo Penati (38,8%). In Veneto, a Venezia, Francesca Zaccariotto di Pdl-Lega ha ottenuto il 48,3% dei voti e se la vedrà con l'uscente Davide Zoggia (41,9%); a Belluno Gianpaolo Bottacin, del centrodestra, è al 47,1%, mentre l'uscente Sergio Reolon è al 41,1%; a Rovigo Antonello Contiero (centrodestra) è avanti di 12 punti sull'avversaria di centrosinistra, Tiziana Virgili (48,7% a 36,7%). In Emilia Romagna, «zona rossa» per eccellenza, dove Pdl e Lega hanno già strappato al centrosinistra Piacenza, i giochi sono ancora aperti a Rimini (dove il candidato di centrodestra, Marco Lombardi, ha ottenuto il 42,5% dei consensi e può contendere la vittoria all'avversario Stefano Vitali, sostenuto da tutta la sinistra al gran completo, che il 6 e 7 giugno si è fermata al 48,3%) e a Parma, anche se con una forbice maggiore (Giampaolo Lavagetto del centrodestra è al 40%, l'uscente Vincenzo Bernazzoli al 49%); più complessa, per il centrodestra, la partita di Ferrara, dove il candidato del Pdl, Mauro Malaguti, parte con uno svantaggio di 22,5% percentuali rispetto a Marcella Zappaterra (27,2% a 49,7%): occorre però tenere conto che qui la Lega correva con un suo candidato, Davide Verri, che ha raccolto il 15% dei consensi, quindi l'esito della sfida è meno scontato rispetto alle apparenze.

Scendendo nel centro Italia, in Toscana, unica Regione che finora ha confermato tutte le amministrazioni provinciali della gauche, sarà ballottaggio nella roccaforte della sinistra Prato (dove Cristina Attucci del centrodestra affronta con il 41,5% Lamberto Gestri del centrosinistra, al 47,7%), ad Arezzo (Lucia Tanti del centrodestra parte dal 39,2% contro il 49,8% di Roberto Vasai, appoggiato da Pd, Idv e Sl) e a Grosseto (l'ex sindaco Alessandro Antichi, sostenuto da Pdl-Lega-Udc, è al 41,7%, mentre Leonardo Marras del centrosinistra al 47,7%). Nelle Marche, ad Ascoli Piceno, Piero Celani del centrodestra è al 40,9%, Emilio Mandozzi del centrosinistra al 30,5%; nella nuova Provincia di Fermo, Saturnino Di Ruscio (centrodestra) ha ottenuto il 41,8% dei voti e se la vedrà con Fabrizio Cesetti (centrosinistra), che è al 44,8%. Nel Lazio, la partita è ancora aperta a Frosinone (Antonello Iannarilli, centrodestra, è al 44,4%, e l'avversario Gian Franco Schietroma, centrosinistra, al 39%) e a Rieti (Felice Costini del centrodestra è al 45%, mentre l'uscente Fabio Melilli è al 44,4%).

E veniamo al sud. In Campania, Abruzzo e Molise il centrodestra ha già dato cappotto al centrosinistra (6 amministrazioni provinciali strappate agli avversari e 1 confermata). In Puglia ha già cambiato segno politico Bari, e sarà ballottaggio a Brindisi, Lecce e Taranto. Nel primo caso Michele Saccomanno del centrodestra affronta con il 43,9% Massimo Ferrarese del centrosinistra, al 44,4%; nel secondo il centrodestra, con Antonio Gabellone, è al 41,3%, mentre il centrosinistra al 36,7% con Loredana Capone (da segnalare che qui la candidata Adriana Poli Bortone, sostenuta da Udc e da numerose liste civiche, ha ottenuto il 21,9% dei consensi); nel terzo caso, infine, Domenico Rana del centrodestra è avanti, col 34,8%, sull'uscente Giovanni Florido, al 33,9% (anche qui il candidato dell'Udc, della Lega d'Azione Meridionale di Giancarlo Cito, del Partito Pensionati, della Fiamma Tricolore, ossia Giuseppe Tarantino, ha superato quota 20%, accaparrandosi il 23,8% dei voti). E chiudiamo con la Calabria, dove il ballottaggio avrà luogo a Cosenza e a Crotone: a Cosenza il candidato del centrodestra Giuseppe Gentile partirà dal 37,2% per sfidare l'uscente Gerardo Oliverio, che ha raggiunto il 46,9%; a Crotone Stanislao Zurlo del centrodestra, con il 29,6%, sfiderà Ubaldo Schifino del Pd (33,1%) - da notare che qui l'uscente Sergio Iritale, appoggiato da altre liste di sinistra, si è fermato al 20,5%.

