lunedì 24 maggio 2010

«IL RELATIVISMO INDEBOLISCE LA DEMOCRAZIA», DICE BENEDETTO XVI

da Ragionpolitica.it del 24 maggio 2010

C'è un pensiero ricorrente nelle meditazioni di Benedetto XVI sul tema della politica, della democrazia e del rapporto tra questa e i «valori». Un pensiero che il Papa ha esplicitato, da ultimo, nel suo intervento dello scorso venerdì all'assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i laici: nei tempi attuali - ha detto - «il diffondersi di un confuso relativismo culturale e di un individualismo utilitaristico ed edonista indebolisce la democrazia e favorisce il dominio dei poteri forti».


Per approfondire il significato di questa affermazione può essere utile riprendere quanto l'allora cardinale Ratzinger scrisse in un articolo intitolato «Il significato dei valori religiosi e morali nella società pluralistica», pubblicato nel 1992 dalla rivista cattolica internazionale Communio. E' interessante, ai fini del nostro discorso, soprattutto la prima parte del testo, quella in cui l'ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede tenta di rovesciare uno dei luoghi comuni della moderna filosofia politica: quello secondo cui il relativismo è un presupposto necessario della democrazia. Una convinzione, questa, che ha preso sempre più campo dopo il crollo dei sistemi totalitari novecenteschi, dopo la fine delle utopie trasformatesi in tragedie per l'umanità, dopo che le grandi narrazioni ideologiche del secolo ventesimo si sono rivelate incapaci di fondare sistemi politici in cui fosse davvero garantita la libertà dell'individuo.


Qui - si badi - non è in alcun modo in discussione la bontà della democrazia in luogo delle dittature e di regimi oppressivi, bensì il corollario secondo il quale la democrazia, per essere veramente tale, deve rinunciare ad ogni discorso sulla verità, in quanto ogni affermazione veritativa assoluta rappresenterebbe per ciò stesso un pericoloso scivolamento verso la tirannia e un intralcio al dispiegamento della libertà individuale. Certo - scrive Ratzinger - è inevitabile che nelle moderne democrazie esista una «certa tensione» tra libertà e verità, ma pensare di risolvere il problema cancellando uno dei termini in gioco non è certo il modo più saggio di procedere. Dice il relativista: se la verità esiste, ognuno ha la sua, che ha il medesimo valore di quella dell'altro. Quindi, affermarne o riconoscerne una in particolare sarebbe ipso facto un atto di violenza. La questione, fatta uscire così dalla porta, rientra però prepotentemente dalla finestra ogni volta che le istituzioni democratiche si trovano a dover fare i conti con la necessità di legiferare su materie nelle quali più si fa sentire lo scontro tra differenti visioni della vita e dei valori presenti nella società. E qui ripetere il solito ritornello relativista non basta, anzi potrebbe essere controproducente.


E allora, guardando meglio, «bisogna chiedersi se anche nella democrazia non debba esistere un nucleo non relativistico». Ad esempio: i diritti umani inviolabili. Non è forse vero che la democrazia «è costruita intorno ad essi»? E «non è proprio la loro protezione il motivo più profondo per cui la democrazia appare necessaria?». Se la risposta che viene data a tale quesito è affermativa, come lo dovrebbe essere secondo gli stessi presupposti della democrazia, allora diventa evidente che esiste almeno un grumo di verità che non soggiace al comandamento relativista. Esiste cioè «un patrimonio fondamentale di verità» che «appare irrinunciabile proprio per la democrazia». Non soltanto nel senso che esso sta a fondamento della democrazia, ma anche che proprio tale nucleo non relativistico può rappresentare - rappresenta - il miglior antidoto di fronte a quella che in molti hanno chiamato «dittatura della maggioranza», e cioè la pretesa di chi detiene legittimamente il potere di stabilire lui che cosa è vero e che cosa è bene per i cittadini. Solo se esiste un elemento di verità che trascende il gioco di maggioranza e opposizione, che va oltre l'alternarsi di schieramenti al governo di uno Stato, la democrazia può veramente essere tale e non degradare in tirannide.


Come si vede, non è dunque il riconoscimento di una verità meta-politica a mettere in pericolo la democrazia, ma è proprio quel relativismo che, divenendo assoluto contro le sue stesse premesse, pone le basi per una deriva anti-democratica, in cui i «poteri forti» non trovano dinanzi a sé alcun serio argine alle loro pretese di dominio. Un dominio che, giocando in maniera più o meno palese la sua partita a livello delle coscienze e degli stili di vita, può avvenire formalmente nel rispetto delle regole della democrazia, ma sostanzialmente può ridurre tali regole a simulacri di libertà.


Divengono più chiare, così, anche le parole pronunciate da Benedetto XVI il 22 maggio, durante un convegno promosso dalla Fondazione «Centesimus Annus - Pro Pontifice»: «La politica deve avere il primato sulla finanza e l'etica deve orientare ogni attività».

