venerdì 27 agosto 2010

L'ULIVISMO È LA CAUSA (NON IL RIMEDIO) DEI MALI DELLA SINISTRA

da Ragionpolitica.it del 27 agosto 2010

Quando manca la «cosa», cioè la sostanza, rimangono i nudi nomi. Ed ecco allora che il segretario del Pd, un partito che già da lunga pezza ha divorziato dalla politica e si presenta oggi come un puro aggregato della nomenklatura di Ds e Margherita, tira fuori dal cassetto impolverato della memoria del centrosinistra la parola magica. Quella che dovrebbe, per il fatto stesso di essere pronunciata, risolvere di colpo i giganteschi problemi della gauche nostrana: Ulivo. Cinque lettere che nell'immaginario collettivo del popolo di sinistra vogliono dire la vittoria del '96, l'aprile rosso raccontato da Nanni Moretti, le piazze stracolme di bandiere e di gente festante, i post-comunisti che conquistano il potere, il sogno di una lunga e indisturbata stagione di governo. E soprattutto vogliono dire Romano Prodi, il padre di quell'esperienza politico-botanica che tanta nostalgia suscita ancora nell'ormai disilluso elettorato di sinistra.


Già, Prodi. Come poteva il discepolo di Dossetti, cioè di colui che fece dell'Ulivo una cultura e una coltura politica piantandone uno beneaugurante nelle terre del suo ritiro di Montesole, rimanere silente di fronte alla missiva del segretario del Pd? Non poteva. E infatti il Professore ha preso carta e penna e ha scritto al Messaggero per rallegrarsi del fatto che finalmente, dopo 12 anni, l'ulivismo venga nuovamente proposto come stella polare per tracciare la rotta del centrosinistra che verrà. Scrive Prodi: «Dal 1998 la coltura dell'Ulivo è stata ritenuta non più remunerativa per il riformismo italiano ed è progressivamente scomparsa dai registri della nostra politica. Mi ha destato quindi una piacevole sorpresa leggere che Bersani ha deciso di riprenderne la coltivazione, facendone un punto di riferimento per rimettere in ordine i registri dell'azienda italiana, messi in grave difficoltà dalle male organizzate tecniche agrarie succedutesi nel frattempo».


Punto e fine. Proposte concrete? Zero. Idee programmatiche? Nessuna. Una visione dell'Italia? Idem con patate. Tanto per Bersani quanto per Prodi basta dire la taumaturgica parolina e tutto viene da sé. Che cosa sia poi precisamente questo nuovo Ulivo non è dato saperlo, e forse nessuno lo saprà mai, visto che qui ci muoviamo nel campo del più radicale nominalismo, l'unico appiglio a cui oggi la sinistra si può aggrappare per evitare di fare i conti col suo vuoto identitario, con il suo non-essere politico, con la crisi nella quale è sprofondata in questi ultimi anni. Dire «Ulivo» è l'estremo tentativo di scacciare l'horror vacui che alberga nella mente di tanti esponenti del Pd e degli altri partiti della gauche italiana.


Ma la soluzione, in questo come in tanti altri casi, è peggiore del male. Anzi, potremmo dire che, a ben vedere, Bersani pensa di curare il male con il male stesso. Come non riconoscere, infatti, che proprio l'ulivismo è stato, con i suoi presupposti di fondo, all'origine della consunzione politica della sinistra e della sua riduzione a mero aggregato di forze tenute insieme soltanto dall'antiberlusconismo? Ha scritto don Gianni Baget Bozzo nel suo saggio su Giuseppe Dossetti: «Che cosa rappresentava nel '96 Romano Prodi, se non l'uomo indicato da Dossetti, cioè da colui che aveva, con la sua autorità spirituale, delegittimato la nuova maggioranza berlusconiana del '94 e indicato nella lotta contro di essa il fondamento del paese? Era stato il dossettismo a creare le basi di una nuova guerra civile italiana: quella tra una maggioranza democratica, votata dal popolo, e la Costituzione repubblicana... Dossetti riuscì a dare vita ad una maggioranza politica fondata sul principio che forze anticostituzionali erano in parlamento e che la Costituzione doveva difendere la democrazia dando vita ad un partito fondato su di essa. L'Ulivo fu appunto questo». E concludeva: «L'Ulivo voleva dire che dalla terra nasceva ora un nuovo germe, che era la medesima cosa dell'unità popolare originaria contro il fascismo».


