sabato 31 gennaio 2009

C'E' CHI VUOLE DIVIDERE CIO' CHE BENEDETTO XVI UNISCE

da Ragionpolitica.it del 31 gennaio 2009

E' vero quello che oggi in tanti dicono: monsignor Marcel Lefebvre, ordinando nel 1988 quattro vescovi senza la necessaria autorizzazione papale e incorrendo così nella scomunica latae sententiae, inferse una profonda ferita all'unità della Chiesa, l'amore alla quale richiederebbe la disponibilità ad obbedire al vicario di Cristo sacrificando magari la rivendicazione delle proprie personali idee. Idee di cui, invece, Lefebvre e i suoi seguaci hanno fatto una bandiera, talvolta trasformandole in una vera e propria «ideologia» ecclesiale pregiudizialmente contraria a tutto ciò che in qualche modo potesse essere collegato alle parole «Concilio», «aggiornamento», «modernità».

Ma è vero, allo stesso modo, che Lefebvre non fu scomunicato da Papa Giovanni Paolo II a causa delle sue idee. Neppure quelle riguardanti il Vaticano II. Oggi tutti coloro che soffiano sul fuoco della polemica dopo la decisione di Benedetto XVI di revocare la scomunica ai vescovi ordinati dal monsignore scismatico, questo dimenticano di dirlo e di ricordarlo, come se niente fosse. Così mestano nel torbido, lasciando intendere che siano le personali opinioni dei lefebvriani a tenerli fuori dalla comunione ecclesiale. Anzi. Molti di coloro che, dalle pagine dei giornali e dagli schermi televisivi, confondono deliberatamente le idee dei lettori e dei telespettatori su questa vicenda, quasi godono nel ribadire che la piena riammissione della Fraternità San Pio X non è ancora avvenuta, che sono ancora molti i passi da fare (come se il ritiro della scomunica da parte del Papa fosse un fatto di poco conto), e a sostegno delle loro tesi portano sorridenti le dichiarazioni sulla Shoah prima di monsignor Williamson e ora, in mancanza d'altro, di qualche sacerdote lefebvriano. Spulciano negli archivi e nelle emeroteche, su Google e su YouTube, per cercare altri documenti, altre prove che mostrino in maniera inconfutabile l'errore del pontefice regnante.

Concediamo per un attimo quello che quello che gli intellettuali e i vaticanisti progressisti, martiniani e dossettiani lasciano intendere, e cioè che la rottura dell'unità della Chiesa sia avvenuta a causa delle idee anticonciliari dei lefebvriani, e non dell'ordinazione episcopale, sia vero. E quindi poniamo come criterio per essere scomunicati la difformità dai documenti del Vaticano II. Sono così sicuri, questi Torquemada dei tempi moderni, che in un caso del genere loro uscirebbero indenni dalle grinfie della nuova Inquisizione «conciliarmente corretta»? Ad esempio, sono così sicuri che la loro simpatia per la Messa pop, quella che in teoria avrebbe dovuto avvicinare gli uomini alla Chiesa e che invece ha allontanato i cristiani dalle chiese, trovi conferma nel dettato del Vaticano II? Ad esempio, ancora, sono sicuri che le loro aperture a tutto ciò che sa di moderno, anche in tema di famiglia, procreazione, sessualità abbia un qualche fondamento nelle Costituzioni conciliari? Perché si aggrappano ad ogni pie' sospinto allo «spirito del Concilio» e ne dimenticano la lettera? Forse perché lo «spirito» lo si può immaginare come si vuole ed invece la «lettera» è stampata e lapidaria? Parafrasando il famoso detto latino, potremmo dire che per i più ferventi critici della decisione di Benedetto XVI valga la regola: «Spiritus volat, scripta manent». E, ovviamente, loro stanno dalla parte dello «spiritus».