Gianteo Bordero

venerdì 21 maggio 2010

PERCHÉ ALLA CHIESA NON SERVE L'«AGENDA PROGRESSISTA»

da Ragionpolitica.it del 21 maggio 2010

La prima, drammatica scena del film La passione di Cristo di Mel Gibson mostra Gesù che, nell'orto degli ulivi, «sapendo che era giunta la sua ora», implora dal Padre la forza per accettare ciò che di lì a poco gli sarebbe accaduto: la cattura, il processo, la tortura, la condanna, la crocifissione, infine la morte. Anche qui, come già era avvenuto all'inizio della missione pubblica del Nazareno, nei quaranta giorni di preghiera e digiuno nel deserto, compare il Tentatore, Satana. Il quale si rivolge così al Figlio di Dio: «Credi veramente che un uomo possa portare tutto il peso del peccato?». E ancora: «Nessun uomo può portare questo peso, credimi. Salvare le loro anime è troppo faticoso».


E', questo, lo snodo fondamentale della vicenda di Cristo: Gesù sapeva a che cosa sarebbe andato incontro, sapeva che così avrebbe dovuto compiersi la sua missione tra gli uomini, e se, tra mille tormenti e sofferenze interiori, in un primo momento chiede al Padre: «Se è possibile, allontana da me questo calice», subito dopo dice: «Ma sia fatta la tua volontà». E così il Serpente è schiacciato, se ne va sconfitto per ricomparire poi ai piedi della croce del Nazareno per sottoporgli l'ultima, gigantesca tentazione: scendere da quel legno per salvare se stesso, rinunciando all'opera per cui era stato mandato: redimere col suo sangue l'umanità, prendendo su di sé il carico di tutto il male del mondo. Il «sì» totale di Cristo alla volontà del Padre, la sua passione, la sua morte, la sua discesa agli inferi, la sua resurrezione, sono davvero la vittoria di Dio sul Male, come ricorda la bellissima sequenza che la liturgia cristiana intona nel giorno di Pasqua: «Victimae paschali laudes immolent christiani. Agnus redemit oves: Christus innocens Patri reconciliavit peccatores. Mors et Vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus».


«Il Signore della vita era morto, ora regna vivo». La missione della Chiesa nella storia è annunciare e testimoniare questo avvenimento, questa possibilità di salvezza, custodendo fedelmente qualcosa che non si è data da sola, ma che ha ricevuto in dono: il Sacramento che Gesù le ha affidato per farsi conoscere e incontrare dagli uomini, la Verità fatta carne, la Presenza reale dell'Eterno nel tempo. La Chiesa, in questo senso, non è «padrona» di ciò che essa propone agli uomini, non ne può disporre a piacimento a seconda delle epoche, delle culture e delle mode, non può annacquare il vino del Vangelo con l'acqua del compromesso con la mentalità dominante nel mondo. Perché, qualora ciò accadesse, semplicemente non proporrebbe più Gesù Cristo, ma una sua teoria su di Lui, una sua dottrina, un suo sistema di leggi morali. Questo aspetto è stato evidente anche nei periodi in cui la Chiesa sembrava più compromessa con il «secolo», ed è documentato dal fatto che anche Papi moralmente corrotti e avidi di potere, come ad esempio quelli del IX secolo, mai hanno messo in discussione il «depositum fidei» consegnatogli da Gesù.


Questo è un passaggio decisivo anche per comprendere perché il ritorno sulla scena del dibattito ecclesiale della cosiddetta «agenda progressista», che nelle ultime settimane ha trovato ampio risalto sul Foglio di Giuliano Ferrara, rischia di distogliere l'attenzione dall'unico, vero tema che in ogni tempo, e soprattutto in quelli difficili come l'attuale, è dirimente per la Chiesa cattolica: il tema della fedeltà a Cristo e al compito che Egli le ha assegnato. Tanto più che l'«agenda progressista» sembra andare nella direzione opposta a quella che la Chiesa ha sempre seguito nei momenti di fatica e di tempesta. Chiedere che la riforma avvenga a livello di strutture, di dottrina morale e di diritto canonico («riforma dell'organizzazione del potere della curia romana in chiave collegiale. Rivedere l'obbligo del celibato per il clero. Più considerazione per le coppie omosessuali stabili. Rivisitare la dottrina sui divorziati risposati», come riassume il vaticanista del Foglio, Paolo Rodari) significa dimenticare che, senza un rinnovamento innanzitutto spirituale, senza una profonda riscoperta interiore delle «cose antiche e sempre nuove» - cioè del cuore della fede e dell'annuncio cristiano - e del fatto che queste sono rivelate da Dio e non escogitate dall'uomo, il rischio è quello di ottenere gli effetti opposti a quelli sperati.


