domenica 29 giugno 2008

LE DUE ANOMALIE ITALIANE

da Ragionpolitica.it del 28 giugno 2008

Il circolo mediatico-giudiziario ha ripreso a lavorare a pieno ritmo. La guerra a Silvio Berlusconi e al suo governo è aperta e pubblicamente dichiarata: da un lato il Consiglio Superiore della Magistratura prepara un documento per togliere la patente di costituzionalità (ma non sarebbe competenza della Corte Costituzionale?) alla norma del decreto legge sulla sicurezza che sospende per 12 mesi i processi per i reati che prevedono pene inferiori ai dieci anni; dall'altro lato l'Espresso pubblica una nuova tranche di intercettazioni telefoniche che vedono, tra i protagonisti, anche il Cavaliere. Se i giorni iniziali della XVI legislatura avevano fatto pensare a una distensione del clima istituzionale, tanto che il ministro della Giustizia Alfano poteva presentare le linee-guida del suo mandato al Csm senza riscontrare particolari ostilità e la cosiddetta «grande stampa» analizzava le prime proposte del nuovo esecutivo senza il solito filtro ideologico dell'anti-berlusconismo, ora il termometro, come in passato, è tornato a segnare tempesta.

Siamo ancora una volta, purtroppo, punto e a capo. Segno che vi sono dei nodi insoluti; nodi di sistema, che riguardano la configurazione e l'equilibrio dei poteri in Italia. E' dal 1993 che la magistratura, sotto la spinta della sua corrente più marcatamente orientata a sinistra (Magistratura Democratica), valicando i limiti impostigli dalla Costituzione e spalleggiata dai mezzi di comunicazione ideologicamente affini, ha iniziato nei fatti ad ergersi a potere supremo del nostro ordinamento, esercitando politicamente il suo ruolo e manovrando prima per cancellare dalla scena politica i partiti democratici che avevano governato l'Italia per cinquant'anni, poi per far cadere esecutivi democraticamente eletti dei cittadini. E' accaduto nel '94, con l'ormai storico avviso di garanzia a Berlusconi recapitato a mezzo stampa durante il G7 di Napoli; è accaduto all'inizio del 2008, con le inchieste che hanno messo nel tritacarne il Guardasigilli del governo Prodi, Clemente Mastella, e la sua famiglia. E accade oggi, ancora una volta, con il Cavaliere a Palazzo Chigi.

Questa è la prima, vera, grande anomalia italiana: una magistratura che interpreta il suo compito in termini politici e non giuridici; che ritiene più importante intercettare morbosamente le comunicazioni degli eletti dal popolo invece che dare seguito ai processi «normali», i cui faldoni vengono lasciati marcire in qualche magazzino di qualche procura della Repubblica; che si pensa cioè, violando palesemente l'articolo 104 della Costituzione, come potere e non come ordine. Questa è, come ha detto qualche giorno fa il presidente del Consiglio, una «metastasi della democrazia», perché sovverte l'ordine istituzionale così come esso è stato delineato dai costituenti, ponendo sotto continuo ricatto coloro che sono stati scelti dai cittadini come loro rappresentanti e lasciando intendere che esista una sovranità superiore a quella del popolo.

In una situazione del genere, ci si aspetterebbe che tutta la classe politica - e non solo una sua parte - reagisse convintamente al tentativo di perenne delegittimazione portato avanti dalla magistratura ideologizzata. Invece ci tocca assistere al triste spettacolo di una sinistra incapace di proporre una linea politica autonoma da quella del «partito delle toghe», rappresentato in parlamento dall'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Una sinistra in tutto e per tutto appiattita sul giustizialismo più becero e qualunquista, sul fanatismo forcaiolo dei vari Travaglio, Grillo, Flores d'Arcais. Una sinistra talmente svuotata di ogni contenuto da non saper più avanzare alcuna proposta per porre un freno allo strapotere dei giudici e dei pm, venerati come oggetti di culto a prescindere da ogni contestualizzazione storica.

Chi è causa del suo mal pianga se stesso, verrebbe da dire. La gauche italiana, che per anni ha cavalcato l'ideologia delle manette facili, dei processi mediatici, delle forche preventive, ne è stata risucchiata a tal punto da perdere se stessa, la sua identità, la sua consistenza come forza politica libera ed autonoma. Col risultato che oggi rimane afona, quando non supina, di fronte al nuovo tentativo di delegittimazione di un governo della Repubblica. Come se la cosa riguardasse soltanto Berlusconi e non anche la classe dirigente nel suo complesso. Come se l'uovo oggi dello sputtanamento del Cavaliere fosse meglio di mille galline (un sistema istituzionale finalmente normale) domani. Come se mille prime pagine sui guai giudiziari del presidente del Consiglio potessero cancellare milioni di voti liberamente espressi dagli italiani. La sinistra è passata dal complesso di superiorità morale al complesso di inferiorità rispetto ai magistrati: una parabola davvero poco edificante, che rappresenta la seconda, grande anomalia del sistema politico italiano. Cambiare è sempre possibile, ma con l'aria che tira di questi tempi non c'è da attendersi nulla di buono da chi ieri annunciava la «nuova stagione» e oggi si è già riallineato al vecchio che ritorna.

Gianteo Bordero

sabato 28 giugno 2008

D'ALEMA-VELTRONI. VERSO IL DUELLO FINALE

da Ragionpolitica.it del 27 giugno 2008

Corsi & ricorsi della storia. L'eterna lotta tra Walter Veltroni e Massimo D'Alema, esplosa in forma pubblica durante il Congresso del Pds del 1994 che portò alla segreteria «Baffino» grazie ai voti dell'apparato (il «popolo», come risultò da numerosi sondaggi, stava con Walter), si ripropone oggi con tutta la durezza di un tempo, seppure a ruoli invertiti. Se nel '94 D'Alema appariva come il simbolo del «vecchio» e Veltroni come l'emblema del «nuovo», il primo come l'uomo del passato (il Pci) e il secondo come quello del futuro (l'americanismo e il kennedismo applicati per la prima volta in Italia), stavolta a vestire i panni ingombranti del «già visto» e del «sorpassato» rischia di essere proprio il «nuovista» per eccellenza, colui che ha fatto della rupture coi bei tempi che furono una bandiera, mentre l'altro duellante si candida a rappresentare l'alternativa politica a un partito che, nato da pochi mesi, appare già consumato dall'usura del tempo e delle sconfitte elettorali rimediate nel breve volgere di una stagione.

