mercoledì 30 giugno 2010

DISINFORMAZIONE CONTINUA SULLA CHIESA E SU PAPA BENEDETTO XVI

da Ragionpolitica.it del 30 giugno 2010

Già tre anni fa scrivemmo che la Chiesa guidata da Papa Benedetto non gode di buona stampa: continui travisamenti delle parole del Pontefice, interpretazioni arbitrarie del suo pensiero, mistificazioni del suo magistero e dei suoi atti di governo. Che le cose stiano ancora oggi così è confermato dal modo con cui la maggior parte dei mass media ha riportato e commentato due episodi accaduti negli ultimi giorni. Dapprima la notizia della non decisione della Corte Suprema americana in merito alla questione della chiamata in causa della Santa Sede nei processi che vedono coinvolti sacerdoti accusati di pedofilia è stata trasformata tout court in una decisione contro il Vaticano, preannunciando - in molti casi non senza soddisfazione - la presenza alla sbarra del Papa e dei suoi collaboratori, che, non si sa come, sarebbero responsabili di fatti accaduti quarant'anni fa. E poi - secondo episodio - è stato completamente stravolto il senso dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la celebrazione della festa dei santi Pietro e Paolo. A leggere certi giornali e a sentire certi tg, il Pontefice avrebbe mosso un rabbioso atto d'accusa contro la Chiesa stessa, legittimando così i giudizi che dipingono la barca di Pietro come una banda poco raccomandabile di gente dedita ai peggiori crimini che si possano immaginare. Ratzinger ha detto tutt'altro, ma tant'è che nelle rassegne stampa del giorno egli era diventato il grande inquisitore, il fustigatore della Chiesa matrigna.


Ora, questa sistematica disinformazione in merito alla vita della Chiesa e all'opera del Papa può certamente essere spiegata - ma non giustificata - dicendo che il moderno sistema dell'informazione si nutre di immediatezza, di battute d'agenzia subito rilanciate da internet, di titoli rumorosi a cui non corrispondono contenuti meditati e approfonditi. Si può anche sostenere che molto spesso ai giornalisti manca il tempo materiale per andarsi a leggere un intero discorso pontificio (anche se l'omelia del 29 giugno, ad esempio, non era certo un testo lungo e complesso). Ancora, è possibile affermare che talvolta all'origine della mancata comprensione delle parole papali vi sia una disarmante ignoranza a proposito dei contenuti della dottrina cattolica e della storia ecclesiale, insomma che manchi l'abc per poter correttamente intendere le riflessioni di un fine teologo come Joseph Ratzinger. Può essere, e forse in alcuni casi è così...


Ma non si può negare, di fronte agli articoli pubblicati e ai servizi mandati in onda nei giorni scorsi dai cosiddetti «media laici», che alla base della cattiva informazione sulla Chiesa e su Benedetto XVI vi sia anche una ferma e pervicace volontà di mettere in cattiva luce il cattolicesimo in quanto tale, di fornire all'opinione pubblica un'immagine distorta e negativa dell'esperienza cristiana, di propagandare, come la cara e vecchia stampa massonica anticlericale, il falso per vero all'interno di una lotta ideologica senza quartiere contro una realtà che ha il solo torto di proporre agli uomini di ogni epoca una verità che è «segno di contraddizione» rispetto al pensiero dominante mondano e rispetto al modo solito di concepire i rapporti di potere e il potere stesso, politico, culturale o mediatico che sia. La drammatica testimonianza di monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino, pubblicata su Il Foglio del 29 giungo, è in tal senso emblematica e deve far riflettere. Dice Negri: «Chi oggi attacca la Chiesa ha uno scopo preciso: toglierle il diritto di educare. Nella mia diocesi, da quando i media enfatizzano la pedofilia nel clero, i bambini non vengono più portati negli oratori. A San Marino non abbiamo avuto mai nessuna accusa di pedofilia contro i ministri di Dio. Eppure tutti hanno paura».


Un conto, dunque, è dare le notizie e commentarle, magari in modo distratto o approssimativo, un altro conto è alimentare, come stanno facendo tanti mezzi d'informazione, una caccia alle streghe contro la Chiesa il cui unico obbiettivo è quello di muovere guerra al cattolicesimo, al Papa e infine agli stessi fedeli, ai quali viene più o meno esplicitamente suggerito - per usare un eufemismo - di non fidarsi più delle parrocchie, dei preti, degli oratori, dei catechisti, dei movimenti ecclesiali, come luoghi sani e sicuri in cui mandare i propri figli. Come già abbiamo detto altre volte, nessuno - Benedetto XVI in primis - nega la gravità dello scandalo pedofilia riguardante singoli ecclesiastici, e nemmeno la necessità di un'azione forte per fare chiarezza e contrastarlo, ma è pure evidente che esso viene usato da molti media per alimentare una campagna contro la Chiesa nel suo insieme che dovrebbe essere avversata da chiunque, laico o cristiano, ha a cuore la libertà di pensiero, di religione, di educazione e la sua piena attuazione nelle nostre società cosiddette «civili».