Per fortuna loro, e grazie a Dio, non pioverà sul loro capo nessuna scomunica, perché il criterio adottato dalla Chiesa non è il loro criterio, tant'è vero che il Papa, prima della revoca, non ha chiesto ai vescovi lefebvriani alcun giuramento pubblico e formale di fedeltà al Concilio. Il criterio usato da Benedetto XVI è stato invece quello del perdono in funzione della piena unità tra le membra del corpo mistico di Cristo. E sorprende che intellettuali, commentatori e giornalisti che da sempre salutano, senza risparmiare l'entusiasmo e la retorica, le «aperture» dei predecessori di Ratzinger a chi sta fuori dalla Chiesa, oggi facciano il diavolo a quattro per una «apertura» ancora più grande, il cui frutto potrebbe essere la fine di uno scisma. Forse perché si tratta di una «apertura» alla parte sbagliata, alla parte più «impresentabile» di coloro che sono extra Ecclesiam, alla parte che da quarant'anni neppure andrebbe nominata in ossequio al decoro teologico e all'«ecclesialmente corretto». E' davvero un modo singolare di ragionare e di pensare la Chiesa, questo. Un modo settario e ideologico tanto quanto lo è quello dei lefebvriani. Con la differenza che questi ultimi vengono quotidianamente attaccati, criticati e «scomunicati» a mezzo stampa o tv, mentre i loro inquisitori godono di buona stampa, impazzano su giornali, radio e teleschermi senza che nessuno (o quasi) alzi la voce nei loro confronti. Con l'aggravante che, mentre il superiore generale della San Pio X ha manifestato al pontefice la volontà di poter rientrare in comunione con Roma, esprimendo dolore per la divisione, loro tutto fanno fuorché mostrarsi dispiaciuti per le ricadute delle loro idee sul popolo credente e sull'opinione pubblica.

Papa Benedetto, uomo saggio e misericordioso, se ne sta fuori da questa contesa ed esercita su un altro piano la sua missione: non quello dell'affermazione di un'ideologia ecclesiale, di un proprio punto di vista, per quanto teologicamente geniale, ma quello della risposta alla missione assegnata da Gesù a San Pietro: riunire (e non dividere) il gregge di Cristo. E, se necessario, andare alla ricerca della pecora smarrita.

Gianteo Bordero

giovedì 29 gennaio 2009

LE SFIDE (INCOMPRESE) DI BENEDETTO XVI

da Ragionpolitica.it del 29 gennaio 2009

A sentire i suoi detrattori, revocando la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani Benedetto XVI avrebbe commesso due errori capitali: avrebbe, da un lato, infangato il giorno della memoria della Shoah riammettendo nella Chiesa un negazionista dell'Olocausto come monsignor Williamson e, dall'altro lato, avrebbe calpestato la ricorrenza dei cinquant'anni dell'indizione del Vaticano II da parte di Giovanni XXIII accogliendo nella comunione ecclesiale coloro che furono i contestatori più radicali del Concilio. Come si vede, si tratta di due temi altamente «infiammabili», il primo per la sua valenza storica e simbolica, il secondo per quella ecclesiale. Nell'un caso e nell'altro, però, l'accusa rivolta a Papa Ratzinger è sempre la stessa: riportare la Chiesa cattolica indietro nel tempo, vuoi all'antigiudaismo, vuoi all'antimodernismo. In sostanza: ai «tempi bui» del preconcilio. Lo affermano in maniera chiara tanto alcuni rappresentanti del mondo ebraico quanto alcuni teologi di orientamento progressista.

In realtà, le aspre critiche rivolte a Benedetto XVI nascono da una cattiva interpretazione del suo magistero, che viene ancora catalogato, da ampia parte della pubblicista laica e non solo, come «restauratore». Quello di Ratzinger sarebbe, insomma, un pontificato con lo sguardo tutto rivolto al passato, portatore di una prospettiva che nega il cammino compiuto dagli ultimi Papi nel dialogo con le altre religioni e con il mondo moderno. Un papato di retroguardia, dunque, che avrebbe come scopo principale quello di cancellare più o meno surrettiziamente le «conquiste» rese possibili dal Vaticano II, di soffocare lo «spirito del Concilio» e tutto ciò che esso ha rappresentato in questi ultimi decenni.