I COMUNI

E veniamo ai Comuni capoluogo che andranno al ballottaggio. Anche qui, partendo da un nord-ovest che si già colorato d'azzurro a Biella, Verbania, Bergamo, Pavia, troviamo in Lombardia Cremona: il candidato di Pdl-Lega, Oreste Perri, è in vantaggio di qualche punto percentuale sull'uscente Gian Carlo Corada (45% a 41,6%). In Veneto, a Padova, il candidato del centrodestra Marco Marin sfiderà con il 44,8% l'uscente sindaco-sceriffo Flavio Zanonato, salito all'onore delle cronache per aver fatto erigere il famigerato «Muro» di via Anelli, invasa da spacciatori, prostitute e tossicodipendenti. In Emilia Romagna torneranno alle urne Bologna, Ferrara e Forlì. Nella città felsinea Alfredo Cazzola (centrodestra, 29,1%) se la dovrà vedere con Sergio Delbono, il candidato prodiano del centrosinistra, che si è fermato al 49,4% - da sottolineare che Giorgio Guazzaloca, ex sindaco di centrodestra prima dell'arrivo di Sergio Cofferati, ha raccolto con la sua lista civica, appoggiata anche dall'Udc, il 12,7% dei consensi; a Ferrara Giorgio Dragotto del Pdl (la Lega qui correva da sola) parte con 20 punti di svantaggio su Tiziano Tagliani del centrosinistra (25,5% contro 45,7%); situazione meno difficile, per il centrodestra, a Forlì, dove il candidato di Pdl-Lega-Udc, Alessandro Rondoni, col 40,3% affronterà Roberto Balzani del centrosinistra, al 49,4%.

Nel centro Italia, in Toscana, assisteremo a un ballottaggio fino a poco tempo fa impensabile in due roccaforti rosse come Firenze e Prato. Nella città gigliata il candidato del centrodestra, l'ex portiere della nazionale di calcio Giovanni Galli, col 32% sfiderà l'«Obama fiorentino», il giovane Matteo Renzi già presidente della Provincia, che al primo turno ha ottenuto il 47,5% dei consensi. A Prato, la distanza che separa il candidato del centrodestra, il valente imprenditore nel settore tessile e dell'abbigliamento, Roberto Cenni, da Massimo Carlesi del centrosinistra, è di soli due punti percentuali (45% a 47,5%). Nelle Marche si voterà ad Ancona (Giacomo Bugaro di Pdl-Lega è al 33,7%, Fiorello Gramillano del centrosinistra al 40,9%) e ad Ascoli Piceno (si contenderanno la guida della città Guido Castelli del centrodestra, che parte dal 43,2%, e Antonio Canzian del centrosinistra, 34,4%). In Umbria, a Terni, l'ex presidente della Corte Costituzionale Antonio Baldassarre, sostenuto dal Pdl e da una lista civica, tenterà di colmare il divario che lo separa da Leopoldo Di Girolamo del centrosinistra (37,1% a 49,4%).

Scendiamo al sud e troviamo, in Campania, Avellino, dove partono praticamente alla pari (313 voti di differenza, 42,9% contro 42,0%) Massimo Preziosi del centrodestra+Udc e l'uscente di centrosinistra Giuseppe Galasso. In Basilicata sarà ballottaggio a Potenza: qui 11 punti percentuali separano Giuseppe Molinari del centrodestra (35,3%) dall'uscente Vito Santarsiero del centrosinistra (46,4%). In Puglia si torna alle urne in tutte e tre le città capoluogo che sono andate al voto il 6 e 7 giugno: Bari, Brindisi, Foggia. A Bari, dove peraltro non sono state ancora assegnate tutte le schede e mancano all'appello 3 sezioni su 345, Simeone Di Cagno Abbrescia del centrodestra (46%) sfiderà l'uscente di centrosinistra Michele Emiliano (49%); a Brindisi l'uscente di centrodestra Domenico Mennitti (37%) se la dovrà vedere con Salvatore Brigante del centrosinistra (32,6%); a Foggia Enrico Santaniello del centrodestra è avanti di 15 punti percentuali su Gianni Mongelli del centrosinistra (41,9% contro 26,4%), con il candidato dell'Udc, Anna Lucia Lambresa, che ha raggiunto quota 18,5%. Finiamo con la Sicilia, dove il ballottaggio sarà a Caltanissetta, unico Comune capoluogo della Regione insulare ad essere andato al voto: qui si contrapporranno Michele Campisi del centrodestra (39%) e Fiorella Falci del centrosinistra (28,2%) - l'alleanza Udc-Mpa ha ottenuto il 19% dei consensi.

