da Ragionpolitica.it del 9 giugno 2009
I risultati delle elezioni amministrative spazzano via in un sol colpo il castello dei sogni di cartapesta che Franceschini e i dirigenti del Partito Democratico avevano costruito domenica notte, dopo aver conosciuto l'esito delle europee. Credevano, Dario e gli altri, di aver aperto una breccia nel solido fortino del consenso berlusconiano, di essere riusciti a piegare l'asse di ferro tra il Pdl e la Lega Nord, di aver frenato la conquista dell'egemonia politica sull'Italia da parte del centrodestra. Senza neppure aver analizzato per bene i dati, erano convinti di aver «fermato la destra». Franceschini e i suoi guardavano la pagliuzza nell'occhio del Popolo della Libertà e non vedevano la trave conficcata nel loro. Si appoggiavano, come gli ubriachi ai lampioni, a quel -2% del Pdl rispetto alle politiche del 2008 e facevano finta che non esistesse quel loro imbarazzante -7%. Parlavano, senza alcun senso del pudore politico, di «fine della stagione berlusconiana», di un centrodestra «minoritario nel paese», di un'Italia «in controtendenza» rispetto all'«onda di destra» che ha sommerso l'Europa. Era il perfetto rovesciamento della realtà.
Sarebbe bastato osservare con maggior cura e a mente fredda i numeri per capire che il vero malato di queste elezioni non era il Cavaliere e l'alleanza che lo sostiene, ma il Partito Democratico: se il calo del 2% del Pdl era già domenica notte chiaramente circoscrivibile ad una particolare zona del paese, la Sicilia (una regione da sempre generosa con il partito di maggioranza, ma che questa volta ha disertato in massa le urne, forse anche a causa del recente scontro di potere interno allo stesso centrodestra), altrettanto non si poteva dire del Pd, che perdeva voti in maniera diffusa su tutta la Penisola, e non soltanto a causa dell'astensionismo, ma anche per la migrazione di molti elettori verso l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. A scrutinio chiuso, i Democratici rimanevano maggioranza relativa in due sole regioni: l'Emilia Romagna e la Toscana. Negli altri due baluardi della «zona rossa» del centro Italia, le Marche e l'Umbria, venivano scavalcati dal Popolo della Libertà, diventato primo partito anche in Liguria e in Basilicata.
Erano segnali d'allarme in vista dello scrutinio delle amministrative, ma Franceschini e i vertici del Pd facevano finta di nulla, anzi continuavano a millantare una vittoria inesistente, a discettare di «crisi del berlusconismo» e via strologando. Ci sono voluti i risultati di provinciali e comunali per mostrare all'intero paese che quella del segretario e degli altri dirigenti democratici era solo una montagna di propaganda senza alcun fondamento in re, nella realtà. Su 62 amministrazioni provinciali che sono andate al voto, il centrodestra ne ha conquistate 26 al primo turno, strappandone ben 15 al centrosinistra, che ne ha confermate soltanto 14 (ne governava 50). Nelle rimanenti 22 si andrà al ballottaggio fra quindici giorni. Cambiano colore politico alcune roccaforti della gauche italiana come Piacenza e Macerata. E poi Napoli, Bari, Salerno. Al nord Cremona, Lecco, Lodi, Biella, Novara, Verbano-Cusio-Ossola. In Abruzzo Chieti, Pescara, Teramo. E infine Avellino. Per quanto riguarda le comunali, il centrodestra strappa al centrosinistra Bergamo e Pavia, Biella e Verbania, Pescara, Campobasso, e manda al ballottaggio i bastioni rossi di Bologna, Firenze e Prato, oltre a Ferrara, Ancona e Padova, tra gli altri. In totale, su 30 città capoluogo di provincia, il centrodestra ne conquista 9, di cui 6 amministrate dal centrosinistra, che ne conferma soltanto 5 delle 25 che governava. I ballottaggi saranno 16. Sono numeri che parlano da soli. E che ancor più parleranno da soli quando i dati aggregati mostreranno in tutta la sua portata il crollo verticale del centrosinistra, e in particolar modo del Pd, nel gradimento dei cittadini.
Avevamo scritto su queste pagine, qualche tempo fa, che le elezioni amministrative avrebbero potuto ridisegnare la mappa del potere in molte aree della Penisola «spostando, in diverse zone del paese, il pendolo da sinistra a destra e consegnando nelle mani dell'alleanza Pdl-Lega, saldamente al comando sul piano del governo nazionale, le chiavi anche di buona parte dei governi territoriali». E affermavamo che era quindi sulle provinciali e sulle comunali che bisognava tener desta l'attenzione, ben più che sulle europee. Perché «una buona performance del centrodestra e un corrispondente arretramento del centrosinistra proprio su quello che da sempre è un suo terreno di conquista - le amministrazioni locali - significherebbe che la crescita dell'alleanza Popolo della Libertà-Lega Nord non rappresenta più una folata occasionale di "vento di destra", ma è il frutto di un robusto e profondo processo politico in atto in Italia, da nord a sud». Questa previsione si è rivelata fondata.
Il voto europeo è stato, come al solito, il puro voto proporzionale e di opinione, la scelta di un partito per la composizione del parlamento di Strasburgo; quello amministrativo è stato la scelta tra due schieramenti e tra due modelli di governo. Se la prima consultazione è stata avvertita come la chiamata alle urne per un'istituzione che spesso viene ancora percepita come lontana, la seconda, come testimoniato dall'affluenza molto più elevata, è stata sentita come la scelta per qualche cosa che riguarda da vicino la vita quotidiana dei cittadini. Insomma, quando il gioco si è fatto duro, i duri sono entrati in gioco. Col seguente risultato: il centrodestra si radica in maniera sostanziale sul territorio, anche con significative incursioni nella «zona rossa» del paese, mentre al centrosinistra non resta che tentare di rimettere insieme i cocci di un potere che va in frantumi sotto il peso della crisi interna della gauche e della crescente forza egemonica di un'alleanza che funziona.
Gianteo Bordero
martedì 9 giugno 2009
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