L'eco di questa prospettiva si sente chiaramente in molti passaggi della lettera di Bersani, soprattutto quando egli parla della necessità di dare vita ad una «alleanza democratica capace di riaffermare i principi costituzionali» per fermare la deriva «populista» del presidente del Consiglio. Ma se almeno Prodi aveva dalla sua, nel '96, la carta della novità, non si capisce perché oggi Bersani, dopo che la formula delle macchine da guerra in mera funzione antiberlusconiana si è rivelata fallimentare e ha mostrato tutte le sue esiziali conseguenze per la sinistra stessa, la riproponga come se essa fosse foriera di magnifiche sorti e progressive per il Pd & CO. L'unica spiegazione possibile è che questa del segretario sia veramente la mossa della disperazione tipica di chi ha perduto la rotta e non sa più da che parte andare.

Gianteo Bordero

martedì 24 agosto 2010

IL FALSO MITO DEL PRESIDENTE «NOTAIO»

da Ragionpolitica.it del 24 agosto 2010

E' curioso che molti di coloro che accusano Berlusconi di coltivare progetti anti-democratici ed eversivi sol perché egli insiste sulla necessità di dare al governo italiano gli stessi poteri che agli esecutivi sono garantiti nei regimi parlamentari classici, difendano poi a spada tratta i grandi poteri di un'istituzione che, così com'è costituzionalmente strutturata, fa assomigliare il nostro sistema - come ha osservato Piero Ostellino sul Corriere della Sera del 23 agosto - alle «monarchie costituzionali dell'Ottocento, quando il re aveva l'ultima parola e la democrazia rappresentativa faceva i primi passi». Stiamo parlando della presidenza della Repubblica, un'istituzione che solo qualche ideologo in malafede o qualche sprovveduto in diritto costituzionale può definire come «notarile», e che invece gode di poteri ben più ampi di quelli che la Carta del '48 riserva allo stesso governo.


Basta leggere il testo costituzionale per rendersene conto: il presidente della Repubblica è «capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale» (art. 86); «autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del governo» (art. 87); «promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti» (art. 87); «prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione» (art. 74). E ancora: «Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere» (art. 87); «presiede il Consiglio superiore della magistratura»; «può concedere grazia e commutare le pene» (art. 87). E infine, ma non ultimo: «Può, sentiti i loro presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse» (art. 88); «nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri» (art. 92). Può convocare le Camere in via straordinaria (art. 62). Nomina un terzo dei giudici della Corte costituzionale (art. 135).


Se a questi poteri codificati dalla Costituzione si aggiungono quelli che col tempo si sono stratificati nella prassi, ne esce un quadro che ancor più difficilmente può essere definito «notarile». Si prenda, ad esempio, la consuetudine - non prevista dalla Carta - delle consultazioni in vista della nomina del governo. Come osserva Fausto Cuocolo nel suo Principi di diritto costituzionale, «il ruolo delle consultazioni ha assunto talora significati più ampi» di quelli iniziali, «non limitandosi il capo dello Stato ad ascoltare leaders di partito o capigruppo parlamentari, ma estendendo la sua attività ricognitiva a personalità tecniche, particolarmente in campo economico-finanziario... Il che sembra indicare che nella fase preparatoria del procedimento formativo del governo il ruolo del capo dello Stato non è meramente di registrazione, ma si spinge nel merito dei problemi». Per non parlare dell'altro istituto consuetudinario dell'incarico, dove la discrezionalità delle scelte del presidente è ancor più evidente: «La libertà di scelta - scrive ancora Cuocolo - è tanto più ampia quanto più variabili possono essere le maggioranze alternative eventualmente realizzabili in sede parlamentare». Ricordiamo che qui stiamo parlando di prassi e di atti non delineati dal testo del '48: ne dovrebbero tener conto tutti coloro che storcono il naso e gridano al regime ogni qual volta gli esponenti del centrodestra invocano la «Costituzione materiale» a proposito dei poteri del governo, e che tacciono compiaciuti quando invece la stessa «Costituzione materiale» riguarda l'ampliamento delle «prerogative» del presidente della Repubblica. Uno strabismo sospetto, quando non ipocrita.