Così, mentre Veltroni resta aggrappato come può a una leadership che vacilla, tutto intento a salvaguardare l'esistente e a puntellare la sua segreteria, D'Alema riunisce i suoi sostenitori in un cinema romano per presentare ReD («Riformisti e Democratici»), ufficialmente definita una «associazione» di amici della fondazione (dalemiana anch'essa) Italianieuropei, ma che a molti già appare non soltanto come una delle tante correnti interne al Pd, ma anche come il nucleo di un vero e proprio partito, il motore di un nuovo centrosinistra: ci sono già 114 parlamentari iscritti, è iniziata la campagna di tesseramento, saranno aperte sedi in molte città italiane e sono allo studio altre forme di radicamento sul territorio. Anche se il ministro degli Esteri del governo Prodi fa di tutto per rassicurare l'ex sindaco di Roma sul fatto che ReD non vuole creare problemi al Partito Democratico, destabilizzandolo («Non voglio rompere le scatole a Veltroni», ha affermato), è chiaro che l'iniziativa sembra fatta apposta per dare ulteriori grane al segretario e per andare oltre l'attuale strategia del Pd: niente più «nuova stagione», addio alla «vocazione maggioritaria», basta con l'idea del bipartitismo rigido. Meglio iniziare a ripensare le alleanze con una logica non esclusiva; riallacciare il filo del dialogo da un lato con la sinistra antagonista più «ragionevole», dall'altro con l'Udc di Pierferdinando Casini; cercare di far approvare una legge elettorale che parli tedesco e non spagnolo. E ancora: stop alle formule di partito incolore, né bianco né rosso, né centro né sinistra, né socialdemocratico né popolare (in questo senso, l'acronimo ReD è tutto un programma...).

Diverso nella forma rispetto alla esplicita richiesta di dimissioni avanzata da Arturo Parisi, l'attacco di D'Alema a Veltroni è però ancor più duro nella sostanza. Come ha osservato sul Corriere della Sera di ieri Angelo Panebianco, i peggiori nemici del leader del Partito Democratico «sono quelli che hanno scelto la strada più subdola. Essi dicono: il segretario (per ora) non si tocca, ma va cambiata la piattaforma politica». E' esattamente quello che sta facendo l'ideatore di ReD, che a margine dell'assemblea costituente del Pd di venerdì scorso ha speso parole per difendere Veltroni e la sua leadership ma che poi, dopo appena qualche giorno, ha battezzato una «associazione» che promuove una prospettiva politica che, di fatto, rappresenta la negazione di tutto ciò che va sotto il nome di «veltronismo». Se la linea-Parisi è certamente minoritaria all'interno del partito, lo stesso non si può dire della linea-D'Alema, che - come ricordato in precedenza - ha già raccolto attorno a sé un terzo dei parlamentari democratici.

Invece che attaccare Veltroni frontalmente, il suo eterno sfidante ha scelto questa volta di svuotare la sua leadership dall'interno, logorandola giorno dopo giorno, convegno dopo convegno, cucinandola a fuoco lento in attesa delle elezioni europee della prossima primavera, che potrebbero rappresentare, in caso di esito ancora una volta negativo, l'epilogo della stagione di Walter alla guida del Pd. In queste condizioni, come ha notato sempre Panebianco, forse sarebbe stato meglio per Veltroni forzare i tempi, convocando già in autunno un congresso in cui andare alla conta, far uscire allo scoperto gli avversari e diradare così le nebbie che sempre più fitte si addensano attorno alla segreteria. Aver rinunciato a tutto ciò, nonostante gli annunci di qualche tempo fa, è senz'altro un altro segnale di debolezza da parte di Veltroni. Un politico che, come ha scritto Andrea Romano nella prefazione (pubblicata ieri dal Riformista) alla nuova edizione del suo Compagni di scuola. Ascesa e declino dei postcomunisti, «ha attraversato indenne le tormente del postcomunismo italiano con gli strumenti della dissimulazione e della fuga dalla responsabilità. E che anche in questo caso (il dopo elezioni, ndr) si mostra impermeabile al semplice dovere di rispondere del fallimento delle proprie scelte politiche». D'Alema, consapevole di ciò, attende ora Veltroni al varco. Stavolta per il duello finale.


Gianteo Bordero

giovedì 26 giugno 2008

PRODIANI ALLA RISCOSSA

da Ragionpolitica.it del 25 giugno 2008

Il flop dell'assemblea costituente dello scorso venerdì, a cui ha preso parte un numero assai ridotto dei delegati, bene rispecchia lo stato di difficoltà in cui versa il Partito Democratico. E come se non bastassero le batoste elettorali rimediate a livello nazionale e locale, la proliferazione delle correnti, la questione della collocazione europea, l'incertezza sull'identità politica del partito, ora ad essere messa apertamente in discussione è anche la leadership del segretario Walter Veltroni. A collocare l'ex sindaco di Roma sul banco degli imputati è Arturo Parisi, mente politica e culturale del prodismo e fondatore, nel 1999, assieme al Professore, dei Democratici (la prima, vera cellula del progetto di unificazione delle forze riformiste, socialdemocratiche e cristiano-sociali in un unico soggetto). Intervistato domenica dal Corriere della Sera, Parisi dà voce a quello che in molti pensano nel Pd, ma che nessuno ha il coraggio di dire: la strategia veltroniana ha fallito su tutti i fronti, non è stata in grado di raggiungere i risultati sperati, non ha saputo parlare al cuore dei cittadini. E quel che è peggio, secondo l'ex ministro della Difesa del governo Prodi, è che, a due mesi dalla sconfitta del 13 e 14 aprile, non c'è stata, neppure nella lunga relazione del segretario all'assemblea costituente, alcuna analisi approfondita delle cause della Caporetto elettorale. Anzi, si continua a sorridere come se niente fosse, ma «gli elettori non riescono proprio a capire cosa abbiamo da ridere. Ci sono state stagioni nelle quali "pensare positivo" era di moda, e bastava copiare alla lettera gli slogan e le forme della propaganda americana. Questa è invece una stagione nella quale c'è bisogno di una guida e di un pensiero che sia almeno serio, se non forte, e comunque nostro».

Per questo Parisi paragona Veltroni al personaggio di una gag di Totò nella quale «un signore schiaffeggia Totò chiamandolo Pasquale, e più lo schiaffeggia e più Totò ride. Tanto che quello gli chiede: "Ma come, più io ti meno più tu ridi?" E Totò gli risponde: "E che so' Pasquale io? Volevo vedere dove andavi a finire". Veltroni è così: pensa che gli schiaffi che gli han dato gli elettori siano sempre diretti al governo Prodi. E in questo modo siamo arrivati al ridicolo di un Pd che continua a presentarsi come partito a vocazione maggioritaria, mentre in Sicilia prende il 12,5%». La soluzione, dunque, non può che essere una sola: quella del cambio di leader. Dice Parisi: «Mi illudevo di poter distinguere la leadership dal leader e perciò chiedevo a Veltroni di cambiare linea. Sono passati due mesi pieni e di fronte ai ripetuti avvertimenti che ci vengono dagli elettori e dall'interno del partito la linea non è cambiata. E' evidente allora che a questo punto bisogna cambiare leader». Cosa, questa, che avviene normalmente in democrazia quando un partito esce decimato e con le ossa rotte dopo una competizione elettorale e quando il suo segretario si dimostra incapace di sostenere le sfide politiche sul tappeto.