CONCLUSIONE

Come il lettore avrà potuto osservare, si tratta in moltissimi casi di partite ancora aperte, che il centrodestra deve giocare fino in fondo e con il massimo impegno, per consolidare la vittoria del 6 e 7 giugno, che ha già portato in dote all'alleanza Pdl-Lega 26 Province e 9 Comuni capoluogo. In numerose realtà tra quelle elencate saranno decisivi i voti dell'Udc, che ha scelto la strategia dell'«ago della bilancia», ma con cui occorre confrontarsi, caso per caso, e vedere se è possibile un'intesa amministrativa nel nome del buon governo. In conclusione occorre ricordare, come ha scritto nella sua lettera di ringraziamento agli elettori Silvio Berlusconi, che quello del ballottaggio è un «appuntamento a cui non bisogna mancare». Anche se sarà il primo week-end estivo, la posta in gioco è tale da sollecitare una partecipazione alta e convinta al voto.

Gianteo Bordero

martedì 9 giugno 2009

LA CONQUISTA DEL TERRITORIO

da Ragionpolitica.it del 9 giugno 2009

I risultati delle elezioni amministrative spazzano via in un sol colpo il castello dei sogni di cartapesta che Franceschini e i dirigenti del Partito Democratico avevano costruito domenica notte, dopo aver conosciuto l'esito delle europee. Credevano, Dario e gli altri, di aver aperto una breccia nel solido fortino del consenso berlusconiano, di essere riusciti a piegare l'asse di ferro tra il Pdl e la Lega Nord, di aver frenato la conquista dell'egemonia politica sull'Italia da parte del centrodestra. Senza neppure aver analizzato per bene i dati, erano convinti di aver «fermato la destra». Franceschini e i suoi guardavano la pagliuzza nell'occhio del Popolo della Libertà e non vedevano la trave conficcata nel loro. Si appoggiavano, come gli ubriachi ai lampioni, a quel -2% del Pdl rispetto alle politiche del 2008 e facevano finta che non esistesse quel loro imbarazzante -7%. Parlavano, senza alcun senso del pudore politico, di «fine della stagione berlusconiana», di un centrodestra «minoritario nel paese», di un'Italia «in controtendenza» rispetto all'«onda di destra» che ha sommerso l'Europa. Era il perfetto rovesciamento della realtà.

Sarebbe bastato osservare con maggior cura e a mente fredda i numeri per capire che il vero malato di queste elezioni non era il Cavaliere e l'alleanza che lo sostiene, ma il Partito Democratico: se il calo del 2% del Pdl era già domenica notte chiaramente circoscrivibile ad una particolare zona del paese, la Sicilia (una regione da sempre generosa con il partito di maggioranza, ma che questa volta ha disertato in massa le urne, forse anche a causa del recente scontro di potere interno allo stesso centrodestra), altrettanto non si poteva dire del Pd, che perdeva voti in maniera diffusa su tutta la Penisola, e non soltanto a causa dell'astensionismo, ma anche per la migrazione di molti elettori verso l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. A scrutinio chiuso, i Democratici rimanevano maggioranza relativa in due sole regioni: l'Emilia Romagna e la Toscana. Negli altri due baluardi della «zona rossa» del centro Italia, le Marche e l'Umbria, venivano scavalcati dal Popolo della Libertà, diventato primo partito anche in Liguria e in Basilicata.