Coloro che sostengono questa lettura del pontificato ratzingeriano dimenticano di dire che fu proprio l'attuale Papa uno dei teologi più influenti durante le assise conciliari del 1963-1968. Al seguito del cardinale Frings, Joseph Ratzinger collaborò in maniera attiva all'elaborazione dei principali documenti del Vaticano II, fu considerato tra i più ferventi sostenitori del rinnovamento della Chiesa, attirando su di sé le severe critiche dei settori più «conservatori» dell'episcopato. Egli mai ha rinnegato la sua opera conciliare ed anzi la sua teologia successiva ha sviluppato quelle che erano le intuizioni e le idee originali, certo rimodulandole ma in nessun caso rovesciandole. Già negli ultimi anni del Vaticano II, però, Ratzinger si rese conto che il pericolo maggiore per le sorti stesse del Concilio era rappresentato dalla nascita di una vera e propria corrente ideologica, che leggeva l'evento conciliare come una «rifondazione» ab imis della Chiesa, e che, col furore tipico delle ideologie, spazzava via tutto ciò che non rientrava nei canoni dell'«aggiornamento» e dell'«ammodernamento». In questo modo, secondo lui, la ricchezza contenuta nei documenti prodotti dal Vaticano II sarebbe passata in secondo piano, soppiantata da una moda teologica parziale e settaria, che nulla di buono avrebbe portato al cammino della Chiesa (si veda, a tal proposito, Problemi e risultati del Concilio, Queriniana 1967).

Ratzinger vedeva giusto. Infatti l'ideologia prevalse sulla realtà. Le semplificazioni e gli schematismi ebbero la meglio sulla complessità dei problemi toccati dal Concilio. Tra questi problemi, due in particolare divennero oggetto di una propaganda a senso unico che finì col far perdere di vista la stessa lettera del Vaticano II: il rapporto con le altre religioni e il rinnovamento della liturgia. Per quanto riguarda il primo tema, si affermò l'idea di un dovere, da parte della Chiesa, di addivenire ad un dialogo specificamente religioso con le altre fedi, riconoscendo in ciascuna di elementi di verità sui quali costruire un cammino comune. Per quanto riguarda invece il secondo tema, si posero le premesse per una riforma liturgica che, di fatto, diede adito al pensiero che il rito preconciliare fosse ormai superato dal tempo, come se si trattasse di un vecchio mobile da mandare in soffitta. Nel primo caso, la conseguenza fu che si smarrì la consapevolezza dell'identità cattolica, della verità del cattolicesimo in quanto tale, incommensurabile con le altre religioni. Nel secondo caso, il risultato fu la banalizzazione della liturgia, la volgarizzazione non solo e non tanto della sua lingua, quanto della sua posizione all'interno dell'esperienza cristiana.

Non deve stupire, dunque, se oggi, divenuto Papa, Joseph Ratzinger tenti, proprio su questi aspetti, di fare chiarezza, rimediando non a errori del Vaticano II, quanto agli esiti negativi delle mode teologiche che hanno mitizzato il Concilio, trasformandolo in una sorta di entità metafisica sciolta dai suoi legami con la realtà concreta e con la storia. Sul primo punto (i rapporti con le altre religioni) egli già parlò chiaro da cardinale, con la Dominus Jesus del 2000, in cui ribadiva, da prefetto dell'ex Sant'Uffizio, l'unicità del cristianesimo, il suo essere «vera religione», l'originalità della sua «pretesa». Da Papa, poi, ha fatto emanare dalla Congregazione per la Dottrina della Fede le Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa, dove si ribadisce che la Chiesa cattolica «è l'unica Chiesa di Cristo». Sul secondo punto (la liturgia), come noto, con il motu proprio Summorum pontificum ha precisato che il rito antico non è mai stato abrogato e che esso rappresenta la forma straordinaria dell'unica liturgia cattolica.

Ma è proprio attorno a questi temi che sono anche fioccate, in questi anni di pontificato ratzingeriano, le contestazioni più aspre a Papa Benedetto: sulla questione dei rapporti con le altre religioni monoteistiche come non ricordare il clamore suscitato dal discorso di Ratisbona, le accuse di intolleranza, la «scomunica» dell'intellighenzia laicista e politicamente corretta? E sul nodo della «liberalizzazione» del rito preconciliare come dimenticare la levata di scudi di molti tra gli stessi sacerdoti e vescovi, con forme di dissenso pubblico quale il rifiuto di soddisfare la richiesta di gruppi di fedeli che chiedevano la messa di San Pio V? Oggi i due aspetti sembrano saldarsi dopo la decisione di Benedetto XVI di revocare la scomunica ai vescovi lefebvriani, non soltanto per le dichiarazioni negazioniste di monsignor Williamson e per la scelta di riammettere nella Chiesa i seguaci del tradizionalista scismatico, ma anche e soprattutto perché la critica di Lefebvre al Vaticano II riguardava proprio, in special modo, i rapporti con il popolo ebraico (la dichiarazione Nostra Aetate) e la liturgia.