Gianteo Bordero

lunedì 28 giugno 2010

ABUSI CONTRO LA CHIESA

da Ragionpolitica.it del 28 giugno 2010

Profanare le tombe di gloriosi cardinali cattolici e tenere praticamente in ostaggio per quasi mezza giornata un'intera Conferenza Episcopale è il modo peggiore per condurre le indagini sui casi di pedofilia che vedono coinvolti membri del clero. Perché in questo modo si dimostra di voler colpire non tanto i singoli che si sono macchiati di un terribile crimine come quello dell'abuso sessuale sui minori, quanto la Chiesa stessa nel suo insieme. Tant'è vero che l'inchiesta della magistratura belga salita agli onori delle cronache in questi giorni è stata ribattezzata, con accenti inquietanti, «Operazione Chiesa». Un nome che definisce l'oggetto stesso delle indagini e delle accuse, facendo scempio di quel sacrosanto principio di responsabilità individuale che sta alla base di ogni codificazione non totalitaria del diritto penale. Solo così, del resto, è possibile motivare - si fa per dire - le scelte compiute dai magistrati che hanno organizzato il blitz dello scorso venerdì nella cattedrale di Malines e nella sede in cui era riunito l'episcopato belga.


Un atto ancor più grave se si tiene conto dell'atteggiamento di leale collaborazione adottato dalla Chiesa del Belgio, che aveva portato alla nascita di un'apposita Commissione indipendente presieduta dallo psichiatra Peter Adriaenssens, docente all'università di Lovanio, e composta anche da rappresentanti del ministero della Giustizia di Bruxelles. Questa Commissione, negli ultimi anni, aveva raccolto le testimonianze di 475 persone le quali avevano raccontato di essere state vittima di abusi sessuali da parte di sacerdoti. Le testimonianze, adeguatamente vagliate, sarebbero poi state trasmesse alle autorità giudiziarie, nel rispetto di coloro che si erano rivolti alla Commissione affermando chiaramente di non voler far ricorso alla magistratura. Così non sarà, visto che tutti i dossier sono stati sequestrati durante la perquisizione ordinata dalla Procura di Bruxelles. Inevitabili sono giunte lunedì le dimissioni del presidente Adriaenssens e di tutti i membri, poiché «la fiducia tra la giustizia e la Commissione è stata deteriorata e di conseguenza anche la fiducia tra la Commissione e le vittime che si sono rivolte a noi».


La magistratura belga, agendo in questo modo, non fa altro che alimentare quel deleterio clima di caccia alle streghe che da qualche tempo a questa parte circonda la Chiesa cattolica in quanto tale, legittimando la vulgata secondo cui essa altro non sarebbe che una congrega di pedofili, una cricca di pervertiti sessuali, una casta di orchi che ne combinano di tutti i colori tentando poi di sottrarsi alla giustizia. Qui, più che di fronte ad una tesi giudiziaria, sembra di trovarsi di fronte ad un teorema ideologico fondato sul pregiudizio nei confronti di una istituzione. E’ chiaro che in questo clima le inchieste non possono svolgersi con quell'equilibrio e quella misura che casi come quelli in oggetto richiederebbero. Se infatti l'obiettivo finale è colpire la Chiesa più che i singoli autori di un reato, saranno inevitabili le distorsioni, le forzature, gli abusi.


Questo è un dato che non va sottovalutato: esso mostra che le indagini sui preti accusati di pedofilia possono essere usate come benzina che viene gettata sul fuoco per alimentare l'ostilità alla Chiesa e l'odio anti-cattolico ormai ampiamente diffusi anche in Occidente. La collaborazione dei vescovi con le autorità giudiziarie non può essere definita tale se queste stesse autorità mostrano una chiara volontà persecutoria nei confronti della Chiesa.

Gianteo Bordero

giovedì 24 giugno 2010

SPETTACOLO "IL GALLO, LA LUNA E LA PAURA"

Ecco alcune foto della "prima" dello spettacolo "Il gallo, la luna e la paura", andata in scena a Casarza Ligure, presso l'antica chiesa di San Giovanni, il 23 giugno 2010, a cura dell'Associazione Culturale "Ultreїa".





















mercoledì 23 giugno 2010

UN MOVIMENTO DI POPOLO, NON UN VECCHIO PARTITO

da Ragionpolitica.it del 23 giugno 2010

Rispondendo a un militante sul sito forzasilvio.it, Berlusconi ha sottolineato alcuni punti essenziali a proposito della natura originaria del Popolo della Libertà. Punti dimenticando i quali si rischia di indebolire il Pdl, con conseguenze esiziali per la stabilità politica del governo e della maggioranza che lo sostiene.


Primo. «Il Pdl non è un partito. E' un grande movimento di popolo... La parola "partito" non mi è mai piaciuta perché indica una parte, una divisione. Il Popolo della Libertà, invece, è un movimento, un soggetto politico che si rivolge a tutti ed è completamente diverso dai vecchi partiti dominati dalle nomenclature». Ciò è confermato dal fatto che il Pdl non è nato da un'operazione di alchimia politica condotta dall'alto, attraverso una fusione a freddo tra classi dirigenti, bensì ha preso le mosse dal basso, dalla gente. Soprattutto - ha ricordato il presidente del Consiglio - dal grande raduno di Piazza San Giovanni del dicembre 2006, quando due milioni di persone si ritrovarono a Roma per manifestare contro il governo della sinistra. Fu allora che, per la prima volta, si unirono «le bandiere di Forza Italia e di Alleanza Nazionale» per difendere la libertà dall'«oppressione fiscale, burocratica, giudiziaria». In seguito fu proprio quel popolo di Piazza San Giovanni a recarsi ai gazebo e a scegliere per il nuovo soggetto politico il nome di «Popolo della Libertà» e non di «Partito della Libertà», mostrando così di preferire alle vecchie e ingombranti strutture novecentesche un movimento agile, votato al governo del paese e alla soluzione dei problemi concreti dei cittadini.