Ma le dichiarazioni di Parisi assumono anche un significato che va oltre le contingenze e rivelano una spaccatura profonda (ideale e culturale oltre che strategica) tra l'attuale dirigenza del Partito Democratico e il gruppo che fa capo a Romano Prodi. Tant'è vero che, tra le reazioni all'intervista rilasciata dall'ex ministro della Difesa al Corriere, l'unica di sostegno è stata quella di un altro fedelissimo del Professore, Mario Barbi, mentre l'ipotesi di rimozione dell'attuale segretario è stata respinta seccamente tanto dai veltroniani quanto dai dalemiani e dai popolari. I prodiani non soltanto non ci stanno ad essere additati come gli unici responsabili del terremoto elettorale, ma rivendicano anche il fatto di essere gli unici che hanno saputo, nel corso degli anni passati, costruire un centrosinistra in grado di competere a testa alta con il centrodestra. Non accettano la prospettiva veltroniana di inseguire Berlusconi sul suo terreno e di bypassare, con un generico ecumenismo politicamente corretto, la lotta politica intesa come esaltazione della differenza e dell'alterità rispetto allo schieramento avverso. Su un altro versante, quello interno al partito, stigmatizzano l'organizzazione in correnti secondo la «logica dell'ex» e invocano l'applicazione senza se e senza ma dell'ulivismo della prima ora.

La rottura tra i prodiani doc e la dirigenza del Partito Democratico, del resto, era nell'aria già da qualche tempo, sin dal momento in cui l'ex presidente del Consiglio, nel mese di aprile, aveva preso carta e penna e aveva inviato una missiva a Veltroni per annunciare le dimissioni da presidente dell'assemblea costituente - dimissioni peraltro riconfermate qualche giorno fa, dopo che numerosi esponenti del Pd avevano chiesto al Professore di ripensarci e di fare un passo indietro. Un gesto significativo, quello di Prodi, che, assieme all'intervista di Parisi, testimonia come i «padri nobili» del Partito Democratico, coloro che per primi ne hanno promosso la creazione in Italia, non si riconoscano né nella forma né nella sostanza che Veltroni e i vecchi notabili dei Ds e dei Dl hanno dato al nuovo soggetto di centrosinistra. Dopo essere stati accusati per molti mesi di essere all'origine di tutti i mali della gauche, il Professore e i suoi si prendono oggi, col Pd in caduta libera e il suo segretario in profonda crisi di consenso interno, una bella rivincita. E Romano, cinicamente, se la ride, mentre a Walter non restano che le lacrime.

Gianteo Bordero

domenica 22 giugno 2008

IL VELTRONI PERDUTO

da Ragionpolitica.it del 21 giugno 2008

Il cambio di strategia del Pd, di cui abbiamo parlato nei giorni scorsi, è stato formalizzato da Walter Veltroni nella sua relazione all'assemblea nazionale del partito svoltasi a Roma. Il segretario ha iniziato il suo intervento con una ruvida critica a tutto campo dell'operato del governo Berlusconi: ha affermato che «la lettera che il presidente del Consiglio ha inviato lunedì scorso al presidente del Senato è uno spartiacque che rischia di segnare negativamente l'intera legislatura... Colpisce il ruolo di garanzia del Capo dello Stato, strappa la delicatissima tela del dialogo istituzionale con l'opposizione». E ancora: «I risultati dei passati governi Berlusconi, così come l'infelice esordio di questa legislatura, ci dicono che la speranza che una parte larga e più volte maggioritaria del paese ha riposto nella supplenza privata di poteri pubblici si è rivelata un'illusione: alla fine il potere privato, pure invocato per finalità pubbliche, finisce sempre per anteporre gli interessi particolari a quelli generali». Così l'occasione di dare vita a un nuovo clima tra gli schieramenti in campo, secondo Veltroni, «è perduta, forse definitivamente». Il leader del Pd risponde in questo modo ad una delle critiche più insistenti alla sua gestione provenienti sia da esponenti di spicco del partito che da colleghi dell'opposizione, in primis l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. A chi lo accusava di cercare, come ha scritto sul Riformista di ieri Antonio Polito, la «legittimazione dell'opposizione di Sua Maestà da parte di Berlusconi, moderazione in cambio di bipartitismo», Veltroni ha risposto annunciando una svolta intransigente «contro il ritorno di una stagione di conflitti istituzionali, di leggi ad personam e di confusione tra gli interessi privati e la cosa pubblica».

Ma la svolta veltroniana non finisce qui. Un altro dei temi caldi all'ordine del giorno nell'assemblea nazione del Pd era quello delle alleanze. Seppur rivendicando con orgoglio la scelta della vocazione maggioritaria e la decisione di rompere definitivamente con le coalizioni onnicomprensive in stile Unione prodiana, il segretario ha lasciato intendere che, per il futuro, non è da escludere una intesa con altri partiti fondata sulla condivisione programmatica e su una comune prospettiva di governo. In particolare, Veltroni ha fatto esplicito riferimento da un lato all'Udc di Pierferdinando Casini («Auspichiamo di poter lavorare insieme non solo per coordinare le opposizioni in parlamento, ma anche per affermare non un bipartitismo, ma un nuovo bipolarismo fondato su chiare alleanze per il governo e non più, come la stessa Udc ha tante volte denunciato, su coalizioni tenute insieme solo dalla logica del nemico comune») e, dall'altro lato, ai Socialisti Italiani («Pensiamo che sia non solo interesse, ma valore comune, creare le condizioni per ritrovarci»). Per quanto riguarda la sinistra radicale, il leader del Pd ha detto di seguire attentamente la discussione apertasi nei partiti del fu Arcobaleno, auspicando che da tale dibattito possa emergere il definitivo abbandono della linea «di lotta e di governo» come pre-condizione per riaprire il capitolo delle alleanze con il Prc, la Sd, i Verdi. Ad ogni modo, quello che emerge con chiarezza è la rinuncia, da parte di Veltroni, alla linea dell'autosufficienza del Pd e del bipartitismo rigido, che fino ad oggi erano stati due cavalli di battaglia della «nuova stagione».