La verità che in molti stentano ad ammettere, per motivi vuoi ideologici e culturali, vuoi più spesso di contingenza politica, è che un inquilino del Quirinale che esercitasse fino in fondo ed incisivamente i poteri previsti dalla Costituzione, e restasse fedele alle prassi che si sono affermate col tempo, non potrebbe non essere riconosciuto a tutti gli effetti come il principale protagonista della vita politica del paese, come il decisore ultimo, sopra le parti non nel senso della terzietà, ma nel senso della superiorità. E' già accaduto in passato, può accadere ancora a Costituzione invariata.


Ora, questa dotazione di poteri e prerogative non rappresenterebbe un problema se fossimo in un regime presidenziale o semi-presidenziale, nel quale il presidente viene eletto direttamente dal popolo e gode quindi dell'investitura dei cittadini. Ma così non è in Italia, dove vige ancora un sistema parlamentare (assembleare?) ed il capo dello Stato viene votato non dal popolo, ma dai suoi rappresentanti. I quali, tra l'altro, non avendo «vincolo di mandato», possono al limite muoversi anche contro la stessa volontà di chi li ha eletti.


Delle due l'una: o si sceglie di evolvere anche formalmente verso il presidenzialismo o il semi-presidenzialismo, sul modello americano o francese, oppure si realizza un vero e classico regime parlamentare sul modello inglese, dove - come ha osservato ancora Ostellino - il capo dello Stato (la Corona) «non mette naso nelle leggi che il primo ministro gli porta a firmare. Tanto meno va alla ricerca, in parlamento, di un'altra maggioranza se il primo ministro ha perso la sua, perché l'ipotesi di un governo non eletto dal popolo non è neppure prevedibile». L'attuale sistema italiano è un ibrido mal riuscito, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

Gianteo Bordero

lunedì 23 agosto 2010

SESTRI LEVANTE. IL "CASO BALIN" E LE AGGHIACCINTI DICHIARAZIONI DI UN ESPONENTE DEL PD

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE

GIANTEO BORDERO

CAPOGRUPPO CONSILIARE DE “IL POPOLO DELLA LIBERTÀ - LEGA NORD”


COMUNICATO STAMPA DEL 23 AGOSTO 2010


Sono a dir poco agghiaccianti le dichiarazioni del consigliere provinciale del Pd ed ex assessore a Sestri Levante, Mariangela Milanta, in merito alla possibilità che il Balin, storico locale della Bimare e fiore all’occhiello dell’offerta commerciale e turistica della città, chiuda i battenti a causa del nuovo contratto d’affitto troppo oneroso per i gestori. La Milanta, che tra le altre cose figura tra i proprietari del Balin, ha affermato su un quotidiano locale che, qualora i gestori non riuscissero a sostenere il nuovo canone di locazione e fossero costretti a gettare la spugna, “i giovani troveranno un altro bar, il Balin non è l’unico. Se la cifra chiesta non sarà accettata, lasceremo il locale chiuso per un po’ e avremo più silenzio”. Come dire: se il Balin chiude, poco male. Anzi: meglio, visto che nella mentalità dell’ex assessore ai Servizi Sociali il bar ed i suoi clienti sono evidentemente da ritenersi una fonte di disturbo.


Che cosa ne pensano delle dichiarazioni della Milanta l’assessore al Commercio, Enrico Pozzo, ed il sindaco Andrea Lavarello? Ne condividono la logica, secondo cui se le attività commerciali del centro storico chiudono la quiete ci guadagna? Attendiamo una pronta risposta da parte dei rappresentanti della Giunta, che solitamente amano riempirsi la bocca di “turismo” e “sviluppo”, ma che forse dovrebbero innanzitutto mettersi d’accordo con gli altri esponenti della loro parte politica, come la Milanta, la quale sembra pensarla in modo opposto al loro. Vogliono un centro storico deserto e muto? Se non è così, lo dimostrino con i fatti e non soltanto a parole. Mettano in campo iniziative concrete e non solo trovate estemporanee.