Secondo. «La nostra gente ha voluto che il Popolo della Libertà fosse guidato da un leader quale espressione di grande unità politica e di democrazia diretta». Dunque, oltre ad essere un movimento politico e non un partito nel senso comune del termine, ed oltre ad essere nato dal basso, il Pdl ha come sua caratteristica essenziale quella della leadership carismatica, legittimata dal rapporto diretto col popolo prima ancora che dalle strutture interne di partito. Mentre durante la Prima Repubblica si pensava che la mediazione tra governo e cittadini dovesse essere affidata esclusivamente ai partiti (al punto che Pietro Scoppola usò la felice definizione di «Repubblica dei partiti»), con la Seconda, figlia della «discesa in campo» di Berlusconi, questa mediazione tende a scomparire, lasciando il posto a leader capaci di rappresentare in se stessi un progetto politico che prende forma non da enunciazioni ideologiche di partiti-chiesa, bensì da agende concrete dettate dagli stessi cittadini, anche con gli strumenti della moderna comunicazione immediata, come internet.


Terzo. Da qui prende le mosse la lotta di Berlusconi contro le correnti e contro il ritorno a vecchie liturgie autoreferenziali che furono una delle cause della disgregazione del sistema partitico della Prima Repubblica. Proprio perché la leadership carismatica è oggi l'elemento che più di ogni altro è in grado di garantire l'unità di un movimento politico e il rapporto diretto con gli elettori, non si può pensare di agire come se tale leadership non ci fosse, o come se essa fosse il frutto di una contrattazione tra diverse «anime» e non, invece, l'espressione di una chiara volontà popolare confermata dai cittadini in ogni tornata elettorale. Insomma, chi nel Pdl pensa di poter affrontare le sfide del presente - in primis quella di governare l'Italia in tempi difficili come l'attuale - con uno sguardo autoreferenziale e tutto rivolto al passato, rischia di rendere incerto il futuro del movimento e, in ultima analisi, dello stesso paese. Per questo - conclude Berlusconi - «incrinare l'unità sarebbe un errore imperdonabile. E' una prospettiva a cui mi opporrò con tutte le forze, sicuro di interpretare la volontà della nostra gente».


Gianteo Bordero

lunedì 21 giugno 2010

IL CASO SEPE. TRASPARENZA NEL RISPETTO DEL CONCORDATO

da Ragionpolitica.it del 21 giugno 2010

Trasparenza e collaborazione con le autorità giudiziarie. Queste parole d'ordine di Benedetto XVI di fronte alla vicenda dei preti accusati di pedofilia valgono anche, mutatis mutandis, per altri casi che vedono implicati membri della Chiesa cattolica in inchieste della magistratura. Come, da ultimo, quella sulla cosiddetta «cricca» dei Grandi Eventi, nella quale risulta indagato per concorso in corruzione aggravata il cardinale Crescenzio Sepe, oggi arcivescovo di Napoli e dal 2001 al 2006 prefetto della Congregazione di Propaganda Fide, l'importante organismo della Santa Sede che si occupa del sostegno all'attività missionaria della Chiesa. E' proprio sul ruolo di Sepe al tempo del suo incarico alla guida della Congregazione che si concentra l'attenzione dei pubblici ministeri, secondo i quali il porporato avrebbe gestito in modo illecito il consistente patrimonio immobiliare di Propaganda Fide per ottenere favori da pubblici ufficiali oggi al centro dell'inchiesta della Procura di Perugia. Come Angelo Balducci, all'epoca provveditore alle Opere Pubbliche del Lazio, nonché Gentiluomo di Sua Santità e consultore della stessa Congregazione.


In una lettera inviata ai fedeli della sua diocesi, dopo aver illustrato gli addebiti che gli vengono mossi dalla magistratura, il cardinale ha affermato di aver sempre agito «nella massima trasparenza», «secondo coscienza» e «avendo come unico obiettivo il bene della Chiesa». Si è detto «sereno nella prova», concludendo però la sua missiva con un accenno che non potrà non suscitare altre polemiche: «Accetto la Croce e perdono, dal profondo del cuore, quanti, dentro e fuori la Chiesa, hanno voluto colpirmi». Il probabile riferimento, per ciò che concerne l'intra Ecclesiam, è a tutti coloro che, in questi giorni, non hanno mancato di ricordare la scelta con cui Ratzinger, nel 2006, da poco eletto Papa, «rimosse» Sepe da Propaganda Fide dopo soli cinque anni di prefettura - un caso più unico che raro per quanto riguarda questa Congregazione - e lo destinò alla guida della diocesi di Napoli, chiamando a sostituirlo il cardinale indiano Ivan Dias. Già allora questa decisione di Benedetto XVI suscitò un certo clamore: l'assegnazione ad una diocesi - ancorché importante come quella partenopea - dopo la guida di un dicastero di prim'ordine come quello delle Missioni non poteva certo essere considerata come una promozione. Tanto più che nel corso del Giubileo del 2000 l'allora cardinale Ratzinger aveva manifestato le sue perplessità per l'attivismo del Comitato organizzatore e aveva annoverato se stesso «tra quelle persone che hanno difficoltà a trovarsi in una struttura celebrativa permanente». E chi era alla guida del Comitato? Guarda caso proprio da Sepe. Coincidenze? Forse, ma a più di uno questo episodio tornò alla mente quando, divenuto Papa, Ratzinger chiamò Dias a Roma e inviò Sepe a Napoli.