Erano segnali d'allarme in vista dello scrutinio delle amministrative, ma Franceschini e i vertici del Pd facevano finta di nulla, anzi continuavano a millantare una vittoria inesistente, a discettare di «crisi del berlusconismo» e via strologando. Ci sono voluti i risultati di provinciali e comunali per mostrare all'intero paese che quella del segretario e degli altri dirigenti democratici era solo una montagna di propaganda senza alcun fondamento in re, nella realtà. Su 62 amministrazioni provinciali che sono andate al voto, il centrodestra ne ha conquistate 26 al primo turno, strappandone ben 15 al centrosinistra, che ne ha confermate soltanto 14 (ne governava 50). Nelle rimanenti 22 si andrà al ballottaggio fra quindici giorni. Cambiano colore politico alcune roccaforti della gauche italiana come Piacenza e Macerata. E poi Napoli, Bari, Salerno. Al nord Cremona, Lecco, Lodi, Biella, Novara, Verbano-Cusio-Ossola. In Abruzzo Chieti, Pescara, Teramo. E infine Avellino. Per quanto riguarda le comunali, il centrodestra strappa al centrosinistra Bergamo e Pavia, Biella e Verbania, Pescara, Campobasso, e manda al ballottaggio i bastioni rossi di Bologna, Firenze e Prato, oltre a Ferrara, Ancona e Padova, tra gli altri. In totale, su 30 città capoluogo di provincia, il centrodestra ne conquista 9, di cui 6 amministrate dal centrosinistra, che ne conferma soltanto 5 delle 25 che governava. I ballottaggi saranno 16. Sono numeri che parlano da soli. E che ancor più parleranno da soli quando i dati aggregati mostreranno in tutta la sua portata il crollo verticale del centrosinistra, e in particolar modo del Pd, nel gradimento dei cittadini.

Avevamo scritto su queste pagine, qualche tempo fa, che le elezioni amministrative avrebbero potuto ridisegnare la mappa del potere in molte aree della Penisola «spostando, in diverse zone del paese, il pendolo da sinistra a destra e consegnando nelle mani dell'alleanza Pdl-Lega, saldamente al comando sul piano del governo nazionale, le chiavi anche di buona parte dei governi territoriali». E affermavamo che era quindi sulle provinciali e sulle comunali che bisognava tener desta l'attenzione, ben più che sulle europee. Perché «una buona performance del centrodestra e un corrispondente arretramento del centrosinistra proprio su quello che da sempre è un suo terreno di conquista - le amministrazioni locali - significherebbe che la crescita dell'alleanza Popolo della Libertà-Lega Nord non rappresenta più una folata occasionale di "vento di destra", ma è il frutto di un robusto e profondo processo politico in atto in Italia, da nord a sud». Questa previsione si è rivelata fondata.

Il voto europeo è stato, come al solito, il puro voto proporzionale e di opinione, la scelta di un partito per la composizione del parlamento di Strasburgo; quello amministrativo è stato la scelta tra due schieramenti e tra due modelli di governo. Se la prima consultazione è stata avvertita come la chiamata alle urne per un'istituzione che spesso viene ancora percepita come lontana, la seconda, come testimoniato dall'affluenza molto più elevata, è stata sentita come la scelta per qualche cosa che riguarda da vicino la vita quotidiana dei cittadini. Insomma, quando il gioco si è fatto duro, i duri sono entrati in gioco. Col seguente risultato: il centrodestra si radica in maniera sostanziale sul territorio, anche con significative incursioni nella «zona rossa» del paese, mentre al centrosinistra non resta che tentare di rimettere insieme i cocci di un potere che va in frantumi sotto il peso della crisi interna della gauche e della crescente forza egemonica di un'alleanza che funziona.


Gianteo Bordero

giovedì 4 giugno 2009

PDL NEL PPE. E IL PD?

da Ragionpolitica.it del 4 giugno 2009

Le elezioni europee del 6 e 7 giugno consacreranno la svolta di sistema rappresentata, in Italia, dalla nascita del Popolo della Libertà. In una campagna elettorale che la stampa antiberlusconiana, seguita a ruota dai due maggiori partiti del centrosinistra (Partito Democratico e Italia dei Valori), ha trasformato in una morbosa caccia allo scandalo nella vita privata del presidente del Consiglio, quasi nessuno s'è preso la briga di porre l'accento su questo dato politico di prim'ordine. E ciò la dice lunga sulla (bassa) qualità di certi organi di informazione nostrani e sulla (scarsa) serietà dei partiti attualmente all'opposizione. Del resto, è comprensibile che parli d'altro chi, come i dirigenti del Pd, non è stato in grado fino ad oggi di dire una parola chiara circa la collocazione europea dei parlamentari che verranno eletti il prossimo fine settimana. Neppure il segretario Franceschini, ospite martedì sera di Porta a Porta, è riuscito a sciogliere il dilemma.