Terzo capitolo su cui si è registrata una rottura rispetto al recente passato è quello riguardante il versante interno del Partito Democratico, la sua organizzazione e strutturazione. Veltroni ha innanzitutto lasciato cadere definitivamente l'ipotesi di un congresso anticipato, da celebrare nel 2008, per forzare i tempi e far uscire allo scoperto i suoi avversari; ha annunciato che a luglio partirà ufficialmente il tesseramento, che - ha detto - «dovrà essere una grande occasione per radicare il partito»; ha messo una pietra tombale sull'idea di «partito liquido» tanto cara agli uomini a lui più vicini: «Vogliamo un partito presente in tutti gli 8 mila comuni italiani e in tutti i quartieri e le borgate delle città». Anche se a parole il segretario ha chiesto un atto di responsabilità comune per evitare il proliferare di correnti personali che «trasformerebbero il Pd in una confederazione di potentati nazionali con le loro estese ramificazioni locali», è chiaro che tanto il radicamento quanto il tesseramento non potranno che far svanire il sogno di dare vita a quel «partito del leader» immaginato da molti collaboratori di Veltroni dopo la sua ascesa alla segreteria con le primarie dello scorso ottobre.

Concludendo, non si può non rilevare come tutte e tre le mosse veltroniane (strategia di opposizione, nodo alleanze e organizzazione del Pd) vadano di fatto nella direzione auspicata nelle ultime settimane da Massimo D'Alema e dai suoi sostenitori all'interno del partito, che hanno chiesto apertamente una svolta capace di far uscire i democratici dal torpore post-elettorale e di rilanciare l'iniziativa politica a un livello diverso da quello dell'appeasement con Berlusconi. Veltroni sa che la vera partita si giocherà l'anno prossimo, in occasione delle elezioni europee ed amministrative: è dal risultato di queste consultazioni che dipenderanno le sorti della sua segreteria. Per questo asseconda ora le richieste dei suoi avversari interni: sia per evitare prove di forza immediate i cui esiti sarebbero incerti, sia per scongiurare un anno di logoramento ulteriore della sua leadership, che giungerebbe stremata agli appuntamenti elettorali della prossima primavera. In ogni caso, è chiaro che quella che l'ex sindaco di Roma si trova a percorrere è una strada stretta e in salita, piena di insidie e a rischio improvviso di smottamenti. Il leader che un anno fa, al Lingotto di Torino, veniva acclamato come il salvatore della patria, oggi è poco più che un primus inter pares il cui destino politico è appeso a un esilissimo filo.

Gianteo Bordero

sabato 21 giugno 2008

ADDIO, NUOVA STAGIONE

da Ragionpolitica.it del 20 giugno 2008

Per salvare quel che resta della sua leadership, Walter Veltroni decide di fare opposizione a se stesso e alla sua strategia della «nuova stagione». Il segretario del Partito Democratico cambia rotta repentinamente e fa sue le ragioni dei suoi critici, sia esterni al Pd che interni ad esso. Sul primo fronte sposa di fatto la linea antiberlusconiana «senza se e senza ma» di Antonio Di Pietro e fa uscire dall'aula gli eletti del Pd al Senato al momento del voto sulla norma ribattezzata dalla sinistra come «salva-premier»; strappa il filo del dialogo con il governo e con la maggioranza; sale sulle barricate e al bon ton sostituisce un linguaggio ruvido ed aggressivo nei confronti del centrodestra. Sul fronte interno, invece, in vista della delicata assemblea nazionale del Pd che avrà inizio quest'oggi, si appropria del cambio di strategia invocato dai suoi oppositori in merito alla questione delle alleanze e va ad incontrare il segretario dimissionario di Rifondazione Comunista, Franco Giordano, e gli assicura che il temuto sbarramento al 5% alle prossime elezioni europee non sarà introdotto.

Dal dialogo con Berlusconi al dialogo con Rifondazione; dalla legittimazione dell'avversario alla sua demonizzazione il passo non è breve. Il fatto è che stanno cadendo una dopo l'altra, giorno dopo giorno, tutte le tessere del mosaico faticosamente abbozzato da Veltroni a partire dal giugno dell'anno scorso, cioè dal momento della sua investitura a candidato ideale per la guida del Partito Democratico e dall'ormai celebre discorso al Lingotto di Torino. Proprio in quell'occasione, l'allora sindaco di Roma affermò: «Voltiamo pagina. Gettiamoci alle spalle un modo di intendere i rapporti tra maggioranza e opposizione che non porta a nulla. A nulla, se non a far male all'Italia. Voltiamo pagina. La politica può essere diversa. Non c'è niente, tranne la nostra volontà, che impedisca la costruzione di un modo di intendere i rapporti basato sulla civiltà, sul riconoscersi reciprocamente». E ancora: «Mi è stato più volte dato atto di non aver mai partecipato a questa degenerazione del confronto. In ogni caso continuerò così, anche unilateralmente. Continuerò a pensare che non c'è un titolo di giornale che valga più del rispetto di un avversario. Non una battuta volgare che possa essere accettata come normale da un paese non volgare». E infine: «Si può essere in disaccordo senza essere nemici. Si può far vivere una politica in cui si ammetta serenamente la possibilità che l'altra parte possa anche aver ragione. Una politica in cui ci si scontri duramente su programmi e valori, ma capace di convivenza e rispetto istituzionale».

Che cosa resta, oggi, del progetto politico di Veltroni e dei buoni propositi del segretario del Partito Democratico è presto detto: nulla, o quasi. Il Pd è lacerato da lotte intestine tra correnti più o meno forti, ciascuna con una Fondazione pronta ad affondare la leadership di Veltroni; i risultati elettorali sono catastrofici, a partire dalle politiche dello scorso aprile per arrivare alle recenti amministrative siciliane, passando per la bruciante débacle alle comunali di Roma, feudo veltroniano per antonomasia; i sondaggi sono in picchiata; non c'è accordo tra ex Ds ed ex Dl in merito alla collocazione in ambito europeo; e anche sulla presidenza del partito il segretario non sa più che pesci prendere ed è costretto a invocare il ritorno in sella di Romano Prodi dopo averlo indicato come somma causa della sconfitta di due mesi fa; infine, anche il fiore all'occhiello del dialogo è appassito in fretta, sostituito da un Aventino parlamentare che potrebbe diventare permanente nel caso in cui il Pd si facesse dettare la linea in modo continuativo da Di Pietro e dalle sue accuse al governo di mettere in campo provvedimenti «criminogeni».

Finisce dunque così, stritolata dalla morsa dell'antiberlusconismo e della guerra interna al Partito Democratico, la «nuova stagione» di Veltroni. Il segretario del Pd cambia tutto perché tutto cambi, salvo la sua posizione all'interno del partito e del centrosinistra. Niente più «vocazione maggioritaria», niente più «opposizione ragionevole», niente più «partito del nuovo millennio». Nel momento dell'emergenza, la retorica lascia spazio all'istinto di sopravvivenza e quelle che fino all'altro ieri venivano chiamate «vecchie logiche» oggi tornano buone per affrontare la possibile calamità di una destituzione in corso d'opera da parte degli azionisti di maggioranza del partito. Per questo Veltroni diventa avversario di se stesso per ammutolire gli avversari che gli stanno intorno; per questo si traveste da D'Alema, da Di Pietro, da Bertinotti.