In attesa degli sviluppi dell'inchiesta perugina, è importante sottolineare che la scelta della trasparenza e della collaborazione da parte della Santa Sede, ribadita anche in questi giorni, non significa sorvolare sulle norme che regolano i rapporti tra il Vaticano e l'Italia, cioè tra due Stati sovrani le cui relazioni sono disciplinate da un Concordato. Come ha ricordato il responsabile della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, in questa vicenda «bisognerà tenere conto anche degli aspetti procedurali e dei profili giurisdizionali impliciti nei corretti rapporti tra Santa Sede e Italia». In sostanza, i magistrati non potranno trascurare, ad esempio, l'articolo 4 del Concordato. Esso prevede, al comma 4, che «gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero». E' chiaro che se il Vaticano si muove con grande senso di responsabilità e invita il cardinal Sepe alla massima disponibilità nei confronti dei magistrati, eguale atteggiamento dovrebbe caratterizzare l'operato dei pubblici ministeri. Anche perché lo stesso Codice di Procedura Penale italiano, all'articolo 200, comma 1, stabilisce che «i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano, non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria».


In forza di tutto ciò, sarebbe auspicabile, da parte dei pm, uno stile sobrio e altrettanto responsabile, evitando di dare la stura a inutili spettacolarizzazioni o a gogne mediatiche contro l'indagato di turno. Se l'interesse supremo della Chiesa, nel caso in oggetto, è tutelare e difendere il prestigio e il buon nome del suo dicastero che si occupa di una realtà decisiva come le missioni, quello dei magistrati dovrebbe essere quello di mostrare una rinnovata sobrietà e misura in un sistema giudiziario che spesso, troppo spesso, all'accertamento puntuale e circostanziato delle accuse ha preferito il clamore di inchieste sui «grandi nomi» tante volte terminate in «grandi flop».

Gianteo Bordero

mercoledì 16 giugno 2010

BENEDETTI SACERDOTI

da Ragionpolitica.it del 16 giugno 2010

Venerdì la conclusione dell'anno sacerdotale indetto da Benedetto XVI, lunedì i funerali di monsignor Luigi Padovese, martire della fede nella difficile realtà turca. La figura del prete cattolico ritorna così al centro del dibattito ecclesiale e non solo. Certamente anche a motivo dello scandalo pedofilia che da qualche mese ha investito una parte - ancorché molto ridotta - del clero, e che è stato usato da molti non soltanto per una campagna in grande stile contro la Chiesa, ma anche per tornare a chiedere con insistenza l'abolizione del celibato sacerdotale. Come se questo fosse la causa delle violenze sui minori da parte dei preti.


Sacerdozio e celibato, invece, nella dottrina cattolica, fanno parte di un unico dinamismo di fede: entrambi rappresentano carnalmente quella dimensione dell'offerta totale di sé che caratterizza nel profondo il fatto cristiano. Innanzitutto l'offerta di Cristo, il suo donarsi fino in fondo agli uomini con la sua passione e morte, con il suo sacrificio che si replica misteriosamente ma realmente durante la celebrazione di ogni messa attraverso l'atto di consacrazione del sacerdote: qui, come ha detto il Papa durante la veglia di preghiera dello scorso giovedì in Piazza San Pietro, di fronte a diverse migliaia di preti, «parliamo in persona Christi. Cristo ci permette di usare il suo "io", parliamo nell'"io" di Cristo, Cristo ci "tira in sé" e ci permette di unirci, ci unisce con il suo "io". E così, tramite questa azione, questo fatto che Egli ci "tira" in se stesso, in modo che il nostro "io" diventa unito al suo, realizza la permanenza, l'unicità del suo Sacerdozio; così Lui è realmente sempre l'unico Sacerdote, e tuttavia molto presente nel mondo, perché "tira" noi in se stesso e così rende presente la sua missione sacerdotale». Essere prete, quindi, è innanzitutto una novità ontologica, un avvenimento spirituale che testimonia in massimo grado quell'unione mistica tra l'uomo e Dio che Gesù ha reso possibile. Non è un mestiere, non è una professione, non è semplicemente una funzione ecclesiale: è un essere nuovo, la risposta a una chiamata elettiva di Dio che si realizza nel sacramento dell'Ordine.


E qui, in questa dimensione sacramentale del sacerdozio cattolico, trova il suo fondamento anche la questione del celibato. Perché nella consacrazione dell'eucaristia il prete non soltanto è «tirato dentro» alla passione e alla morte di Cristo, ma è anche «tirato fuori» verso «il mondo della resurrezione», ha detto Benedetto XVI. Dunque, il fatto che egli divenga in qualche modo un tutt'uno con la persona di Gesù e quindi entri in quello spazio di donazione totale al Padre nella stessa forma virginale vissuta dal Nazareno, rende la sua condizione di celibe anche una «anticipazione» della risurrezione. E' la natura profetica del sacerdozio di cui ormai poco si parla, se non in un senso del tutto improprio, cioè quello della «previsione» del futuro in forza di chissà quale capacità nell'arte divinatoria. Invece la questione è, sotto un certo aspetto, più semplice, ma non per questo banale. Non si tratta di una dote che l'uomo si dà da sé, bensì di un'azione della grazia di Dio che, attraverso la chiamata al celibato, rende visibile tra gli uomini un segno che proietta «questo presente verso il vero presente del futuro, che diventa presente oggi». Cioè Dio, futuro verso cui tutto tende, si fa presente agli uomini, spalancando loro proprio le porte del futuro. Della risurrezione.