A fronte di una sinistra che affronta il giudizio degli elettori in ordine sparso, con una disgregazione politica ben simboleggiata dalle numerose liste l'un contro l'altra armata (oltre ai già citati Pd e Idv, troviamo Sinistra e Libertà, Lista Pannella-Bonino, Rifondazione-Comunisti Italiani, Partito Comunista dei Lavoratori), segno dell'incapacità di raggiungere una sintesi attorno ad un progetto comune che non sia il solito antiberlusconismo, troviamo dunque un centrodestra all'interno del quale il processo di aggregazione ha raggiunto uno stadio molto avanzato. Ed è importante sottolineare che tale processo è avvenuto proprio in nome dell'Europa, cioè della bipartizione, presente nella maggior parte dei paesi del Vecchio Continente, tra popolari e socialisti. Se nel centrodestra il Popolo della Libertà è stato in grado di raccogliere in un unico soggetto politico tutti i partiti (ad esclusione dell'Udc) la cui stella polare è rappresentata dalla Carta dei Valori del Partito Popolare europeo, altrettanto non si può dire del centrosinistra, dove quello che dovrebbe essere il partito-guida, il Pd, si dibatte nella contraddizione mai risolta del suo nascere dalla confluenza di un partito post-democristiano che non vuole «morire socialista» e di un partito post-comunista che non è stato in grado di un'autentica svolta socialdemocratica.


Per anni abbiamo ascoltato la tiritera secondo cui l'«anomalia» italiana rispetto all'Europa era rappresentata da Silvio Berlusconi e da Forza Italia; si è detto e scritto che non poteva avere cittadinanza nel Vecchio Continente un partito vuoto di progettualità e di idee, fondato esclusivamente sulla persona del suo leader. Oggi, invece, dopo 15 anni dall'ingresso in politica del Cavaliere e con una nuova euro-consultazione alle porte, si scopre che il «partito di plastica» (o, per dirla con Romano Prodi, il «nulla») è diventato un maturo e radicato partito di stampo europeo, pienamente integrato nella grande famiglia del Ppe, di cui si appresta anzi a diventare la delegazione numericamente più consistente. E si scopre che la vera «anomalia» è quella di un centrosinistra, e in particolare di un Pd, che non è né carne né pesce, senza una precisa e definita collocazione in Europa, privo cioè di identità chiara e distinta, costretto a fare i salti mortali per tentare di convincere i partiti che fanno capo al gruppo socialista ad accettare una nuova denominazione pur di ospitare gli eurodeputati del Pd: «In Europa - ha detto martedì sera Franceschini a Porta a Porta - la componente progressista è composta soprattutto da socialisti, ma noi non entreremo nel Partito Socialista europeo, vogliamo un nuovo gruppo parlamentare con socialisti e forze progressiste». Della serie: se la montagna non va a Maometto...

Molto più coerente e lineare, invece, la scelta del Popolo della Libertà di entrare nel Partito Popolare europeo: il Dna politico del Pdl è lo stesso del Ppe, al punto che la Carta dei Valori che è stata approvata durante le assise congressuali dello scorso marzo è la stessa fatta propria dal Ppe in occasione del suo Congresso del trentennale, svoltosi a Roma nel 2006. «Il Partito Popolare europeo - ha detto Berlusconi durante il Congresso fondativo del Pdl - è la naturale famiglia del Popolo della Libertà». Ed è il naturale sbocco di un percorso con il quale il Cavaliere, tenacemente e pazientemente, ha dato vita, nel nostro paese, ad un grande soggetto di centrodestra, rivoluzionando un sistema politico fondato sulla conventio ad excludendum rappresentata dal vecchio arco costituzionale e creando un bipolarismo finalmente in linea con le maggiori democrazie occidentali. Berlusconi, dunque, non ha mancato l'appuntamento con la storia. Chi è in ritardo, ancora una volta, è la sinistra italiana.

Gianteo Bordero