Quanto possa durare questa tattica lo vedremo a partire dall'assemblea nazionale di quest'oggi. Quel che è certo è che risuonano ora come parole lontane nel tempo quelle pronunciate da Veltroni appena un mese fa, nel corso del dibattito alla Camera sulla fiducia al Berlusconi IV: «Voteremo contro il governo, ma convergeremo su ogni scelta che vada nella direzione giusta: quella di un'Italia più equa, più moderna e più sicura. L'opposizione la si fa pensando agli interessi profondi del paese, pensando al futuro dei nostri ragazzi, alla fatica ed al talento di chi lavora ed intraprende, ai timori dei nostri anziani. La si fa mossi non dalla volontà di mostrare i muscoli, ma di mostrare l'intelligenza ed il senso di responsabilità». E - aggiungiamo noi - non pensando solo ed esclusivamente a se stessi e alla propria poltrona.

Gianteo Bordero

martedì 17 giugno 2008

IL RICHIAMO DELLA FORESTA

da Ragionpolitica.it del 17 giugno 2008

Eugenio chiama, Walter risponde. Dalle pagine di Repubblica il Fondatore lancia l'allarme democratico e subito il capo del Partito Democratico si arruola come milite nella nuova battaglia contro il fascismo che ritorna. Scalfari scrive che le prime mosse del governo Berlusconi rappresentano «un incipit verso una dittatura che si fa strada in tutti i settori della vita democratica». E ammonisce: «Quale dialogo si può fare nel momento in cui viene militarizzato il paese nei settori più sensibili della democrazia?». Veltroni risponde: «Se il comportamento del governo rimane arrogante come quello delle ultime settimane il clima non potrà che cambiare».

Si torna dunque all'antico: il richiamo della foresta è più forte del salto in avanti verso un riconoscimento e una legittimazione reciproca degli schieramenti che renderebbero finalmente normale la situazione politica italiana. Una atavica paura irrazionale per una «destra» ritenuta non pienamente degna di governare prevale sulla ragionevole volontà di cambiare pagina. E così, invece che collaborare alla scrittura di un capitolo diverso della nostra storia repubblicana, la sinistra preferisce il ritorno al passato, il cammino a ritroso che ci riporta, ancora una volta, all'inizio del libro. Al 1994 e alla narrazione di Berlusconi e dei suoi alleati come nuovo fascismo, come costante minaccia per la Costituzione, come pericolo per la tenuta democratica delle istituzioni.

Ma così la sinistra, e in particolare Veltroni, non fa altro che compiere l'ennesima, ulteriore involuzione autoreferenziale, aggrovigliandosi attorno alla sua mai sopita presunzione di superiorità morale rispetto agli avversari e abbarbicandosi ad un antiberlusconismo di maniera che nasconde soltanto un desolante deficit di proposta programmatica e di progettualità politica. Col risultato di allontanarsi ogni giorno di più dal popolo, dalla vita comune dei cittadini e dalle loro esigenze. In una parola: dalla realtà. Che è quella di un paese che arranca e che chiede tutele e sicurezza; di uno Stato privato della sua autorevolezza da decenni di sprechi, lassismo e incuria; di poteri non eletti che tentano - loro sì - di sostituirsi alle istituzioni democraticamente votate dai cittadini.

Questo mettere tra parentesi la realtà come se niente fosse, il rinunciare ad indagare in profondità sulle cause della sconfitta elettorale e sulle ragioni del consenso che Berlusconi ha saputo ancora una volta raccogliere tra gli italiani, l'accomodarsi su una linea di opposizione che ha il sapore del déjà vu, l'arrendersi alle sirene dell'antiberlusconismo storico gettando improvvisamente nel cestino gli annunci di una «nuova stagione» anche nei rapporti col centrodestra... Tutto questo mostra lo stato di incertezza e confusione nel quale versa il Partito Democratico dopo il 13 e 14 aprile. E non è da escludere che l'accodarsi di Veltroni alla propaganda dei «duri e puri», di Scalfari, dell'Unità, di Di Pietro, sia funzionale soltanto al mantenimento di una leadership che traballa e che, giorno dopo giorno, viene messa sul banco degli imputati da un numero sempre maggiore di dirigenti del partito.

Per salvare la sua posizione, Veltroni butta dunque a mare non soltanto il dialogo sulle riforme con Berlusconi e con la maggioranza, ma anche l'essenza stessa del programma con cui si era candidato alla guida del Partito Democratico e alla presidenza del Consiglio, invocando una netta rottura con il recente passato dell'Unione e di un centrosinistra fondato soltanto sul rigetto pregiudiziale ed ideologico dell'avversario. A conti fatti, oggi il Pd non riesce a darsi una linea di opposizione coerente con le ragioni per cui era stato fondato, non ha una collocazione chiara in ambito europeo, è segnato da una evidente «balcanizzazione» interna che vede l'un contro l'altro armati i dirigenti dei vecchi partiti e delle loro correnti; ma l'unica cosa che il segretario riesce a fare è tagliare i ponti da lui stesso faticosamente costruiti con il centrodestra e cedere ai richiami belluini dell'antiberlusconismo senza se e senza ma. Come se bastasse questo per uscire da una crisi le cui reali dimensioni debbono ancora venire a galla in tutta la loro portata. Buona fortuna, Walter.


Gianteo Bordero

venerdì 13 giugno 2008

DILEMMA EUROPEO PER IL PD

da Ragionpolitica.it del 12 giugno 2008

Primi giorni del 2005. Il Partito Democratico è ancora di là da venire e le cronache politiche concentrano le loro attenzioni sulla Gad e sulla Fed, la Grande Alleanza Democratica (formata da Ds, Dl, Sdi e Repubblicani Europei) e la Federazione (forma embrionale di quella che sarà poi l'Unione). Dal 14 al 16 di gennaio Ermete Realacci organizza un convegno a Fiesole, a cui sono invitati tutti i rappresentanti della corrente rutelliana della Margherita. Ed è proprio l'allora segretario diellino, Francesco Rutelli, a pronunciare un intervento destinato a suscitare scalpore, soprattutto tra i futuri compagni di cammino diessini. Rutelli, a un certo punto del suo discorso, dà inizio ad una sorta di gioco della torre, in cui elenca le parole che il futuro soggetto unitario avrebbe dovuto gettare nel dimenticatoio. Tra queste parole, il segretario della Margherita inserisce anche la «socialdemocrazia». Essa, secondo Rutelli, «non è più uno strumento per una sinistra moderna».