Attualizzato e detto in altri termini: pensando di risolvere la drammatica piaga dei «preti pedofili» abolendo l'obbligo del celibato ecclesiastico; ritenendo di poter avvicinare l'uomo contemporaneo alla Chiesa ammettendo al Sacramento i divorziati risposati; credendo che la «monarchia» papale debba essere superata con una più moderna e democratica «collegialità», i progressisti mostrano di non saper cogliere il nocciolo delle questioni, di non capire che la risposta ai problemi della barca di Pietro non può venire - non è mai venuta - dal cedimento alla mentalità e alle lusinghe del mondo, ma soltanto da un maggiore radicamento in quella Verità di cui la Chiesa è depositaria. Per cui, ad esempio, non sarebbe più utile riscoprire il senso profondo ed evangelico del celibato sacerdotale invece che indebolirlo? Non sarebbe più caritatevole una robusta pastorale pre-matrimoniale che aiutasse ad avere chiaro il valore, la sacralità e il fine delle nozze cristiane, invece che prendere atto ex post che tante unioni erano fragili e inconsistenti fin da principio? Non sarebbe più saggio riconoscere che la «monarchia» papale è ciò che ha mantenuto solido il rapporto tra Chiesa e popolo di Dio, anche negli ultimi quarant'anni, mentre molti episcopati nazionali sembravano intenti a costruirsi ciascuno la propria dottrina e il proprio credo, offuscando così il senso della cattolicità?


Diciamolo chiaro: su questi temi i progressisti piangono sul latte versato. Perché se oggi c'è una crisi dell'essere preti, una debolezza del matrimonio e uno svuotamento di tante chiese, è proprio perché certa teologia postconciliare - la loro - ha fatto credere che scendendo a compromessi col pensiero dominante e con i princìpi della modernità sarebbe nata, per la Chiesa, una giornata di sole. E invece, come ebbe a dire Papa Paolo VI, è «venuta una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza». Perché «da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». E il fumo di Satana è lo stesso dell'orto degli ulivi: è la tentazione di rinunciare alla propria missione perché ritenuta troppo gravosa, scomoda e in contrasto col mondo. «Salvare le loro anime è troppo faticoso». Grazie al cielo un grande Papa come Benedetto XVI non si è tirato indietro di fronte alle prove che attendono la Chiesa e che oggi ne segnano il cammino.

Gianteo Bordero

mercoledì 19 maggio 2010

DI FRONTE ALLA SINDONE

da Ragionpolitica.it del 19 maggio 2010

Di fronte alla Sindone. Di fronte a quel telo che racconta la storia di un «uomo dei dolori». Di fronte a quel lenzuolo che, come ha detto Papa Ratzinger, è l'«icona del mistero del Sabato Santo», cioè del mistero del «nascondimento di Dio», che «interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita». Nel silenzioso percorso che dai giardini di Palazzo Reale porta fino al Duomo di Torino, ho riletto proprio quelle parole di Benedetto XVI, il testo della meditazione pronunciata dal Pontefice il 2 maggio scorso dinanzi al «sacro lino». Parole che aiutano a comprendere che davvero la Sindone «parla», e che veramente essa ha qualcosa da dire a chi la osserva col cuore carico di domande e di attese. La Sindone parla con le tracce del sangue dell'uomo flagellato, con i segni della corona di spine posta sul suo capo e dei chiodi con i quali egli fu trafitto, con l'impronta della ferita sul costato. Parla di una storia di sofferenza, di un corpo piagato dalle percosse e dalla tortura, di un supplizio tremendo, di un inimmaginabile dolore. Parla di un'umanità sconfitta, di un uomo che muore schiacciato dal peso del male, di un'esistenza distrutta dalla crudeltà.


Per spiegare di che cosa si tratta, Papa Benedetto ha fatto ricorso a un paragone: quello con le tragedie del Novecento, delle due guerre mondiali, dei lager e dei gulag, di Hiroshima e Nagasaki. Ed è arrivato a citare il Nietzsche del «Dio è morto. E noi l'abbiamo ucciso», ricordando che questa celebre espressione «è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo». Sembrerebbe azzardato accostare il Golgota e Auschwitz, eppure davvero essi sono i luoghi in cui raggiunge il suo culmine la domanda delle domande: c'è un senso a tanta sofferenza? Ha un significato un dolore così grande? Esiste una risposta più forte del male? C'è un'ultima parola che vada oltre l'apparentemente invalicabile confine della morte? Dio, se c'è, è veramente provvidente nei confronti dell'uomo?


E' a questo livello profondo e drammatico che si colloca anche la questione della Sindone, non soltanto come reliquia, ma come testimonianza, come «icona». Detto in altri termini: è certamente importante sapere se il «lenzuolo» abbia avvolto realmente l'uomo Gesù di Nazareth (e nessun risultato delle più recenti ricerche scientifiche sembra smentire tale ipotesi), ma ancora più importante è poter aprire la propria vita a ciò che esso rappresenta secondo la tradizione cristiana: un Dio che ha risposto alle domande più incalzanti nel cuore dell'uomo non con una teoria, non con un manuale filosofico, e neppure con una religione, ma offrendo tutto se stesso, condividendo fino in fondo la condizione umana, facendosi uomo, vivendo tra gli uomini, soffrendo, morendo, risorgendo per la loro salvezza. Che è salvezza dalla disperazione, dal nulla che sembra inghiottire tutte le cose, dal male che sembra divorare ogni barlume di felicità.


Se si lasciano scorrere su quei pochi metri di lino le parole e le immagini narrate dai Vangeli, se si scorgono tra gli intrecci del tessuto i momenti del Pretorio, del Calvario e della Croce, la flagellazione, le percosse, gli sputi, la Via Crucis, il grido di Gesù al Padre, la canna con il panno imbevuto d'aceto, gli ultimi istanti della vita del Nazareno, allora «il mistero più oscuro della fede», come ha detto il Papa, può diventare «il segno più luminoso di una speranza che non ha confini», perché nella «terra di nessuno tra la morte e la resurrezione» che è il Sabato Santo è entrato «Uno, l'Unico, che l'ha attraversata con i segni della sua Passione per l'uomo».