Da parte nostra, porremo all’attenzione del prossimo Consiglio Comunale una mozione sulla situazione del centro città, anche alla luce dell’allarme sulle difficoltà del commercio lanciato dal presidente dell’Ascom sestrese, Ermes Paterlini. In quella sede proporremo alla Giunta alcuni provvedimenti che, se adottati, potrebbero dare un po’ di respiro a coloro che, con la loro attività e la loro intrapresa, fanno sì che il centro storico viva e non assomigli ancora al triste luogo in cui il silenzio è davvero sovrano.

Gianteo Bordero

venerdì 20 agosto 2010

SPETTACOLO "IL GALLO, LA LUNA E LA PAURA" - BACKSTAGE

Ecco alcune foto del backstage dello spettacolo "Il gallo, la luna e la paura", messo in scena dall'Associazione Culturale Ultreїa a Sestri Levante il 19 agosto 2010.



















mercoledì 18 agosto 2010

SESTRI LEVANTE. ANCORA DELUDENTI I DATI SULLA RACCOLTA DIFFERENZIATA

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE
GRUPPO CONSILIARE “IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – LEGA NORD”


COMUNICATO STAMPA DEL 18 AGOSTO 2010


Ancora una volta i dati ufficiali relativi alla raccolta differenziata smentiscono gli annunci e i proclami della Giunta Lavarello, che si dimostra totalmente inadeguata a mettere in campo una politica ambientale degna di tal nome. Dal 2008 al 2009, infatti, la percentuale di differenziata è scesa dal 24,35% al 23,44%, confermando la tendenza negativa degli ultimi anni. Aumentano dunque i rifiuti conferiti nella discarica comunale di Ca’ da Matta (da 10.046 a 10.094 tonnellate) e diminuiscono quelli destinati all’Ecocentro di Bargone (da 3.233 a 3.090 tonnellate). Mentre i Comuni limitrofi fanno registrare significativi passi in avanti, Sestri Levante, a causa dell’incapacità amministrativa dell’attuale Giunta, continua ad arretrare.


Ricordiamo che, tra le altre cose, la gestione dei rifiuti è non soltanto il caposaldo di una politica ambientale di qualità, ma anche uno dei criteri fondamentali in base ai quali viene assegnata, ogni anno, la Bandiera Blu, un riconoscimento internazionale che di per se stesso dà lustro alla città e crea un rilevante indotto turistico. Al contrario degli altri Comuni del Tigullio, che si sono dimostrati capaci di adottare serie ed organiche scelte finalizzate ad ottenere il certificato di qualità ambientale, Sestri Levante, sotto la guida della Giunta Lavarello, è rimasta ferma al palo. Anzi, ha fatto preoccupanti passi indietro.


Tutto questo è accaduto - è importante sottolinearlo - dopo il forte aumento della tassa sui rifiuti dell’anno 2009, a cui i dati sulla differenziata si riferiscono. Tale aumento, evidentemente, è servito soltanto per fare cassa e non per mettere in atto quella svolta nello smaltimento dei rifiuti che il nostro gruppo chiede ormai da molto tempo e che i deludenti numeri ufficiali rendono ancora più urgente. E’ necessario passare dalla politica delle chiacchiere a quella dei fatti.


Gianteo Bordero (capogruppo)

Marco Conti

Giancarlo Stagnaro

VACANZE TOSCANE 2010

lunedì 9 agosto 2010

LO «STRAPPO BIOETICO» DEI FINIANI

da Ragionpolitica.it del 9 agosto 2010

Giurano che loro si atterranno al programma di governo presentato agli elettori nell'aprile 2008, ma poi, alla prova dei fatti, dimostrano l'esatto contrario. E' già accaduto negli scorsi mesi sui temi dell'immigrazione e della giustizia, e accade di nuovo oggi sulle questioni bioetiche. I finiani, per bocca del vice capogruppo alla Camera di Futuro e Libertà, l'onorevole Benedetto Della Vedova, annunciano una iniziativa per «riprendere in mano il tema di una legge civile sulle coppie di fatto anche gay, senza confinarlo nella maggioranza ma allargandolo a tutte le forze parlamentari». Ma non finisce qui. Perché, sempre secondo Della Vedova, è necessario apportare modifiche anche alla legge sulla procreazione assistita votata dal centrodestra nel 2004, definita «assurda» dall'ex radicale e oggi deputato finiano. Infine, per completare il tutto, ecco la proposta di un «disarmo bilaterale» in materia di testamento biologico, visto che il Popolo della Libertà «ha prodotto solo proposte confessionali su questo tema».