Sono passati tre anni e mezzo da allora, e di acqua sotto i ponti, come si suol dire, ne è passata tanta: la creazione della lista unica dell'Ulivo, la nascita dell'Unione, la vittoria elettorale del 2006, il battesimo del Partito Democratico e l'elezione di Veltroni a segretario, la caduta del governo Prodi, la sconfitta del 13 e 14 aprile 2008 - e, per Rutelli, la débacle alle comunali di Roma. Eppure le parole pronunciate allora dal segretario della Margherita ritornano nel dibattito politico di questi giorni, che vede il Pd impegnato non soltanto a definire la sua strategia di opposizione, ma anche a cercare la quadra sulla spinosa questione della collocazione del partito all'europarlamento, anche in vista delle elezioni europee del prossimo anno.

Il 9 giugno La Repubblica dà conto di un «piano» di Massimo D'Alema per tamponare i crescenti malumori, nel Partito Democratico, riguardo alla «questione europea»: «Il Pd - scrive Goffredo De Marchis - rinuncerebbe per il momento a entrare nel Partito Socialista europeo in attesa di un'autoriforma, un allargamento oltre i confini del socialismo del Pse sollecitata non solo dagli italiani ma anche da altri paesi (britannici in testa). Gli eurodeputati del Pd eletti nel 2009 andrebbero però nel gruppo socialista al parlamento europeo come pattuglia autonoma ma federata, grazie anche a una modifica dello statuto che consentirà l'adesione di "partiti amici". È un compromesso articolato, all'italiana, ma al momento è l'unico in campo per salvare la faccia».

Il giorno successivo è Walter Veltroni a rivendicare la paternità del «piano», ma intanto scoppia la polemica da parte degli ex margheritini, i quali affermano che non se ne parla proprio di accettare una soluzione simile. Francesco Rutelli, intervistato dal Corriere della Sera, dice che è «impensabile» la confluenza «in una delle famiglie politiche del XX secolo» e propone «un'alleanza di centrosinistra in Europa. Il Pd è lo snodo che può aiutare a far nascere un'alleanza europea ed europeista di centrosinistra». Ma il capogruppo del Pse a Strasburgo, Martin Schulz, sbarra subito la strada all'idea dell'ex ministro dei Beni Culturali e dichiara, al Mattino dell'11 giugno, che «il problema non è della nostra famiglia, ma di chi viene nella nostra famiglia: è il Pd che deve decidere dove ancorarsi senza preconcetti... Porte aperte ai cattolici, ma restiamo socialisti». L'empasse, rebus sic stantibus, è inevitabile. E la soluzione quanto mai complicata. A questo punto, l'obiettivo minimo di salvare l'unità del partito diventa di colpo la parola d'ordine dalle parti del loft, che deve affrontare anche la grana della «questione cattolica», con le voci, rilanciate da Famiglia Cristiana, di possibili fuoriuscite da parte degli esponenti teodem - peraltro smentite dai diretti interessati.

Il quadro, come si vede, non è certo dei più rosei - a voler usare un eufemismo. I nodi insoluti negli ultimi mesi e negli ultimi anni, durante il processo che ha portato alla nascita del Partito Democratico, tornano in primo piano in tutta la loro portata. Sostanzialmente, come ha scritto sul Corriere della Sera di ieri Ernesto Galli Della Loggia, il «vero pericolo» per il futuro del Pd viene dai «vecchi apparati» e dalla prevalenza delle loro logiche di potere rispetto al processo di innovazione che a parole si dice di voler perseguire. Della Loggia punta il dito soprattutto contro gli ex Ds, ma il discorso può benissimo allargarsi anche agli ex Margherita, divisi a loro volta in numerose correnti (rutelliani, popolari, prodiani).

Tutto ciò significa, con tutta evidenza, che il Partito Democratico, lungi dal possedere una identità chiara e distinta, definita come tale, si presenta ancora oggi come un coacervo di storie politiche diverse tra loro, che faticano ad integrarsi attorno ad un progetto nuovo e condiviso. Il dramma non è tanto quello rappresentato dall'esistenza delle correnti, quanto la mancanza di una prospettiva comune, come documentato proprio dalla vicenda della collocazione europea del partito. E' come se ognuno dei protagonisti tessesse la sua tela politica in solitaria, con il risultato complessivo di una veste d'Arlecchino tanto variegata nei colori quanto disomogenea nel disegno finale. Al punto che Il Riformista parla di una «balcanizzazione» del Pd che potrebbe essere letale a un partito ancora infante e già malaticcio dopo aver mosso i primi passi.


Gianteo Bordero

mercoledì 11 giugno 2008

IL PENDOLO DI VELTRONI

da Ragionpolitica.it del 10 giugno 2008

Chi è il capo dell'opposizione? Walter Veltroni o Tonino Di Pietro? La domanda sorge spontanea dopo aver letto le dichiarazioni con cui il segretario del Partito Democratico ha definito «grave» e «sbagliato» un provvedimento del governo che limitasse l'uso delle intercettazioni telefoniche nelle indagini giudiziarie e la divulgazione delle stesse a mezzo stampa. Si tratta di un cambio di rotta repentino da parte di Veltroni: basti pensare che nel programma con cui il Pd si è presentato agli elettori si affermava che «il divieto assoluto di pubblicazione di tutta la documentazione relativa alle intercettazioni e delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misura cautelare fino al termine dell'udienza preliminare, e delle indagini, serve a tutelare i diritti fondamentali del cittadino e le stesse indagini, che risultano spesso compromesse dalla divulgazione indebita di atti processuali. E' necessario individuare nel Pubblico Ministero il responsabile della custodia degli atti, ridurre drasticamente il numero dei centri di ascolto e determinare sanzioni penali e amministrative molto più severe delle attuali, per renderle tali da essere un'efficace deterrenza alla violazione di diritti costituzionalmente tutelati».

Proposte di buon senso, queste, contenute già, peraltro, nel cosiddetto «ddl Mastella» approvato all'unanimità dalla Camera dei deputati il 17 aprile 2007 e rimasto poi in giacenza al Senato fino alla caduta del governo Prodi. Il ddl prevedeva, tra le altre cose, che fosse vietata «la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e degli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati riguardanti il traffico telefonico o telematico, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare»; che «i documenti che contengono dati inerenti a conversazioni o comunicazioni, telefoniche, informatiche o telematiche, illecitamente formati o acquisiti e i documenti redatti attraverso la raccolta illecita di informazioni non possono essere acquisiti al procedimento né in alcun modo utilizzati, tranne che come corpo del reato»; che «i nominativi o i riferimenti indicativi di soggetti estranei alle indagini devono essere espunti dalle trascrizioni delle registrazioni. A meno che questo non ostacoli l'accertamento dei fatti esaminati dall'indagine».