Gianteo Bordero

lunedì 17 maggio 2010

«REPUBBLICA» CONFONDE FEDE E CONSENSO

da Ragionpolitica.it del 17 maggio 2010

Gongola La Repubblica, che lunedì titola in prima pagina: «Se declina la fede nella Chiesa». Articolo di commento affidato al sociologo Ilvo Diamanti, che illustra i risultati di un sondaggio condotto da Demos nella settimana tra il 14 e il 21 aprile. Secondo la rilevazione pubblicata dal quotidiano diretto da Ezio Mauro, la fiducia degli italiani nei confronti della Chiesa e del Papa sarebbe calata, nell'ultimo anno, rispettivamente del 3,2 e del 7%, attestandosi oggi nel primo caso al 47,2%, e nel secondo al 46,6%. Un declino che - aggiunge Diamanti - «peraltro dura da anni». Infatti, «rispetto al 2005 (quando è stato eletto Ratzinger) la fiducia nella Chiesa è scesa di 14 punti. Mentre negli ultimi due anni il consenso verso Benedetto XVI si è ridotto di 9 punti percentuali». Evidenti, secondo il sociologo, le cause di questo sensibile calo: oltre allo «scandalo pedofilia» che ha investito il clero negli ultimi mesi, oltre alla «vicenda Boffo» dello scorso settembre, sulla Catholica e sul Pontefice peserebbe anche il dopo-Wojtyla, «il cui credito, nel 2003, era superiore di circa 30 punti» rispetto a quello del suo successore.


Ora, tralasciando il fatto che il sondaggio, come detto poc'anzi, è stato condotto un mese fa e che negli ultimi 30 giorni Benedetto XVI ha ricevuto almeno quattro forti e chiare attestazioni di stima e fiducia da parte del popolo cattolico (a Malta, a Torino, in Portogallo e da ultimo domenica in Piazza San Pietro, in occasione della giornata organizzata dalla Cei e dai movimenti ecclesiali), a lasciare perplessi è soprattutto la grossolana giustapposizione tra fede e consenso che, di fatto, viene messa in campo da La Repubblica: quasi che la prima fosse direttamente proporzionale al secondo. Non è soltanto la storia della Chiesa a smentire questa tesi, ma anche la stessa natura del cristianesimo. Per quanto riguarda il primo punto, anche uno studente alle prime armi sa che, in molti frangenti del suo cammino, la Chiesa è stata un «piccolo gregge» tanto osteggiato dal mondo quanto ricco - e persino straripante - di eroiche testimonianze di santità e di fede indistruttibile. Per quanto riguarda il secondo punto, sono gli stessi Vangeli a suggerire una lettura del fatto cristiano come radicalmente altro dalla mentalità del «secolo», come portatore di un orizzonte di significato che il mondo non può dare. Non si ricordano momenti nei quali Gesù abbia invitato i suoi discepoli a cercare il «consenso», anzi: egli ha detto a chiare lettere ai suoi amici che la fede in Lui sarebbe stata causa di persecuzioni, di offese, di derisione. E la storia è lì a dimostrarlo, checché ne dica La Repubblica.


Misurare la fede sulla base della fiducia «statistica», e giudicare la Chiesa usando gli stessi strumenti adoperati per rilevare il gradimento dei partiti, dei leader politici, delle alte cariche dello Stato e delle altre istituzioni, è dunque un clamoroso errore. La fede, infatti, è altro dal consenso, e la Chiesa è altro dalle strutture di potere mondane. Credere in Gesù non è lo stesso che dare il proprio voto ad un partito, e aderire alla Chiesa non è come iscriversi ad un club o ad un'associazione culturale. Nella fede e nella Chiesa vi è un elemento che trascende le categorie sociologiche, un dato che può essere colto soltanto se si allarga il proprio sguardo a ciò che va oltre le moderne scienze sociali e oltre la moderna idea di ragione come «misura» di tutte le cose. Pensare di ingabbiare in un sondaggio demoscopico realtà che per loro stessa definizione non si fondano sul numero e sulla massa, ma sul mistero dell'anima personale che si apre all'eterno che entra nel tempo, è come - per riprendere le parole del poeta ungherese Attila Jozsef - «coprire con un tetto di tegole una torre aperta all'infinito».