Durante l'udienza generale di ieri, il Papa è intervenuto su questi argomenti: per quanto riguarda le relazioni con gli ebrei, ha rinnovato «con affetto la mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza», auspicando che «la Shoah sia per tutti monito contro l'oblio, contro la negazione o il riduzionismo», confermando in questo modo sia le sue riflessioni teologiche sul popolo ebraico contenute in molti suoi libri, sia le parole pronunciate nel suo viaggio ad Auschwitz nel 2006. Sulla revoca della scomunica ai lefebvriani, invece, ha ricordato che «in occasione della solenne inaugurazione del mio pontificato dicevo che è "esplicito" compito del Pastore "la chiamata all'unità"... Proprio in adempimento di questo servizio all'unità, che qualifica in modo specifico il mio ministero di successore di Pietro, ho deciso giorni fa di concedere la remissione della scomunica in cui erano incorsi i quattro vescovi ordinati nel 1988 da monsignor Lefebvre senza mandato pontificio». E ha concluso auspicando che al suo gesto «faccia seguito il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dell'autorità del Papa e del Concilio Vaticano II».

Le parole di Benedetto XVI, che peraltro giungono dopo quelle del superiore generale dei lefebvriani, monsignor Fellay («le affermazioni di monsignor Williamson non riflettono in nessun caso la posizione della nostra Fraternità»), sono state ben accolte dal mondo ebraico. Il direttore generale del rabbinato d'Israele, Oded Wiener, le ha definite «un grande passo avanti, molto importante per noi e per il mondo intero»; e il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, le ha accolte come «necessarie e benvenute: contribuiscono a chiarire molti equivoci sia sul negazionismo sia sul rispetto del Concilio». Il caso diplomatico, quindi, pare avviarsi alla conclusione. Quella che rimane aperta è invece la sfida del pontificato ratzingeriano, coraggiosamente determinato a sanare quelle ferite che l'ideologia del Concilio come «discontinuità e rottura» ha aperto, tanto nella Chiesa quanto nell'opinione pubblica mondiale. Come si vede dai fatti di questi giorni, si tratta di una sfida difficile, che deve sciogliere ancora tante incrostazioni che hanno impedito e impediscono tuttora una corretta comprensione della Chiesa, della sua storia e del suo annuncio.


Gianteo Bordero

sabato 24 gennaio 2009

LA CIFRA DI UN PONTIFICATO. BENEDETTO XVI REVOCA LA SCOMUNICA AI VESCOVI LEFEBVRIANI

da Ragionpolitica.it del 24 gennaio 2009

Benedetto XVI, con la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, scrive un'altra pagina importante del suo pontificato. Una pagina destinata a rimanere e, probabilmente, a diventare la cifra del papato ratzingeriano. Sanare uno scisma, infatti, significa medicare la ferita più profonda che possa essere inferta all'unità del corpo mistico di Cristo, la Chiesa: la divisione tra le sue membra. Dividere è facile, unire è molto più difficile. Papa Benedetto, rispondendo all'esortazione di Gesù nel Vangelo di Giovanni («Che siano una sola cosa affinché il mondo creda»), si avvia a chiudere definitivamente una delle vicende più dolorose nella storia della Chiesa degli ultimi due secoli. «Uno scisma piccolo - afferma Gianni Baget Bozzo intervistato dal Foglio - ma che ha avuto un ruolo importante nel post-Concilio».

I segnali di una pacificazione definitiva tra Roma ed Ecône (la cittadina svizzera nella quale monsignor Lefebvre aveva fondato il suo seminario alla fine degli anni Sessanta dopo la rottura definitiva con il Vaticano a causa delle riforme conciliari) si erano intensificati sin dai primi mesi del pontificato di Benedetto XVI: già sul finire dell'agosto 2005, infatti, Ratzinger aveva incontrato a Castel Gandolfo Bernard Fellay, superiore generale della Fraternità San Pio X. I comunicati ufficiali scaturiti da quell'incontro - sia quello della Santa Sede che quello dei lefebvriani - sottolineavano il desiderio reciproco di procedere gradualmente ad un riavvicinamento nel nome del comune amore per la Chiesa.