Questo è il senso, la ragione ultima del celibato. Che oggi va riscoperto, non messo da parte come un residuo del passato della Chiesa insopportabile per l'uomo contemporaneo. Perché - ha spiegato il Papa - «un grande problema della cristianità del mondo di oggi è che non si pensa più al futuro di Dio: sembra sufficiente solo il presente di questo mondo. Vogliamo avere solo questo mondo, vivere solo in questo mondo. Così chiudiamo le porte alla vera grandezza della nostra esistenza. Il senso del celibato come anticipazione del futuro è proprio aprire queste porte, rendere più grande il mondo, mostrare la realtà del futuro che va vissuto da noi già come presente». E' questa dimensione escatologica che fa del celibato un'anticipazione visibile della misteriosa pienezza del rapporto tra l'uomo e Dio che si realizza definitivamente nel Paradiso. Siamo dunque nel campo di quei «novissimi» della tradizione cristiana che oggi possono risultare ostici per chi è abituato a vedere il prete come un «organizzatore pastorale» o un «operatore sociale», seppur sui generis. E forse è proprio il fatto che certe verità non siano state più respirate dal popolo credente, accantonate in nome di una riduzione sociologica del cristianesimo, ad aver così indebolito gli anticorpi di fronte agli assalti - esterni ed interni - contro il celibato.


Per tutti questi motivi Benedetto XVI ha mostrato come sia necessario da un lato recuperare la coscienza della grandezza del sacerdozio cattolico, dall'altro essere consapevoli del fatto che gli attacchi contro di esso - e contro il celibato - sono non di rado attacchi contro la sua stessa natura. Che è quella di rendere presente Dio nel mondo, tra le cose degli uomini: è - ha concluso il Papa - «un "sì" definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo "io"» crocifisso, morto e risorto. Questo rende possibile quell'eroismo ordinario, spesso silenzioso e nascosto, del prete. E che diventa straordinario motivo di scandalo per coloro che, come l'assassino di monsignor Padovese, vedono nella testimonianza dei cristiani e dei loro sacerdoti una minaccia disarmata e disarmante ai criteri orizzontali di potere, mondani e religiosi.

Gianteo Bordero

mercoledì 9 giugno 2010

L'IMPORTANTE VISITA DI BENEDETTO XVI A CIPRO

da Ragionpolitica.it del 9 giugno 2010

La presenza cristiana in Medio Oriente, il rapporto con gli ortodossi, la pace. E' attorno a questi tre temi che è ruotato il viaggio apostolico di Benedetto XVI a Cipro, svoltosi dal 4 al 6 giugno. Era la prima volta che un Pontefice faceva sosta sull'isola che duemila anni or sono fu la prima tappa della grande predicazione di San Paolo alle genti.


Una terra che oggi deve però a fare i conti con la difficile situazione interna (sia dal punto di vista politico che religioso) che si protrae da almeno mezzo secolo, cioè da quando, ottenuta l'indipendenza dalla Gran Bretagna, Cipro è divenuta teatro di tensioni e scontri tra la maggioranza di origine greca (e cristiana) e la minoranza di origine turca (e musulmana). Una divisione documentata dall'esistenza, all'interno del territorio dell'isola, di due Repubbliche: una greco-cipriota, ufficialmente riconosciuta dalla comunità internazionale e membro dell'Unione Europea, e l'altra turco-cipriota, sorta nel 1974 in seguito all'invasione del nord del paese da parte dell'esercito di Ankara. Il simbolo visibile di tale divisione è la «Linea Verde» che taglia in due la città di Nicosia e che delimita la zona cuscinetto tra i quartieri greci e quelli turchi. Oggi presidiata dai Caschi Blu dell'Onu, la barriera è stata definita l'«ultimo muro» che ancora resiste in Europa dopo la caduta di quello di Berlino. Nonostante i vari tentativi messi in campo per raggiungere un compromesso che porti alla nascita di un'unica entità statale di tipo federale, la situazione segna ancora il passo, soprattutto dopo che un mese fa il leader turco-cipriota Mehmet Talat, più aperto al confronto, ha perso le elezioni ed è salito al potere Dervis Eroglu, contrario allo Stato federale e fautore di una più blanda Confederazione tra due Stati.