Niente di nuovo sotto il sole, si dirà. Queste non sono soltanto le posizioni di Della Vedova, ma anche quelle espresse a più riprese, negli anni scorsi, dall'onorevole Fini, che non ha mai nascosto la propria idiosincrasia per l'approccio del centrodestra alle questioni bioetiche. Basti ad esempio ricordare la scelta - peraltro molto contestata all'interno del suo partito - dell'allora capo di Alleanza Nazionale in merito al referendum sulla fecondazione assistita del 2005, in occasione del quale egli decise, in nome di una non ben definita idea di «laicità», di appoggiare i quesiti che puntavano a scardinare l'impianto della normativa varata dalla Casa delle Libertà. Una normativa che - ricordiamolo - non vietava il ricorso alle tecniche procreative medicalmente assistite, ma ne disciplinava in modo rigoroso le condizioni e le modalità. Dunque, non un provvedimento «confessionale», al punto che l'allora presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, pur considerandola una sorta di «male minore» ed invitando per questo i credenti all'astensione referendaria, disse chiaramente che non si trattava di una «legge cattolica».


Se quindi, per un verso, le proposte di Fini e dei finiani in materia bioetica non rappresentano una novità, per un altro verso è evidente che il rimetterle in campo oggi - in un momento così delicato per le sorti della legislatura e dopo l'annuncio del presidente del Consiglio di una mozione programmatica sulla quale chiedere la fiducia del parlamento alla ripresa settembrina - rivela una chiara volontà di rottura che fa a pugni con le dichiarazioni di fedeltà al centrodestra e al mandato ricevuto dagli elettori due anni e mezzo fa. Dissotterrare la questione delle coppie di fatto, della fecondazione assistita, del testamento biologico in un frangente come quello attuale significa infatti cercare un pretesto per prendere ancora una volta le distanze dalla maggioranza: l'ennesima mossa tattica nascosta sotto la solita giustificazione del «dibattito culturale» e dell'espressione del «legittimo dissenso».


Certi temi, proprio per la loro rilevanza, per la loro delicatezza e per i loro risvolti etici, andrebbero affrontati nei modi e nei tempi opportuni, con un confronto degno di tal nome, e non dovrebbero essere utilizzati strumentalmente come la quotidiana occasione per differenziarsi, per mostrarsi diversi, infine per prendersi gli applausi della sinistra e di tutti i media politicamente corretti. Un'operazione di piccolo cabotaggio che contrasta con la grandezza delle questioni sul tappeto.


A questo proposito ci piace ricordare, proprio per il loro valore di coraggiosa opposizione alla politically correctness, le parole pronunciate dal presidente del Consiglio durante la conferenza stampa con la quale, nei tragici giorni che portarono alla morte di Eluana Englaro, annunciò il decreto del governo volto a salvare la vita della giovane donna - decreto poi respinto dal capo dello Stato: «Se non avessimo prodotto ogni sforzo nelle nostre possibilità per evitare la morte di una persona che è in pericolo di vita e che non è in morte cerebrale, ma è una persona che respira in modo autonomo, una persona viva, le cui cellule cerebrali sono vive, una persona in uno stato vegetativo che potrebbe variare come diverse volte si è visto, io, dal mio punto di vista personale, rispondendo alla mia coscienza, mi sentirei responsabile di un'omissione di soccorso nei confronti di una persona in pericolo di vita». La decisione di Berlusconi, accompagnata da queste sue parole, ha segnato lo spartiacque tra il «dibattito culturale» astratto e l'azione concreta in favore della vita e a sua difesa, divenuta parte del Dna del Popolo della Libertà. Rimarcare oggi le posizioni opposte - per di più, come abbiamo visto, come mero tatticismo - vuol dire certificare la propria rottura tanto con l'azione di governo del Pdl quanto con i suoi fondamenti culturali. Basterebbe riconoscerlo con chiarezza ed agire di conseguenza, senza ulteriori indugi finalizzati soltanto a guadagnare tempo per sé facendolo perdere al governo e alla maggioranza votata dai cittadini.