Ma l'evento decisivo è stato senz'altro la promulgazione del motu proprio «Summorum pontificum», del 7 luglio 2007, con il quale Benedetto XVI ha deciso di «liberalizzare» l'uso del messale romano di San Pio V (nella sua ultima versione risalente al 1962, Giovanni XXIII regnante) affermando che esso non è stato abrogato dalla riforma liturgica del 1970 e che il nuovo messale di Paolo VI rappresenta la forma ordinaria, ma non esclusiva, della liturgia cattolica. Un gesto, questo, che ha provocato numerose contestazioni all'interno della Chiesa, soprattutto da parte di coloro che - per usare un'espressione dello stesso Papa Ratzinger - considerano il Vaticano II come un momento di «rottura» rispetto al passato, una sorta di rifondazione della Chiesa scaturita dal compromesso con la modernità. Le contestazioni hanno assunto forme più o meno eclatanti, soprattutto in Francia (patria di Lefebvre), e lo stesso Benedetto XVI, durante il suo viaggio a Lourdes dello scorso anno, ha dovuto richiamare i vescovi transalpini al rispetto del motu proprio.

Ma le diffuse proteste non hanno fermato Papa Ratzinger. Anzi. Dopo aver ricevuto lo scorso 15 dicembre fa una lettera di monsignor Fellay che chiedeva la revoca della scomunica promulgata da Giovanni Paolo II nel 1988 («Siamo sempre fermamente determinati nella volontà di rimanere cattolici e di mettere tutte le nostre forze al servizio della Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo, che è la Chiesa cattolica romana. Noi accettiamo i suoi insegnamenti con animo filiale. Noi crediamo fermamente al Primato di Pietro e alle sue prerogative, e per questo ci fa tanto soffrire l'attuale situazione» scriveva Fellay nella missiva) e dopo aver appreso che la Fraternità San Pio X ha organizzato per il Natale 2008 una preghiera del rosario volta a «ottenere dalla Madonna il ritiro del decreto», ha valutato che i tempi erano maturi per il passo decisivo.

Il testo della revoca è stato diffuso questa mattina dalla sala stampa vaticana. In esso la Santa Sede afferma che «con questo atto si desidera consolidare le reciproche relazioni di fiducia e intensificare e dare stabilità ai rapporti della Fraternità San Pio X con questa Sede Apostolica. Questo dono di pace, al termine delle celebrazioni natalizie, vuol essere anche un segno per promuovere l'unità nella carità della Chiesa universale e arrivare a togliere lo scandalo della divisione. Si auspica che questo passo sia seguito dalla sollecita realizzazione della piena comunione con la Chiesa di tutta la Fraternità San Pio X, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del Magistero e dell'autorità del Papa con la prova dell'unità visibile».

Vedremo ora, dunque, se gli auspici del Vaticano troveranno rapida realizzazione. Ma quello che sin d'ora si può dire è che Benedetto XVI, che già quand'era come cardinale alla guida dell'ex Sant'Uffizio aveva provato ripetutamente a raggiungere un accordo con i lefebvriani, ha compiuto un gesto di alto valore storico ed ecclesiologico. Riammettendo i vescovi ordinati da Lefebvre alla piena comunione con Roma, egli chiude definitivamente un'epoca, si lascia alle spalle la deleteria spaccatura post-conciliare tra tradizionalisti e progressisti, riconosce che anche i primi avevano delle ragioni che solo le mode teologiche del momento hanno impedito di valutare sino in fondo.

Riprendendo un'immagine usata da Jean Guitton in un suo famoso saggio, potremmo dire che, con la sua decisione, Papa Ratzinger contribuisce a ricucire la veste di Cristo dilacerata nella storia dagli scismi e dalla divisione tra i cristiani. Guitton sostiene che gli strappi, sin dalla grande eresia ariana, hanno sempre fatto assumere alla Chiesa maggiore coscienza di sé e della sua missione. Ora che uno di questi strappi si appresta ad essere sanato, è augurabile che i motivi che l'hanno causato possano essere finalmente letti alla luce della ritrovata unità delle membra, e non con le lenti di un fanatismo ideologico e teologico che ha fatto solo tanto male alla Chiesa in questi ultimi decenni.