Ancora un esempio tratto dalla storia può servire a chiarire ulteriormente la questione. Quando Gesù viene catturato, processato e poi crocifisso, che fine aveva fatto tutto quello che oggi chiameremmo «consenso delle masse»? Che fine avevano fatto quelle folle che si erano radunate ad ascoltarlo, che lo avevano visto operare miracoli, che lo avevano acclamato come loro re al momento del suo ingresso in Gerusalemme? Scomparse. E non è forse vero che è ancora la folla a chiedere la liberazione di Barabba durante il processo? E che dire degli ultimi istanti della vita di Cristo? Scrive il Vangelo: «Stavano sotto la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala», oltre al «discepolo che egli amava». Dunque, nel silenzio del Golgota, al culmine dell'esperienza terrena di Cristo, non ci sono le masse. Non c'è il consenso. Eppure è proprio in quel silenzio e davanti a quelle poche persone che si compiono due atti decisivi, senza i quali non è possibile comprendere né la Chiesa né la fede cristiana. Primo: Gesù che affida Sua madre, la Vergine Maria, a San Giovanni, consacrando così a Lei la Chiesa nascente. Secondo: la professione di fede del Centurione, che, vedendo il Nazareno spirare in quel modo, disse: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!». Qui, e non nei numeri dei sondaggi di Repubblica, sta tutta la misteriosa forza del cristianesimo e della Chiesa.

Gianteo Bordero

venerdì 14 maggio 2010

BENEDETTO XVI A FATIMA. UN VIAGGIO AL CUORE DELLA FEDE

da Ragionpolitica.it del 14 maggio 2010

La «missione profetica» di Fatima non è conclusa. Con queste parole, pronunciate giovedì nel corso della messa celebrata nei luoghi dell'apparizione mariana ai tre pastorelli, Papa Benedetto XVI ha voluto lanciare ai credenti un messaggio chiaro: non è finito il tempo delle sofferenze per la Chiesa; non è finito il tempo della prova e della persecuzione. Una persecuzione che oggi, drammaticamente, «non viene (soltanto) dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa», come lo stesso Pontefice ha affermato martedì durante il viaggio aereo da Roma a Lisbona. Perciò c'è bisogno di purificazione e di preghiera. Perciò è necessario mettersi in ginocchio di fronte a Cristo e alla sua Madre, come i pellegrini che si dirigono verso la basilica di Fatima, per implorare la grazia del perdono, della conversione, del rinnovamento spirituale - fondamento del rinnovamento morale.


Benedetto XVI sta quindi indicando alla Chiesa la strada stretta di cui parlano anche i Vangeli. Al Male non si risponde, non si può rispondere con qualche programma pastorale ben congegnato, con riforme che toccano le strutture ma non incidono sui cuori, con adattamenti più o meno marcati delle norme canoniche alle esigenze dei tempi. L'unica possibilità per un riscatto nasce dall'aprire la propria vita, tutto il proprio essere, al Mistero del Dio cristiano, alla sua onnipotente misericordia, la sola capace di ricostruire ogni giorno un'umanità nuova, di fare quotidianamente del cristiano una nuova creatura: «Io faccio nuove tutte le cose».


Nei discorsi che Papa Ratzinger ha pronunciato in Portogallo è emersa in modo chiaro una invocazione a ritornare ai fondamenti della fede cristiana, partendo proprio dal senso del peccato e dalla realtà della presenza di Satana, troppe volte, negli ultimi decenni, messa tra parentesi come un retaggio del passato da certa teologia e da certa predicazione. Per questo Benedetto XVI, nell'atto di «affidamento e consacrazione dei sacerdoti al cuore immacolato di Maria», ha chiesto alla Madonna l'aiuto per «non venir mai meno alla nostra sublime vocazione, a non cedere ai nostri egoismi, alle lusinghe del mondo ed alle suggestioni del Maligno». E per questo ha indicato ancora una volta ai preti cattolici l'esempio di San Giovanni Maria Vianney, il curato d'Ars che - ha ricordato il Pontefice - «così pregava il buon Dio: "Concedimi la conversione della mia parrocchia, e io accetto di soffrire tutto ciò che Tu vuoi per il resto della vita". E tutto ha fatto per strappare le persone alla propria tiepidezza per ricondurle all'amore».


La Madre di Gesù e il curato d'Ars, dunque. Due modelli che, come del resto i pastorelli di Fatima, rappresentano il contrario di quell'attivismo con cui oggi, all'interno della Chiesa, spesso si pensa di poter esaurire la missione dell'annuncio e della testimonianza. L'evangelizzazione, invece, non può sgorgare se non come gioiosa risposta ad un'iniziativa che non è umana, ma che viene da Dio; non può nascere che dal «sì» alla Sua chiamata, al Suo amore. Perché - ha detto Benedetto XVI mercoledì sera durante la veglia di preghiera a Fatima - «da noi stessi non siamo che un misero roveto, sul quale però è scesa la gloria di Dio». Perciò il primo gesto realmente cristiano è «fissare il nostro sguardo e il nostro cuore in Gesù, come faceva sua Madre, modello insuperabile della contemplazione del Figlio».


E' quello che ha fatto Papa Ratzinger, inginocchiandosi di fronte alla statua della Madonna di Fatima per deporre ai suoi piedi «le preoccupazioni e le attese di questo nostro tempo e le sofferenze dell'umanità ferita, i problemi del mondo». Quanta forza e quanta grandezza in questo prostrarsi del successore di Pietro di fronte alla Madre di Cristo, in questo implorare da lei l'intercessione presso il Figlio! In questo tempo difficile per la Chiesa, poter seguire un Papa così, che chiede innanzitutto per se stesso il dono di «aprirsi sempre di più al mistero della Croce, abbracciandola quale unica speranza e ultima via per guadagnare e radunare nel Crocifisso tutti i suoi fratelli e sorelle in umanità», è davvero una benedizione per tutti i credenti. E' la prova che veramente Dio non lascia mai sola la sua Chiesa e coloro che confidano in Lui.