Di fronte a questo spinoso contesto, Benedetto XVI ha sùbito messo in chiaro, sin dalla conferenza stampa tenuta durante il volo di trasferimento da Roma a Paphos, che la sua visita avrebbe avuto principalmente un carattere spirituale e religioso, e si sarebbe posta come prosecuzione ideale del pellegrinaggio in Terra Santa dello scorso anno e di quello a Malta di un mese fa. Ciò non significa, però, che il Papa abbia fatto finta di niente ed abbia eluso i nodi da sciogliere per un miglioramento dei rapporti tra le diverse comunità presenti sull'isola e in vista di una soluzione ragionevole delle controversie politiche in corso. Egli è anzi andato al cuore dei problemi, ma lo ha fatto a suo modo, ricordando che è proprio un messaggio religioso come quello di cui la Chiesa è latrice che può servire, più di ogni altra cosa, per «preparare maggiormente le anime a trovare l'apertura per la pace». Infatti - ha aggiunto - «queste non sono cose che vengono dall'oggi al domani, ma è molto importante non solo fare i necessari passi politici, ma soprattutto anche preparare le anime per essere capaci di fare i passi politici necessari, creare quell'apertura interiore per la pace, che, alla fine, viene dalla fede in Dio e dalla convinzione che siamo tutti figli di Dio e fratelli e sorelle fra di noi». La Chiesa, insomma, non propone specifiche soluzioni politiche, ma indica agli uomini la via di quel rinnovamento spirituale che solo può garantire un'autentica e duratura pace tra i popoli e le nazioni.


Ciò non significa una irenica neutralità, un lavarsene pilatescamente le mani, soprattutto di fronte a situazioni come quelle denunciate dall'arcivescovo ortodosso Chrysostomos, che ha ricordato da un lato la sistematica violazione dei simboli e delle testimonianze della storia cristiana di Cipro nella parte settentrionale occupata dai musulmani e, dall'altro lato, l'operazione demografica con cui i turchi stanno tentando di diventare maggioranza nel paese. Benedetto XVI era ed è consapevole di tutto ciò, e lo ha detto chiaramente durante la cerimonia di congedo del 6 giugno, all'aeroporto di Larnaca, rivolgendosi con queste parole al presidente della Repubblica Christofias: «Ho potuto vedere di persona qualcosa della triste divisione dell'isola, come pure rendermi conto della perdita di una parte significativa di un'eredità culturale che appartiene a tutta l'umanità. Ho potuto anche ascoltare ciprioti del nord che vorrebbero ritornare in pace alle loro case e ai loro luoghi di culto, e sono stato profondamente toccato dalle loro richieste». Inoltre il Papa, nei suoi discorsi, non ha mai citato la Repubblica turco-cipriota, proprio per non fornire a tale entità alcun appiglio per rivendicare quella legittimazione internazionale a tutt'oggi negatagli. Ma quello che stava a cuore al Pontefice, come detto, non era in primis la disputa politica, bensì l'indicazione di una via spirituale alla pace che proprio i cristiani sono chiamati a costruire per il Medio Oriente, proprio partendo da Cipro.


Infatti l'isola è stata scelta dal Papa come luogo-simbolo per consegnare ai vescovi mediorientali l'Instrumentum Laboris per la prossima assemblea sinodale, che avrà luogo a Roma dal 10 al 24 ottobre 2010, sul tema «La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza». Della presenza e del ruolo dei cattolici oggi nei luoghi che furono la culla del cristianesimo Benedetto XVI ha parlato anche durante la Messa celebrata a Nicosia il 5 giugno, con una splendida omelia sul significato della croce: per le comunità cattoliche mediorientali, che spesso si trovano a vivere come un piccolo gregge in terre fortemente ostili all'annuncio del Vangelo e al messaggio della salvezza, il fatto di non fuggire altrove è già di per se stesso una testimonianza cristiana mirabile, è portare assieme a Cristo la croce. «Dove i cristiani sono in minoranza - ha detto il Papa - dove soffrono privazioni a causa delle tensioni etniche e religiose, un sacerdote, una comunità religiosa, una parrocchia che rimane salda e continua a dar testimonianza a Cristo è un segno straordinario di speranza non solo per i cristiani, ma anche per quanti vivono nella Regione. La loro sola presenza è un'espressione eloquente del Vangelo della pace. Abbracciando la croce loro offerta, i sacerdoti e i religiosi del Medio Oriente possono realmente irradiare la speranza che è al cuore del mistero che celebriamo nella liturgia odierna». Come ha fatto monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico in Anatolia ucciso a Iskenderun, in Turchia, il 4 giugno (le ultime notizie al proposito parlano della possibilità di un omicidio secondo il rituale islamico): «La sua morte - ha affermato Benedetto XVI - è un lucido richiamo alla vocazione che tutti i cristiani condividono ad essere, in ogni circostanza, testimoni coraggiosi di tutto ciò che è buono, nobile e giusto».


Proprio laddove i cristiani sono perseguitati, dove i loro diritti non di rado vengono calpestati, dove la libertà religiosa soccombe di fronte a un fondamentalismo asfissiante e violento, la loro presenza e la loro fedeltà al Vangelo assumono un valore paradigmatico: tale presenza e tale fedeltà divengono, infatti, oasi di vera umanità, di vero amore per il prossimo, di vera pace. Un esempio, questo, di cui tutti dovrebbero tenere conto, a partire dalla comunità internazionale, adoperandosi affinché le tensioni e i conflitti che ormai da tempo caratterizzano il Medio Oriente trovino ragionevole e giusta soluzione. Altrimenti - ha ammonito Papa Ratzinger - il rischio è quello di uno «spargimento maggiore di sangue».


