da Ragionpolitica.it del 5 giugno 2008
La decisione di Silvio Berlusconi di partecipare per la prima volta al ricevimento offerto dal capo dello Stato in occasione della festa della Repubblica non ha rappresentato soltanto un gesto di cortesia istituzionale. Si è piuttosto trattato della «inevitabile» conseguenza dei buoni rapporti che intercorrono tra il presidente del Consiglio e l'inquilino del Colle. Buoni rapporti che trovano la loro motivazione ultima nella consapevolezza, presente sia in Berlusconi che in Napolitano, della necessità di favorire un clima politico che permetta alle istituzioni e ai protagonisti della vita economica e sociale di affrontare a testa alta i gravi problemi che il sistema-paese di trova di fronte. Lo stesso presidente della Repubblica, nel messaggio agli italiani del 2 giugno, ha parlato dell'urgenza di «un forte impegno e slancio comune», ha chiesto ai cittadini e alle istituzioni di «fare la loro parte nell'interesse generale». Ed ha concluso: «Costruiamo insieme un costume di rispetto reciproco, nella libertà e nella legalità, mettiamo a frutto le grandi risorse di generosità e dinamismo che l'Italia mostra di possedere».
Siamo veramente lontani dagli anni in cui dal Colle trapelava, in modi e forme neppure troppo velate, una diffidenza di fondo, quando non una ostilità preconcetta, nei confronti di Berlusconi e dei suoi governi. Sembrano un ricordo sbiadito le reprimende di Oscar Luigi Scalfaro e i distinguo di Carlo Azeglio Ciampi. E non deve sorprendere il fatto che ora sia proprio un ex comunista a suggellare il nuovo, positivo rapporto instauratosi tra Palazzo Chigi e Quirinale. Napolitano è, ben più che i suoi predecessori, un politico d'esperienza, ben conosce le dinamiche del consenso e rispetta la volontà democraticamente espressa degli elettori. Non disprezza, insomma, la «carne» della politica. In più, rispetto a chi lo ha preceduto, non è un dogmatico della sacralità e della intangibilità della Costituzione, è consapevole del fatto che essa è sempre riformabile, ancorché nella salvaguardia dei suoi princìpi ispiratori. Per questo oggi guarda con favore ad una intesa tra le maggiori forze parlamentari per cambiare la Carta fondamentale in quei punti che maggiormente necessitano di ammodernamento (in una intervista rilasciata nel 2006 ad Aldo Cazzullo del Corriere della Sera, l'attuale capo dello Stato si disse favorevole al rafforzamento dei poteri del primo ministro, al superamento del bicameralismo perfetto, alla revisione del Titolo V così come votato dal centrosinistra nel 2001, alla concessione di maggiori garanzie costituzionali all'opposizione).
Il riformismo di Napolitano, del resto, non è una novità. Come migliorista del Partito Comunista italiano egli si oppose all'eurocomunismo berlingueriano e individuò, già alla metà degli anni Ottanta, nella prospettiva socialdemocratica il «punto d'approdo del Pci». In quest'ottica si comprendono pure alcune riflessioni contenute nel discorso pronunciato dal presidente della Repubblica il 9 maggio scorso, in occasione del «Giorno della memoria» dedicato alle vittime del terrorismo: facendo riferimento al «riaffiorare del terrorismo, attraverso la stessa sigla delle Brigate Rosse», Napolitano ha affermato che «si hanno ancora segni di reviviscenza del più datato e rozzo ideologismo comunista, per quanto negli scorsi decenni quel disegno rivoluzionario sia naufragato insieme con la sconfitta del terrorismo, mostrando tutto il suo delirante velleitarismo, la sua incapacità di esprimere un'alternativa allo Stato democratico». Parole, queste, che sono riuscite ad intercettare il sentimento comune e l'apprezzamento di tutte le forze democratiche del paese, senza distinzione di schieramento.
Come ha osservato recentemente Gianni Baget Bozzo, Napolitano è «il primo degli inquilini del Quirinale che ha dimostrato di capire come è cambiata la realtà politica italiana». Di qui la condanna, nel messaggio del 2 giugno, nei confronti dei «fenomeni di intolleranza e di violenza di qualsiasi specie» e della «insofferenza e ribellismo verso legittime decisioni dello Stato democratico». Di qui l'invito, espresso qualche giorno prima, a non cedere alle «pressioni localistiche». Tutto ciò mostra come il presidente della Repubblica sia determinato ad interpretare fino in fondo il suo ruolo costituzionale di capo dello Stato, il che significa anche tutelare le istituzioni democraticamente elette, difendendone l'autorità e il prestigio ed evitando quel conflitto tra poteri che negli ultimi lustri ha causato non pochi problemi all'Italia e alla sua credibilità sul piano internazionale. Per questo oggi il rapporto tra Quirinale e Palazzo Chigi non è più, come in passato, all'insegna del sospetto e della diffidenza, ma del rispetto reciproco e della collaborazione, come avviene in un paese veramente normale.
Gianteo Bordero
venerdì 6 giugno 2008
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