Gianteo Bordero

mercoledì 12 maggio 2010

ANCHE QUEST'ANNO NIENTE BANDIERA BLU PER SESTRI LEVANTE

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE
GRUPPO CONSILIARE “IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – LEGA NORD”


COMUNICATO STAMPA DEL 12 MAGGIO 2010


Anche quest’anno niente Bandiera Blu per Sestri Levante, mentre sia i Comuni limitrofi (Moneglia e Lavagna) che un altro Comune del Tigullio (Chiavari) riescono ad ottenere il prestigioso riconoscimento assegnato dalla Foundation for Environmental Education (FEE). Evidentemente, ancora una volta, non sono risultati soddisfacenti i dati relativi ai parametri sulla base dei quali la Bandiera Blu viene assegnata: qualità delle acque, qualità della costa, servizi e misure di sicurezza, educazione ambientale.

In aggiunta a tali parametri, ricordiamo che l’assegnazione della Bandiera si fonda anche su un’approfondita analisi che prende in esame criteri di gestione sostenibile del territorio. Essi comprendono: certificazione ambientale, depurazione delle acque reflue, raccolta differenziata dei rifiuti, iniziative ambientali e turismo.

In forza di ciò, il mancato arrivo della Bandiera Blu a Sestri Levante da un lato rappresenta l’ennesima conferma dell’inconsistenza della politica ambientale portata avanti dall’Amministrazione Lavarello, dall’altro lato rischia purtroppo di determinare una situazione di oggettivo svantaggio per la Bimare per ciò che concerne il turismo, considerato che altri Comuni della costa tigullina hanno ricevuto il riconoscimento di qualità del FEE. Da quest’ultimo punto di vista, bastava guardare i telegiornali di ieri, sia nazionali che locali, per rendersi conto dell’ampio risalto dato alle località premiate con la Bandiera.


Chiediamo perciò che la Giunta si attivi al più presto per porre in essere tutte quelle iniziative in materia ambientale (ad esempio: costruzione di un nuovo depuratore, ulteriore implementazione della raccolta differenziata, maggiore attenzione alla qualità delle acque di balneazione) finalizzate a soddisfare i parametri sulla base dei quali la Bandiera Blu viene assegnata. La bellezza di Sestri merita una politica diversa.


Gianteo Bordero (capogruppo)

Marco Conti
Giancarlo Stagnaro

È LA SANTITÀ IL VERO RIMEDIO AGLI SCANDALI NELLA CHIESA

da Ragionpolitica.it del 12 maggio 2010

Torino e Fatima. La Sindone e i luoghi dell'apparizione mariana. Sono le tappe attraverso cui si snoda il cammino di Benedetto XVI in questo tempo di prova per la Chiesa. Il Pontefice si inginocchia di fronte al telo che è «icona del mistero» della passione di Gesù e poi nel luogo in cui la Madonna si è manifestata a tre pastorelli per comunicare un «messaggio per tutto il mondo», che «tocca la storia proprio nel suo presente e la illumina». Tutto ciò conferma che Papa Ratzinger non ha scelto una via mediana, la strada del compromesso pastorale e diplomatico, per affrontare lo scandalo dei preti che si sono macchiati di violenze sessuali sui più piccoli. Ma è anche la riprova del fatto che egli non ha voluto indossare i panni comodi del «moralizzatore» secondo le limitate ed ipocrite categorie del mondo, bensì ha ricondotto quanto sta accadendo nella Chiesa in una prospettiva di fede, la sola che - come già accaduto tante volte in passato - può consentire alla barca di Pietro di purificarsi e di rinnovare la sua fedeltà a Gesù.


E la prospettiva della fede è quella che Benedetto XVI ha indicato nella sua splendida e coraggiosa lettera del 19 marzo scorso ai cattolici irlandesi, e che ha ribadito martedì con una illuminante risposta ad una domanda postagli durante il viaggio aereo da Roma a Lisbona. E' stato chiesto al Papa se sia possibile inquadrare nella visione della terza parte del segreto di Fatima «le sofferenze della Chiesa di oggi, per i peccati degli abusi sessuali sui minori». Il Pontefice ha risposto affermando che nel segreto «sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano. Perciò è vero che oltre il momento indicato nella visione, si parla, si vede la necessità di una passione della Chiesa». Ed ha aggiunto: «Quanto alle novità che possiamo oggi scoprire in questo messaggio, vi è anche il fatto che non solo da fuori vengono attacchi al Papa e alla Chiesa, ma le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall'interno della Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa. Anche questo si è sempre saputo, ma oggi lo vediamo in modo realmente terrificante: che la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa e che la Chiesa quindi ha profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia. Il perdono non sostituisce la giustizia».