Che cosa ha spinto, dunque, Veltroni ad assumere una posizione così intransigente nei confronti dell'annunciato disegno di legge del governo Berlusconi sulle intercettazioni? Che cosa lo ha portato ad affermare che l'esecutivo vuole «impedire ai magistrati di indagare»? Che cosa lo ha indotto ad accodarsi ai toni da crociata giustizialista usati da Antonio Di Pietro, il quale ha parlato di «progetto criminogeno» del governo? Per rispondere a tali domande occorre partire proprio dal cambio di posizione del leader del Pd, che rivela una sorta di schizofrenia politica indice di nervosismo, di debolezza e di incertezza in merito alla strategia di opposizione da perseguire tanto nelle aule parlamentari quanto di fronte al paese. Quello che ne risulta è il continuo oscillare di Veltroni tra il dialogo sulle riforme con l'esecutivo e l'antagonismo antiberlusconiano duro e puro, rappresentato appunto da Di Pietro e dalla sua Italia dei Valori. Questo «pendolarismo» veltroniano dimostra che il Partito Democratico non ha ancora trovato la strada da percorrere e che, a fronte di un governo forte e che incontra il gradimento di un numero sempre crescente di italiani (come dimostrato, da ultimo, da un sondaggio apparso ieri su Repubblica.it), vi è una opposizione ancora in cerca d'autore - un dato, questo, che contribuisce a lasciare campo libero alle scorribande giustizialiste dell'ex pm di Mani Pulite.

Che al Pd manchi una elaborazione politica degna di tal nome è confermato anche dai crescenti mal di pancia interni nei confronti della segreteria veltroniana, tra cui quelli pubblicamente manifestati da Rosy Bindi qualche giorno fa. Perciò, per mettersi al riparo dalle critiche che sempre più copiose piovono su di lui, con molti notabili del partito che lo accusano di non sapere mettere in campo efficaci iniziative di opposizione, Veltroni ha scelto, almeno per il momento, di mostrare i denti e di presentarsi con il volto dell'antiberlusconismo senza se e senza ma, rigettando in blocco gli ultimi provvedimenti annunciati dal governo e mettendo in stand-by il dialogo con la maggioranza. Ma è, questa, una mera scelta tattica, destinata a lasciare il tempo che trova: il segretario del Pd si limita a spostare in avanti, a data da destinarsi, la soluzione delle questioni politiche sul tappeto. Senza una strategia di lungo periodo, presto o tardi il pendolo veltroniano riprenderà a oscillare.


Gianteo Bordero

venerdì 6 giugno 2008

UN RAPPORTO NORMALE

da Ragionpolitica.it del 5 giugno 2008

La decisione di Silvio Berlusconi di partecipare per la prima volta al ricevimento offerto dal capo dello Stato in occasione della festa della Repubblica non ha rappresentato soltanto un gesto di cortesia istituzionale. Si è piuttosto trattato della «inevitabile» conseguenza dei buoni rapporti che intercorrono tra il presidente del Consiglio e l'inquilino del Colle. Buoni rapporti che trovano la loro motivazione ultima nella consapevolezza, presente sia in Berlusconi che in Napolitano, della necessità di favorire un clima politico che permetta alle istituzioni e ai protagonisti della vita economica e sociale di affrontare a testa alta i gravi problemi che il sistema-paese di trova di fronte. Lo stesso presidente della Repubblica, nel messaggio agli italiani del 2 giugno, ha parlato dell'urgenza di «un forte impegno e slancio comune», ha chiesto ai cittadini e alle istituzioni di «fare la loro parte nell'interesse generale». Ed ha concluso: «Costruiamo insieme un costume di rispetto reciproco, nella libertà e nella legalità, mettiamo a frutto le grandi risorse di generosità e dinamismo che l'Italia mostra di possedere».

Siamo veramente lontani dagli anni in cui dal Colle trapelava, in modi e forme neppure troppo velate, una diffidenza di fondo, quando non una ostilità preconcetta, nei confronti di Berlusconi e dei suoi governi. Sembrano un ricordo sbiadito le reprimende di Oscar Luigi Scalfaro e i distinguo di Carlo Azeglio Ciampi. E non deve sorprendere il fatto che ora sia proprio un ex comunista a suggellare il nuovo, positivo rapporto instauratosi tra Palazzo Chigi e Quirinale. Napolitano è, ben più che i suoi predecessori, un politico d'esperienza, ben conosce le dinamiche del consenso e rispetta la volontà democraticamente espressa degli elettori. Non disprezza, insomma, la «carne» della politica. In più, rispetto a chi lo ha preceduto, non è un dogmatico della sacralità e della intangibilità della Costituzione, è consapevole del fatto che essa è sempre riformabile, ancorché nella salvaguardia dei suoi princìpi ispiratori. Per questo oggi guarda con favore ad una intesa tra le maggiori forze parlamentari per cambiare la Carta fondamentale in quei punti che maggiormente necessitano di ammodernamento (in una intervista rilasciata nel 2006 ad Aldo Cazzullo del Corriere della Sera, l'attuale capo dello Stato si disse favorevole al rafforzamento dei poteri del primo ministro, al superamento del bicameralismo perfetto, alla revisione del Titolo V così come votato dal centrosinistra nel 2001, alla concessione di maggiori garanzie costituzionali all'opposizione).

Il riformismo di Napolitano, del resto, non è una novità. Come migliorista del Partito Comunista italiano egli si oppose all'eurocomunismo berlingueriano e individuò, già alla metà degli anni Ottanta, nella prospettiva socialdemocratica il «punto d'approdo del Pci». In quest'ottica si comprendono pure alcune riflessioni contenute nel discorso pronunciato dal presidente della Repubblica il 9 maggio scorso, in occasione del «Giorno della memoria» dedicato alle vittime del terrorismo: facendo riferimento al «riaffiorare del terrorismo, attraverso la stessa sigla delle Brigate Rosse», Napolitano ha affermato che «si hanno ancora segni di reviviscenza del più datato e rozzo ideologismo comunista, per quanto negli scorsi decenni quel disegno rivoluzionario sia naufragato insieme con la sconfitta del terrorismo, mostrando tutto il suo delirante velleitarismo, la sua incapacità di esprimere un'alternativa allo Stato democratico». Parole, queste, che sono riuscite ad intercettare il sentimento comune e l'apprezzamento di tutte le forze democratiche del paese, senza distinzione di schieramento.