Gianteo Bordero

venerdì 6 agosto 2010

IL CLN DI BERSANI È FIGLIO DELL'ODIO E DEL NICHILISMO POLITICO

da Ragionpolitica.it del 6 agosto 2010

Senza politica, senza identità, senza progettualità. Senza l'abc che costituisce il fondamento di ogni partito degno di tal nome. Tenuto in piedi soltanto da un'ossessione: Silvio Berlusconi. Questo è il Pd oggi. Il Pd di Pierluigi Bersani e di Rosy Bindi, che sui giornali si dichiarano disponibili a tutto e pronti a qualsiasi alleanza pur di abbattere il nuovo tiranno. «Dobbiamo liberarci di Berlusconi, per questo non vado troppo per il sottile e mi rivolgo a tutti», dice senza tanti giri di parole il segretario a Repubblica. «Personalmente non avrei preclusioni verso nessuno, da Fini a Di Pietro, a Vendola», aggiunge la pasionaria della Val di Chiana intervistata da La Stampa.


Ed eccolo, dunque, il nuovo Comitato di Liberazione Nazionale auspicato dai vertici del Partito Democratico: una grande ammucchiata pseudo-resistenziale che tenga dentro chiunque abbia un motivo di risentimento, di rabbia, di odio nei confronti del Cavaliere Nero. Chiunque abbia intenzione di «normalizzare» lo scenario italiano eliminando dal panorama politico la cosiddetta «anomalia berlusconiana».


Secondo questa prospettiva, l'uomo di Arcore non va sconfitto democraticamente, cioè attraverso il voto dei cittadini, partendo da una proposta alternativa fatta di contenuti culturali, di programmi di governo, di diversi progetti politici. No. Egli va rimosso dalla scena in nome di una negatività assoluta, di un disprezzo ontologico totale e di una conseguente volontà distruttrice. Che cosa vi sia alla base di questa visione - se così possiamo chiamarla - è presto detto: un nichilismo politico che talvolta oltrepassa gli steccati divisori degli schieramenti, e che è potenzialmente in grado di tenere insieme quelli che a prima vista potrebbero apparire come uomini e storie opposti e incompatibili, ma che in realtà sono accomunati dall'incapacità di dare vita a proposte positive di governo dopo la fine delle ideologie novecentesche e delle grandi narrazioni che, nel bene e nel male, avevano costituito l'ossatura della politica italiana nel secolo passato.


Conseguenza diretta di questo nichilismo è una concezione del potere autoreferenziale e fine a se stessa, in cui di fatto scompare - anche se viene evocato a parole - ogni riferimento agli interessi vitali della nazione, sostituito da un frenetico tatticismo di palazzo che nulla di buono produce per il Paese. Questa idea del potere si manifesta, ad esempio, nelle manovre per dare vita a governi che non tengano in alcun conto la volontà popolare espressa in libere elezioni, ma che garantiscano comunque la sopravvivenza di pezzi del ceto politicante che da tempo non godono più della fiducia e del consenso degli elettori. E poco importa se è la tanto evocata Costituzione a stabilire che in Italia «la sovranità appartiene al popolo»: il gorgo nichilista tutto inghiotte, tutto dimentica, tutto calpesta. Rimane soltanto il potere per il potere e la lotta disperata per ottenerlo.


Alla luce di tutto ciò, non esagera il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, quando afferma che le parole pronunciate dal segretario del Partito Democratico a proposito della necessità di «liberarsi di Berlusconi» non soltanto sono inaccettabili, ma contengono in sé una «inaudita violenza». Perché la violenza è uno sbocco sempre possibile del nichilismo e dell'odio, del disprezzo totale di una realtà che va in direzione opposta ai propri desideri. Credevamo, dopo le gesta di Tartaglia, di esserci lasciati il peggio alle spalle. Forse non è così.