Con queste parole Benedetto XVI ripropone con forza e chiarezza, ed anche con una certa durezza, la sola questione realmente importante, e in fondo decisiva, di fronte al dramma che ha investito la Chiesa in un questo frangente della sua storia: la questione della santità. La santità dei cristiani e, in primo luogo, di coloro che, come scrisse l'allora cardinale Ratzinger nelle meditazioni per la Via Crucis del 2005 - testi che peraltro andrebbero ripresi per meglio comprendere anche le attuali parole del Papa - «nel sacerdozio dovrebbero appartenere completamente a Gesù». Santità che non significa in prima battuta coerenza morale, bensì, in un senso molto più profondo ed esistenzialmente radicale, dono totale della propria vita a Cristo, cioè al Dio-uomo che per primo ha offerto tutto se stesso come vittima sacrificale per la salvezza degli uomini. Come il seme che - per riprendere un'immagine evangelica - non porta frutto se prima non muore, così il cristiano non porta nel mondo la vita del Dio fattosi uomo se prima non muore a se stesso, cioè alla propria superbia, al calcolo cinico di potere, se non rinuncia alla propria misura per far spazio alla misura di Dio, che si chiama carità.


Così, di rimando, diviene chiaro che il peccato non è innanzitutto violazione di una regola, ma è, molto più gravemente, infedeltà alla fedeltà del Dio cristiano. Ancora, citiamo dalla Via Crucis del 2005, nona stazione: «Che cosa può dirci la terza caduta di Gesù sotto il peso della croce? Forse ci fa pensare alla caduta dell'uomo in generale, all'allontanamento di molti da Cristo, alla deriva verso un secolarismo senza Dio. Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? Il tradimento dei discepoli... è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell'animo, il grido: "Kyrie, eleison", "Signore, salvaci"».


Come i grandi Papi dei tempi difficili della Chiesa, Benedetto XVI va dunque al cuore dei problemi, non cerca scappatoie o scorciatoie, e di fronte agli scandali dovuti al peccato dei membri del clero propone l'unico vero rimedio efficace: la penitenza, la purificazione, il perdono e la giustizia. Questa è la vera riforma, che viene prima di ogni altra: è il richiamo al cammino della santità, lo stesso con cui la Chiesa, nella storia, ha risposto agli attacchi e alle persecuzioni che venivano dall'esterno e, come ci ricorda oggi Benedetto, anche dall'interno.


Gianteo Bordero

martedì 11 maggio 2010

PISCINE COMUNALI DI SESTRI LEVANTE. LE PERPLESSITÀ DEL GRUPPO "PDL-LEGA"

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE
GRUPPO CONSILIARE “IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – LEGA NORD”


COMUNICATO STAMPA DELL’11 MAGGIO 2010


L’atto di indirizzo con cui la maggioranza consiliare ha dato il via libera al passaggio di gestione delle piscine di Sestri Levante dal Circolo Nuoto Lucca alla società Mito/Julio - con annessa garanzia fideiussoria da parte del Comune non ancora quantificata ma che sicuramente si aggirerà attorno al milione di euro - rappresenta l’ennesimo capitolo di una vicenda che in questi anni ha fatto venire a galla tutto il pressapochismo amministrativo della Giunta Lavarello.

Il cambio di gestione, infatti, è dovuto a una sentenza del Tar del 2008, confermata dal Consiglio di Stato nel 2009, che ha accolto un ricorso presentato dalla società Mito/Julio e ha dichiarato illegittimo il modo in cui, nel 2006, la Giunta sestrese aveva assegnato al Circolo Nuoto Lucca la presa in carico degli impianti natatori. Tale assegnazione, infatti, aveva avuto luogo tramite procedura negoziata, senza pubblicazione di bando, dopo che l’Amministrazione aveva deciso di non aggiudicare la precedente gara d’appalto vinta dalla società Mito/Julio di Torino. Scriveva il Tar a questo proposito: “L’esito della gara (la prima gara d’appalto) appare perfettamente coerente con la disciplina della stessa come predisposta consapevolmente dall’Amministrazione”.

Quello che ha luogo oggi - cioè il cambio di gestione - è quindi frutto degli errori compiuti quattro anni fa dall’Amministrazione. Per questo il nostro gruppo ha votato contro l’atto di indirizzo presentato al Consiglio Comunale: perché ad assumersi la responsabilità politica di tale atto devono essere coloro che quattro anni fa hanno sbagliato.

Inoltre, rimangono in piedi le nostre forti perplessità in merito a tutta la “vicenda piscine”. In particolare riguardo a:

  • la scelta di costruire un impianto coperto e non olimpionico (non utilizzabile per gare e manifestazioni ufficiali) ed uno olimpionico ma scoperto (utilizzabile solo per pochi mesi all’anno);
  • la mancata copertura totale dei costi di costruzione con gli oneri di urbanizzazione derivanti dal piano ex Fit e la scelta di utilizzare a tal fine soldi pubblici;
  • lo stato di incertezza nel quale ancora oggi versano i lavoratori che operano all’interno delle piscine;
  • alcune bollette dell’acqua che avrebbero dovuto essere pagate dal Circolo Nuoto Lucca e che invece si trovano intestate al Comune, per un totale di 46 mila euro.