Come ha osservato recentemente Gianni Baget Bozzo, Napolitano è «il primo degli inquilini del Quirinale che ha dimostrato di capire come è cambiata la realtà politica italiana». Di qui la condanna, nel messaggio del 2 giugno, nei confronti dei «fenomeni di intolleranza e di violenza di qualsiasi specie» e della «insofferenza e ribellismo verso legittime decisioni dello Stato democratico». Di qui l'invito, espresso qualche giorno prima, a non cedere alle «pressioni localistiche». Tutto ciò mostra come il presidente della Repubblica sia determinato ad interpretare fino in fondo il suo ruolo costituzionale di capo dello Stato, il che significa anche tutelare le istituzioni democraticamente elette, difendendone l'autorità e il prestigio ed evitando quel conflitto tra poteri che negli ultimi lustri ha causato non pochi problemi all'Italia e alla sua credibilità sul piano internazionale. Per questo oggi il rapporto tra Quirinale e Palazzo Chigi non è più, come in passato, all'insegna del sospetto e della diffidenza, ma del rispetto reciproco e della collaborazione, come avviene in un paese veramente normale.


Gianteo Bordero

domenica 1 giugno 2008

BERLUSCONI IN VATICANO, PUO' COMINCIARE UNA NUOVA STAGIONE

da Avanti! del 1° giugno 2008

Il quadro in cui si svolgerà, il prossimo 6 giugno, l’incontro tra Benedetto XVI e Silvio Berlusconi lo ha delineato il pontefice nel suo intervento tenuto giovedì all’Assemblea generale dei vescovi italiani. Papa Ratzinger, oltre a sottolineare quelle che la Chiesa italiana ritiene le maggiori emergenze sociali a cui tutti sono chiamati a dare una risposta, ha posto l’accento, salutandolo con soddisfazione, sul “clima nuovo, più fiducioso e più costruttivo” che si respira in Italia. “Esso – secondo Benedetto XVI – è legato al profilarsi di rapporti più sereni tra le forze politiche e le istituzioni, in virtù di una percezione più viva delle responsabilità comuni per il futuro della Nazione”.

L’incontro tra il Papa e il presidente del Consiglio, dunque, si inserisce all’interno di questo contesto descritto dal pontefice. Sia la politica che la Chiesa hanno ben chiara la portata dei problemi che affliggono l’Italia, un paese che, per Benedetto XVI, “ha bisogno di uscire da un periodo difficile, nel quale è sembrato affievolirsi il dinamismo economico e sociale, è diminuita la fiducia nel futuro ed è cresciuto invece il senso di insicurezza per le condizioni di povertà di tante famiglie”. Parole, queste, che si collocano nella stessa direttrice sulla quale Berlusconi ha condotto la sua campagna elettorale ed ha iniziato il cammino del suo quarto governo: far rialzare un’Italia sfiduciata e impaurita, ridare speranza ai cittadini che sperimentano ogni giorno sulla propria pelle le difficoltà legate al caro vita e ai bassi salari, rimettere in moto la locomotiva dello sviluppo e della crescita.

Si tratta di una sfida difficile, che abbisogna, per poter essere affrontata con qualche chance di vittoria, della collaborazione di tutti i protagonisti della scena politica, sociale ed economica, chiamati a rimboccarsi le maniche e a remare tutti nella medesima direzione, con un surplus di dedizione al bene comune in merito a quelle che sono le maggiori emergenze nazionali, quelle la cui soluzione non può più essere procrastinata nel tempo. La Chiesa italiana, dal canto suo, è pronta a dare lealmente il suo contributo nei campi in cui maggiori sono la sua presenza e la sua attività e a richiamare la società su quelli che sono i temi da sempre cari al magistero sociale dei pontefici.

Quello tra Benedetto XVI e Silvio Berlusconi si prospetta dunque come un incontro che si svolgerà all’insegna della comune consapevolezza della gravità dei problemi che l’Italia si trova a dover fronteggiare. Certamente Papa Ratzinger porrà l’accento sui temi già affrontati nel suo discorso all’Assemblea della Conferenza episcopale: sulla “emergenza educativa” dovuta ad un “relativismo pervasivo e non di rado aggressivo”, che rischia di far venire meno “le certezze basilari, i valori e le speranze che danno un senso alla vita”; sulla conseguente necessità di valorizzare e dare piena attuazione alla parità scolastica tra istituti statali e istituti non statali, perché “gioverebbe alla qualità dell’insegnamento lo stimolante confronto tra centri formativi diversi, suscitati, nel rispetto dei programmi ministeriali validi per tutti, da forze popolari preoccupate di interpretare le scelte educative delle singole famiglie”; sul dovere di riconoscere alla famiglia il suo ruolo centrale nella società con adeguati strumenti legislativi ed economici; sul compito di difendere la dignità della vita umana “dal concepimento e dalla fase embrionale alle situazioni di malattia e di sofferenza e fino alla morte naturale”; sull’urgenza di favorire una cultura dell’accoglienza, sempre però “nel rispetto delle leggi che provvedono ad assicurare l’ordinato svolgersi della vita sociale”.

Benedetto XVI sa che è ormai alle spalle il clima di ostilità alla Chiesa e ai valori cari ai cattolici che si respirava nelle aule parlamentari nel corso della passata legislatura, quando da settori non insignificanti dell’allora maggioranza di centrosinistra partivano non di rado attacchi scomposti o a gamba tesa nei confronti del Papa, dei vescovi, dei cattolici in generale. Sa che sull’altra sponda del Tevere non vi è un governo ostile come quello del “cattolico adulto” Romano Prodi, capace di promuovere leggi quali i Dico e incapace di garantire le condizioni necessarie al pacifico svolgimento dell’intervento del pontefice all’università “La Sapienza” di Roma. Sa, infine, che l’esecutivo berlusconiano, nonostante la limitata presenza di ministri “cattolici militanti”, è sostenuto da forze, quali il Popolo della Libertà, nelle quali molti fedeli si riconoscono; forze che, da sempre, si fanno portatrici di una politica che valorizzi il ruolo della Chiesa nella società italiana, che tuteli le radici cristiane dell’Italia, che promuova una “sana” laicità e non un laicismo preconcetto ed ideologico.

Se questa è la cornice, è facile prevedere che anche tra governo da un lato e Santa Sede e Conferenza episcopale italiana dall’altro possa prendere avvio una “nuova stagione” di collaborazione, nella quale la politica e la Chiesa, ciascuna nel proprio ambito e nel rispetto delle specifiche prerogative e del ruolo dell’altra, si impegnino a costruire il bene comune e a favorire un clima sociale orientato non soltanto alla crescita economica, ma anche a quella civile e morale. Se così avverrà, vorrà dire che veramente le elezioni del 13 e 14 aprile hanno chiuso un’epoca a aperto la strada a una normalità di rapporto non soltanto tra maggioranza e opposizione parlamentari, tra governo in carica e governo ombra, ma anche tra Chiesa e Stato. Finalmente.

Gianteo Bordero