Infine, per quanto riguarda l'altro punto centrale della visita di Benedetto XVI a Cipro, e cioè il rapporto tra cattolici e ortodossi, si è potuto registrare un clima di grande cordialità e comunione tra il Papa e l'arcivescovo Chrysostomos II, con il quale, negli ultimi anni, il Pontefice ha instaurato un dialogo fraterno e fecondo. Lo si è visto chiaramente durante la celebrazione ecumenica presso la chiesa di Agia Kiriaki Chrysopolitissa di Paphos, luogo-simbolo della predicazione paolina che qualche tempo fa la comunità ortodossa - la quale raccoglie la stragrande maggioranza dei cristiani ciprioti - hanno messo a disposizione di cattolici e anglicani, a testimonianza di un deciso e coraggioso cammino verso la piena comunione tra le diverse confessioni cristiane sull'isola. Nel suo discorso - e questo è l'elemento di rilievo da sottolineare - Benedetto XVI ha chiarito che il percorso ecumenico non può fondarsi soltanto sul confronto teologico, ma deve necessariamente partire, come nel caso di Cipro, dalla condivisione della comune eredità nata dalla predicazione apostolica. «Questa - ha detto il Papa - è la comunione, reale, benché imperfetta, che già ora ci unisce, e che ci sospinge a superare le nostre divisioni e a lottare per ripristinare quella piena unione visibile, che è voluta dal Signore per tutti i suoi seguaci». Il Pontefice ha anche annunciato che alla prossima assemblea del Sinodo per il Medio Oriente prenderanno parte i delegati delle altre Chiese cristiane. Una scelta importante, perché l'unità visibile di «tutti i discepoli di Cristo» può rafforzare la «testimonianza del Vangelo nel mondo d'oggi».


Per tutti questi motivi la presenza cristiana a Cipro, ponte tra Oriente ed Occidente, è davvero un segno di speranza non soltanto per i credenti, ma per tutti coloro che lavorano affinché il Medio Oriente possa trovare una pace autentica e stabile, possibile solo se a prevalere sarà quella «pazienza del bene» che il Papa ha indicato come strada maestra per la soluzione dei conflitti.

Gianteo Bordero

venerdì 4 giugno 2010

L'ASSASSINIO DI MONSIGNOR LUIGI PADOVESE

da Ragionpolitica.it del 4 giugno 2010

A poco più di quattro anni di distanza dall'uccisione di don Andrea Santoro per mano di un giovane musulmano, un'altra morte violenta sconvolge la piccola comunità cattolica presente in Turchia: questa volta la vittima è monsignor Luigi Padovese, dal 2004 vicario apostolico dell'Anatolia e attuale presidente della Conferenza Episcopale turca. L'assassino è il ventiseienne Murat Altun, da qualche anno autista e collaboratore di Padovese, che ha accoltellato il prelato nel giardino dell'abitazione di Iskenderun, nel sud del paese. Alla polizia, l'omicida avrebbe dichiarato di aver agito dopo aver avuto una «rivelazione divina». L'avvocato del giovane ha affermato che il suo assistito «soffre di turbe mentali» e per questo si trovava da un po' di tempo sotto cura psicologica. Un dato, quest'ultimo, che porterebbe ad escludere il movente religioso o politico, anche se monsignor Ruggero Franceschini, arcivescovo di Smirne, ha dichiarato che la spiegazione dell'omicidio unicamente come il gesto di uno squilibrato non lo convince appieno: «E' un luogo comune - ha detto Franceschini - che era già stato utilizzato per don Andrea Santoro». «Fra i fedeli e il mondo turco - scrive l'autorevole sito missionario Asianews.it - si fa fatica ad accettare la sola tesi della malattia psichica del giovane, divenuta evidente solo qualche mese fa. Diversi attentati negli anni scorsi sono stati compiuti da giovani definiti instabili, rivelatisi poi in legame con gruppi ultranazionalisti e anti-cristiani». Per questo è necessario che le indagini siano approfondite e non liquidino comodamente e sbrigativamente quanto accaduto con il refrain del «gesto isolato di un folle».


In attesa di sviluppi, una riflessione va fatta su un particolare aspetto richiamato da questa vicenda: si tratta del ruolo svolto dai cattolici in una terra difficile come quella turca, in una società che da qualche anno vive al suo interno una significativa tensione tra il tradizionale kemalismo laico inaugurato da Ataturk e i richiami delle sirene dell'islamismo radicale, le quali lanciano un messaggio che oggi sembra fare breccia tra fasce sempre più ampie della popolazione. Il fatto stesso che al governo del paese si trovi un partito di matrice islamica - ancorché «moderata» - come l'Akp di Erdogan e Gul, che in qualche modo ha segnato un punto di rottura con il passato della Repubblica, la dice lunga sulla forza dei venti che soffiano nella società turca in questo momento. Ebbene, in tale contesto la presenza della minoranza cattolica diviene sempre più un «segno di contraddizione», in quanto portatrice di una visione del mondo e della fede profondamente diversa da certe espressioni con cui oggi l'islam si presenta di fronte al mondo.


Una visione del mondo e della fede per comprendere la quale rimangono decisive le parole pronunciate da Benedetto XVI nella celebre lectio magistralis di Ratisbona del 12 settembre 2006. Il Papa, in quell'occasione, mostrò chiaramente che «la violenza è in contrasto con la natura di Dio e con la natura dell'anima» e, riprendendo le espressioni dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo durante un dialogo su cristianesimo e islam con un persiano colto, affermò che «chi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia». Parole che trovano conferma concreta nel modo in cui monsignor Padovese, e prima di lui don Santoro, hanno portato avanti la loro missione in Turchia: come profeti disarmati di una verità che non si impone agli uomini con la spada e la sopraffazione, ma si propone ad essi con la mitezza dell'annuncio, con la disponibilità all'accoglienza, con lo sguardo semplice di chi vuole portare nel mondo l'amore e la pace, non l'odio e la guerra.