Gianteo Bordero

martedì 3 agosto 2010

«FAMIGLIA CRISTIANA» O «FAMIGLIA GIUSTIZIALISTA»?

da Ragionpolitica.it del 3 agosto 2010

Famiglia Cristiana non si smentisce mai. Anche stavolta si è allineata senza tanti scrupoli al luogocomunismo dell'intellighenzia di sinistra e dei suoi media di riferimento. Che al settimanale dei Paolini il governo Berlusconi non piacesse è una cosa nota ormai da tempo: basti ricordare, ad esempio, il trattamento riservato alle politiche dall'attuale esecutivo in materia di contrasto all'immigrazione clandestina, che valsero al presidente del Consiglio e al ministro dell'Interno la scomunica di Famiglia Cristiana in quanto nuovi fascisti e calpestatori dei fondamentali diritti dell'uomo. O si pensi, ancora, all'altro anatema scagliato contro Berlusconi nel pieno della tempesta scatenata dal caso D'Addario: la rivista paolina, in scia de La Repubblica e degli altri organi ufficiali del moralismo un tanto al chilo e a senso unico, allestì il suo bel rogo di carta per i «comportamenti gaudenti e libertini» del premier, con i quali egli - così recitava la sentenza - aveva superato «il limite della decenza». Capirai. A parlare dal pulpito era un settimanale che dovrebbe essere il baluardo di una lettura cattolica delle vicende umane e che invece, per anni, si è fatto portatore di posizioni non propriamente ortodosse e non certo fedeli al magistero papale proprio in materia di dottrina morale, divenendo, anziché lume del mondo come auspica il Vangelo, paralume della mentalità dominante veicolata da coloro che vorrebbero vedere la Chiesa e la sua tradizione morire soffocate sotto il peso del cosiddetto «progresso».


Incurante di ciò, oggi Famiglia Cristiana torna alla carica sempre contro di lui, Berlusconi, evidentemente considerato come l'icona del Male assoluto che infetta una società altrimenti sana sotto la guida dei sacri principi indicati dai vari Scalfari, Ezio Mauro e compagnia repubblicante. Santi subito. Stavolta il premier e il suo governo entrano nel mirino dei Paolini da un lato in seguito alle recenti inchieste sulla fantomatica - per usare un eufemismo - «nuova P3» e, dall'altro, per la vicenda della rottura con Fini. Il quadro che ne emergerebbe, secondo la rivista, è per un verso quello di un «disastro etico (generalizzato, ndr) sotto gli occhi di tutti» e, per l'altro, quello di «una concezione padronale dello Stato» che «ha ridotto ministri e politici in "servitori", semplici esecutori dei voleri del capo». Sembra di leggere l'Unità, il Manifesto o Liberazione. Quando si dice l'autonomia di giudizio... La conclusione è che, sia dal punto di vista etico che da quello politico, l'Italia si ritroverebbe ormai sull'orlo del baratro, se non già oltre. «Poco importa - sentenzia infatti Famiglia Cristiana - che il paese vada allo sfascio».


E tutto questo per colpa di chi? Ovviamente del Cavaliere Nero. Il quale - così ci ha detto per anni la rivista paolina - prima con le televisioni commerciali ha scardinato il tessuto di «valori» sui quali si reggeva la società italiana nell'era pre-berlusconiana, e poi, con la sua «discesa in campo», si è fatto paladino di uno «sbandierato garantismo» - leggiamo oggi - che in realtà è «troppo spesso pretesa di impunità totale», chiaramente «a favore dei potenti». E anche «l'appello alla legittimazione del voto popolare», a cui si richiama spesso il presidente del Consiglio, non può essere un «lasciapassare all'illegalità».


Complimenti davvero. Se continua di questo passo, il giornale paolino potrebbe candidarsi a diventare l'allegato settimanale al Fatto Quotidiano di Travaglio o la rivista ufficiale dell'Italia dei Valori. Dalla famiglia cristiana alla famiglia giustizialista il passo, in questo caso, è breve. L'impressione è che, invece di fornire un'immagine reale ancorché problematica dell'Italia e degli italiani, il settimanale paolino si accodi acriticamente e sciattamente alla più scontata, trita e ritrita leggenda nera su Berlusconi, mostrando così, come ha osservato il ministro Sandro Bondi, un «vuoto di analisi culturale sia sul ruolo della Chiesa che sul futuro dell'Italia». Questo non è un buon servizio reso a quelle «famiglie cristiane» a cui esso si rivolge. Forse i Paolini non si accorgono che, così facendo, dimostrano di disprezzare, assieme a Berlusconi, anche tutti gli italiani che lo votano. E, tra questi, anche tanti cattolici.

Gianteo Bordero