Gianteo Bordero

sabato 17 gennaio 2009

LUCIA, MICHELE E LE DUE SINISTRE

da Ragionpolitica.it del 17 gennaio 2009

Lucia Annunziata che litiga con Michele Santoro, prende su e se ne va da Annozero è davvero un caso unico nella storia del giornalismo televisivo italiano. Certo, avevamo avuto - solo per restare ai tempi recenti - Silvio Berlusconi che, nell'infuocata campagna elettorale del 2006, abbandonò - nemesi della storia - il programma della stessa Annunziata, In mezz'ora; e poi Clemente Mastella, stavolta ancora da Santoro, che furibondo aveva alzato i tacchi per una trasmissione a senso unico contro la Chiesa cattolica.

Ma lo scontro tra Lucia e Michele, che rappresentano, ciascuno a suo modo, quasi due icone del giornalismo di sinistra in Italia, deve davvero far riflettere. Annunziata e Santoro fanno opinione e, a volte, persino tendenza. Spesso si rivolgono a pubblici e a sensibilità diverse. Ma nell'immaginario collettivo del cosiddetto «cittadino medio» finiscono per essere accomunati da un unico destino: quello di rappresentare la sinistra in tv. Lo scontro tra i due, dunque, fa davvero rumore. E travalica i confini del tubo catodico, finendo per portare con sé anche strascichi politici. Perché Lucia e Michele hanno mostrato, anche plasticamente, che il luogo comune che li vuole «unica voce dell'unica sinistra» va oggi aggiornato: sono, in realtà, due voci diverse di due diverse sinistre. Due voci che, in quanto di orgogliosamente e visceralmente di sinistra, ciascuna convinta di rappresentare la vera gauche nostrana, non potevano che finire prima o poi ai ferri corti. E lo scontro non poteva essere all'acqua di rose.

Lucia la raffinata che dirige Aspenia, la rivista dell'Aspen Institute Italia il cui presidente è nientepopodimeno che il ministro Giulio Tremonti; Lucia editorialista de La Stampa, dalle cui pagine lancia fendenti anche contro quella parte della sinistra meno aperta al cambiamento; Lucia conduttrice di un programma-colloquio, un faccia a faccia che va in onda alle 14 e 30 passate su Rai 3 nel giorno festivo e che solo un pubblico molto affezionato può decidere di guardare posticipando di mezzo'ora la passeggiata o la gita della domenica pomeriggio. Michele, invece, è il condottiero della prima serata, quello del grande pubblico, degli inviati sul campo, dei servizi «impolverati» dalle fabbriche o dai campi di battaglia; quello della guerra santa contro la Casta; quelle delle inchieste contro i potenti; quello della crociata pro-magistrati.

Entrambi faziosi, con la differenza che spesso lei dissimula, mentre lui non fa nulla per nascondere la sua partigianeria per questa o per quella causa. Entrambi testardi, non potevano prima o poi prendersi a capocciate. Che questo sia accaduto sul tema della guerra nella Striscia di Gaza e del rapporto tra Israele e Palestina, argomenti che toccano le corde più profonde dell'intellighenzia gauchista, dà ancor di più il senso della distanza tra i due e, con loro, della distanza tra le sinistre che essi rappresentano. Da una parte una sinistra riformista che guarda realisticamente alla complessità degli eventi e che, dopo aver abbandonato l'antico atteggiamento di ostilità del Pci nei confronti di Israele, comprende anche le ragioni dello Stato ebraico ed è pronta a sostenerle, come ha fatto pubblicamente qualche giorno fa Piero Fassino; dall'altra parte una sinistra ancora legata mani e piedi al suo passato, alla scelta terzomondista di Berlinguer, alla considerazione di Israele come parte dello schieramento «imperialista» e per ciò stesso guerrafondaio, sfruttatore e colonialista.

Quale di queste due sinistre sia oggi prevalente è presto detto. Lo si capisce non soltanto dall'audience di Santoro, ma anche dalla scelta di cinque deputati del Partito Democratico di non partecipare alla manifestazione pro-Israele organizzata mercoledì sera davanti a Montecitorio: tale partecipazione - a detta degli onorevoli democratici - avrebbe potuto dare adito al pensiero di un loro sostegno acritico all'intervento israeliano a Gaza. Per questo, Lucia l'amica di Israele costretta ad abbandonare gli studi Rai per l'aggressione verbale di Michele il partigiano palestinese è un po' anche l'icona della sinistra che, nella lotta tra due visioni del mondo sempre più distinte e distanti, è destinata a soccombere.


