martedì 24 agosto 2010

IL FALSO MITO DEL PRESIDENTE «NOTAIO»

da Ragionpolitica.it del 24 agosto 2010

E' curioso che molti di coloro che accusano Berlusconi di coltivare progetti anti-democratici ed eversivi sol perché egli insiste sulla necessità di dare al governo italiano gli stessi poteri che agli esecutivi sono garantiti nei regimi parlamentari classici, difendano poi a spada tratta i grandi poteri di un'istituzione che, così com'è costituzionalmente strutturata, fa assomigliare il nostro sistema - come ha osservato Piero Ostellino sul Corriere della Sera del 23 agosto - alle «monarchie costituzionali dell'Ottocento, quando il re aveva l'ultima parola e la democrazia rappresentativa faceva i primi passi». Stiamo parlando della presidenza della Repubblica, un'istituzione che solo qualche ideologo in malafede o qualche sprovveduto in diritto costituzionale può definire come «notarile», e che invece gode di poteri ben più ampi di quelli che la Carta del '48 riserva allo stesso governo.


Basta leggere il testo costituzionale per rendersene conto: il presidente della Repubblica è «capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale» (art. 86); «autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del governo» (art. 87); «promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti» (art. 87); «prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione» (art. 74). E ancora: «Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere» (art. 87); «presiede il Consiglio superiore della magistratura»; «può concedere grazia e commutare le pene» (art. 87). E infine, ma non ultimo: «Può, sentiti i loro presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse» (art. 88); «nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri» (art. 92). Può convocare le Camere in via straordinaria (art. 62). Nomina un terzo dei giudici della Corte costituzionale (art. 135).


Se a questi poteri codificati dalla Costituzione si aggiungono quelli che col tempo si sono stratificati nella prassi, ne esce un quadro che ancor più difficilmente può essere definito «notarile». Si prenda, ad esempio, la consuetudine - non prevista dalla Carta - delle consultazioni in vista della nomina del governo. Come osserva Fausto Cuocolo nel suo Principi di diritto costituzionale, «il ruolo delle consultazioni ha assunto talora significati più ampi» di quelli iniziali, «non limitandosi il capo dello Stato ad ascoltare leaders di partito o capigruppo parlamentari, ma estendendo la sua attività ricognitiva a personalità tecniche, particolarmente in campo economico-finanziario... Il che sembra indicare che nella fase preparatoria del procedimento formativo del governo il ruolo del capo dello Stato non è meramente di registrazione, ma si spinge nel merito dei problemi». Per non parlare dell'altro istituto consuetudinario dell'incarico, dove la discrezionalità delle scelte del presidente è ancor più evidente: «La libertà di scelta - scrive ancora Cuocolo - è tanto più ampia quanto più variabili possono essere le maggioranze alternative eventualmente realizzabili in sede parlamentare». Ricordiamo che qui stiamo parlando di prassi e di atti non delineati dal testo del '48: ne dovrebbero tener conto tutti coloro che storcono il naso e gridano al regime ogni qual volta gli esponenti del centrodestra invocano la «Costituzione materiale» a proposito dei poteri del governo, e che tacciono compiaciuti quando invece la stessa «Costituzione materiale» riguarda l'ampliamento delle «prerogative» del presidente della Repubblica. Uno strabismo sospetto, quando non ipocrita.


La verità che in molti stentano ad ammettere, per motivi vuoi ideologici e culturali, vuoi più spesso di contingenza politica, è che un inquilino del Quirinale che esercitasse fino in fondo ed incisivamente i poteri previsti dalla Costituzione, e restasse fedele alle prassi che si sono affermate col tempo, non potrebbe non essere riconosciuto a tutti gli effetti come il principale protagonista della vita politica del paese, come il decisore ultimo, sopra le parti non nel senso della terzietà, ma nel senso della superiorità. E' già accaduto in passato, può accadere ancora a Costituzione invariata.


Ora, questa dotazione di poteri e prerogative non rappresenterebbe un problema se fossimo in un regime presidenziale o semi-presidenziale, nel quale il presidente viene eletto direttamente dal popolo e gode quindi dell'investitura dei cittadini. Ma così non è in Italia, dove vige ancora un sistema parlamentare (assembleare?) ed il capo dello Stato viene votato non dal popolo, ma dai suoi rappresentanti. I quali, tra l'altro, non avendo «vincolo di mandato», possono al limite muoversi anche contro la stessa volontà di chi li ha eletti.


Delle due l'una: o si sceglie di evolvere anche formalmente verso il presidenzialismo o il semi-presidenzialismo, sul modello americano o francese, oppure si realizza un vero e classico regime parlamentare sul modello inglese, dove - come ha osservato ancora Ostellino - il capo dello Stato (la Corona) «non mette naso nelle leggi che il primo ministro gli porta a firmare. Tanto meno va alla ricerca, in parlamento, di un'altra maggioranza se il primo ministro ha perso la sua, perché l'ipotesi di un governo non eletto dal popolo non è neppure prevedibile». L'attuale sistema italiano è un ibrido mal riuscito, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

Gianteo Bordero

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