Se a tutto ciò si aggiunge l’ingiustificabile ritardo nella realizzazione del parco urbano che dovrebbe sorgere vicino all’area delle piscine, il quadro è completo. Nel marzo 2008 la Giunta Lavarello annunciava: l’avvio della realizzazione del parco “avverrà nei prossimi mesi”. Di mesi ne sono passati 25 e del parco non c’è traccia. Come si può dar credito politico, dunque, a un’Amministrazione pressappochista, confusionaria, che promette e non mantiene?

Gianteo Bordero (capogruppo)
Marco Conti
Giancarlo Stagnaro

mercoledì 5 maggio 2010

QUELLA CULTURA DEL SOSPETTO CHE UCCIDE LO STATO DI DIRITTO

da Ragionpolitica.it del 5 maggio 2010

A diciotto anni di distanza da Tangentopoli e dal conseguente azzeramento dei partiti democratici che avevano governato il paese nel corso della Prima Repubblica, il circo mediatico-giudiziario sembra ancora essere titolare, purtroppo, di un ampio potere di veto sulla vita politica italiana. Il caso Scajola è, da questo punto di vista, emblematico: un ministro che si dimette senza neppure essere indagato, in seguito a una fragorosa campagna di stampa resa possibile dalla diffusione di atti coperti dal segreto istruttorio e filtrati chissà come dagli uffici giudiziari. Se ai tempi di Mani Pulite bastava l'avviso di garanzia per essere segnati col marchio dell'infamia e squalificati dal novero degli appartenenti alla società civile, oggi sono sufficienti il sospetto, come negli anni bui del Terrore giacobino, e qualche titolone dei soliti giornali degli «onesti» e dei «benpensanti». E' un passo in avanti verso la morte dello stato di diritto, cioè del fondamento di ogni autentica democrazia.


Così vengono sistematicamente calpestati non soltanto importanti principi costituzionali come quello della presunzione di non colpevolezza fino a prova contraria e a sentenza definitiva, ma anche la dignità stessa delle persone che, di volta in volta, finiscono nel tritacarne: messe alla pubblica gogna e distrutte mediaticamente prima ancora di essere giudicate da un tribunale, non saranno mai più risarcite in caso di assoluzione, se non con qualche titoletto nelle brevi di cronaca giudiziaria a pagina 24. E' inutile girarci troppo attorno, perché la verità è che tornano alla mente tempi bui che credevano di esserci lasciati definitivamente alle spalle con il '92-'93, quando una cieca furia giustizialista, abilmente fomentata da mass media e magistrati d'assalto, impedì di vedere quello che realmente stava accadendo nel nostro paese. Certo, la corruzione c'era e i corrotti andavano colpiti. Ma quello che venne portato lucidamente avanti fu, in ultima analisi, un disegno di messa in mora della politica e del suo primato rispetto ai poteri non eletti - un'operazione con aspetti per certi versi ancora oscuri per ciò che attiene l'individuazione dei soggetti che, in quel frangente, erano interessati a un commissariamento de facto di un sistema che sembrava non in grado di gestire la delicata fase del post guerra fredda e della conseguente fine della divisione del mondo in blocchi e sfere d'influenza.


Oggi, come è stato detto più volte, non c'è una nuova Tangentopoli, perché non c'è più un sistema organico di finanziamento illecito ai partiti, ora sovvenzionati con soldi pubblici sotto forma di rimborsi elettorali. Nonostante ciò, si ha non di rado l'impressione che in certa magistratura, sempre adeguatamente supportata dai media amici, sia ancora viva l'aspirazione a determinare, rovesciandole, le sorti della politica italiana, tanto più quando è al governo Berlusconi. Cioè colui che, con la sua discesa in campo prima e con le sue ripetute vittorie elettorali poi, ha saputo, grazie alla sua leadership carismatica, dare una nuova e credibile rappresentanza a quell'elettorato moderato orfano dei partiti spazzati via dallo tsunami di Mani Pulite.


In questo quadro ha ragione il coordinatore del Popolo della Libertà e ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, quando, commentando la notizia secondo cui il suo collega alla guida del partito Denis Verdini sarebbe indagato nell'ambito di un'indagine della Procura di Roma, afferma che «c'è qualcosa di poco chiaro e di allarmante in questa nuova ondata di inchieste a carico di esponenti del nostro movimento» e rileva «un orientamento che appare rivolto unicamente nei confronti dei rappresentanti di una determinata parte politica». In questi giorni, infatti, si respira nuovamente un'aria mefitica, inquinata dai veleni, dai sospetti, dalle condanne preventive. Il tutto col chiaro scopo di bloccare l'azione del governo e di mandare all'aria la maggioranza uscita dalle urne nel 2008 e confermata dagli italiani in tutte le tornate elettorali degli ultimi due anni. Non si tratta di fare dell'allarmismo, ma di chiamare le cose col loro nome senza ipocrisia, portando avanti coraggiosamente e senza titubanze i provvedimenti finalizzati a ristabilire quell'equilibrio tra i poteri sancito dalla Costituzione del '48 e venuto meno sotto i colpi del giustizialismo nei primi anni Novanta, quando si affermò l'idea secondo cui i rappresentanti eletti dal popolo sono mascalzoni a prescindere e la magistratura è chiamata a riportare la moralità in una «casta» di ladri, di corrotti e di malviventi.


Gianteo Bordero