Sia don Santoro che monsignor Padovese erano uomini cosiddetti «del dialogo», non nel senso di un irenismo ipocrita e un tanto al chilo, ma nella fedeltà alle parole del Vangelo: «Vi mando come pecore in mezzo ai lupi». Per questo la loro morte violenta in terra musulmana dovrebbe far riflettere ancora di più tutti coloro che immaginano un confronto con l'islam indolore e non problematico. Prendere atto della differenza, cioè della verità, è il primo modo per costruire la pace. Un gesto che a volte si può pagare anche col sangue e con la vita.

Gianteo Bordero

martedì 1 giugno 2010

SE L'INTERCETTAZIONE DIVENTA UN DOGMA IDEOLOGICO

da Ragionpolitica.it del 1° giugno 2010

Intercettare, intercettare, intercettare. La sacralità della captazione telefonica e della sua pubblicazione a mezzo stampa è diventata in questi anni un nuovo dogma del politicamente corretto in salsa italiana. Già, perché nelle altre grandi democrazie «mature» l'uso di questo strumento - tanto in sede di indagine quanto in sede di diffusione mediatica - è di gran lunga più limitato e circostanziato rispetto a quanto accade nel nostro paese. Eppure da noi il mantenimento dello status quo fa comodo a tanti. Ai pubblici ministeri, perché consente loro di pescare comodamente a strascico nel mare magnum del potere bypassando i tradizionali metodi di indagine. Ai giornalisti, perché la sistematica fuoriuscita di brogliacci dalle procure permette loro di dare quotidianamente in pasto ai lettori nuovi scandali, nuove «cricche», nuovi capri espiatori da mettere alla gogna. Ai partiti e ai movimenti giustizialisti, che in questo modo possono continuare ad accreditarsi come la parte sana e pura della società e della politica, come i veri eredi dello «spirito di Mani Pulite», come i paladini incorrotti dell'onestà e della probità morale.


Un autentico liberale come Piero Ostellino ha scritto sul Corriere della Sera, in dissenso dalla linea editoriale del quotidiano di via Solferino, che in un vero stato di diritto dovrebbe valere la «presunzione di innocenza fino a prova contraria appurata in un dibattimento processuale». E ha ricordato che questa garanzia di tutela della persona «si chiama "Habeas Corpus" e fu approvato dal parlamento inglese nella seconda metà del Seicento contro gli abusi del sovrano (e dei suoi inquisitori)». Oggi, invece, l'intercettazione - e la sua diffusione selvaggia su giornali, tv e siti internet - è divenuta lo strumento principe per contraddire i principi a cui Ostellino fa riferimento e per mandare al macero, senza tanti scrupoli, la «tutela della persona» e della sua dignità e onorabilità «fino a prova contraria». E' divenuta cioè, in ultima analisi, l'arma totale di cui il circo mediatico-giudiziario si serve per esercitare un influsso diretto ed efficace sulle vicende del paese, per indirizzarne le sorti, per colpire - e in certi casi affondare - questo o quel potente. Gettato oggi nel fango in quanto «intercettato», sarà poi difficile per lui, in caso di provata innocenza in sede processuale, riavere indietro ciò che il clamore giacobino e la morbosità forcaiola gli avevano tolto in men che si dica.


E' inutile girarci tanto attorno e fare ricorso ai luoghi comuni del «giudiziariamente corretto» per nascondere una verità evidente a chiunque non abbia la mente offuscata dal fanatismo giustizialista: le intercettazioni che più oggi vengono difese a spada tratta dalla casta dei magistrati politicizzati, dai cronisti a caccia di facili colpevoli, dai dipietristi in servizio effettivo permanente, non sono quelle che il disegno di legge in discussione in parlamento mantiene in quanto ritenute fondamentali ai fini della lotta al crimine, e che spesso non fanno neppure notizia, bensì quelle a più alto impatto mediatico, quelle che vedono come protagonisti politici in vista, personaggi famosi, nomi noti dello sport o dello spettacolo. Perché in questi casi le registrazioni telefoniche servono non tanto per dimostrare una tesi giudiziaria, per supportare un'accusa di reato, quanto per continuare a diffondere una tesi ideologica che ben poco ha a che fare con le inchieste: la tesi del potere corrotto per natura e dei potenti criminali per statuto. Un'idea che, usando il caso concreto per generalizzare e universalizzare, viene adoperata - a ben guardare - non per «informare», per rendere conto alla tanto mitizzata «opinione pubblica», per «salvaguardare il principio costituzionale» del diritto di cronaca, quanto per tirare la volata mediatica e politica a coloro che, non senza una certa dose di ipocrisia, si ergono a immacolati difensori unici del popolo (viola) e dell'etica democratica e repubblicana.


Ma questa è, a sua volta, una cinica e scaltra operazione di potere, per di più giocata sulla pelle delle persone e del loro diritto a non essere giudicate colpevoli fino a sentenza definitiva. E' chiaro che il vero stato di diritto è ben altro da questa moderna macelleria mediatico-giudiziaria.


Gianteo Bordero