Gianteo Bordero

venerdì 16 gennaio 2009

L'ASSESSORE CESELLI NON MOLLA LA POLTRONA

Comunicato stampa del gruppo consiliare di Sestri Levante "Pdl-Lega-Udc-Per Ianni sindaco"

L’assessore Ceselli ha annunciato durante il Consiglio Comunale di giovedì sera che non si dimetterà in seguito alle due vicende che lo hanno visto, nelle ultime settimane, finire nell’occhio del ciclone: quella delle progressioni orizzontali dei dipendenti comunali e quella della maxi-stangata calata come una mannaia su commercianti e cittadini attraverso l’introduzione del Canone per l’Occupazione di Spazi ed Aree Pubbliche. La maggioranza ha difeso Ceselli in maniera a dir poco tiepida, senza il minimo entusiasmo, e il sindaco s’è limitato a dire che non gli ritirerà le deleghe.

Osserviamo che l’unica cosa che non manca in Giunta è la colla con la quale ciascuno, anche dopo aver ripetutamente commesso clamorosi errori marchiani, resta attaccato alla sua poltrona, come se niente fosse. La stella polare che guida l’azione della Giunta Lavarello, evidentemente, non è il criterio del “ben amministrare”, bensì l’antico motto “Tutto bene, madama la marchesa”. L’importante, per il sindaco, gli assessori e la maggioranza, è rimanere in sella costi quel che costi. A fare le spese di questo atteggiamento, ovviamente, sono i cittadini, costretti ad assistere al poco edificante spettacolo di un’Amministrazione la cui incapacità a governare Sestri è pari soltanto alla cinica ostinazione con cui gestisce il potere in maniera fine a se stessa.

Giuseppe Ianni (capogruppo)
Gianteo Bordero
Marco Conti
Giancarlo Stagnaro

giovedì 15 gennaio 2009

VELTRONI "PLENIPOTENZIARIO" A PAROLE, SFIDUCIATO NEI FATTI

da Ragionpolitica.it del 15 gennaio 2009

Nella riunione della direzione del Pd del 19 dicembre, a Walter Veltroni erano stati affidati «pieni poteri» per affrontare la crisi del partito, stritolato in quel frangente dagli scandali delle giunte locali, da un ulteriore calo dei consensi e, come se ciò non bastasse, da una litigiosità interna che sembrava aver ampiamente debordato dai limiti della fisiologica dialettica tra dirigenti. Il segretario aveva tirato un sospiro di sollievo: almeno fino al momento cruciale delle elezioni europee e amministrative di giugno avrebbe potuto concentrarsi, come si suol dire, «sul pezzo» ed evitare di passare ogni minuto delle sue giornate a parare i colpi più o meno bassi dei suoi «fratelli coltelli».

Ma il sollievo di Veltroni è durato poco, nemmeno lo spazio di un mese. E' notizia di oggi quella di una sonora stroncatura del segretario «plenipotenziario», avvenuta durante il cosiddetto «caminetto» del Pd svoltosi ieri. Materia del contendere: la proposta di un accordo con il Pdl sulla riforma della legge elettorale europea, riforma che dovrebbe ruotare attorno a due cardini: un sistema misto lista bloccata-preferenze e l'introduzione di un significativo sbarramento. Lo scopo di Veltroni era chiaro: concedere al Popolo della Libertà le liste bloccate per riuscire a portare a casa uno sbarramento tale da favorire il meccanismo del «voto utile» al Pd da parte degli elettori degli altri partiti della sinistra, come già avvenuto il 13 e 14 aprile scorsi.

Dopo tre ore di discussione - riportano le cronache politiche - il segretario ha dovuto cedere dinanzi alla contrarietà di maggiorenti del partito quali Massimo D'Alema, Francesco Rutelli, Franco Marini ed Enrico Letta. Alla fine del «caminetto» il portavoce del partito, Andrea Orlando, ha riassunto così l'esito della riunione: «E' emersa l'opportunità di rimanere sul sistema che prevede il mantenimento delle preferenze e l'individuazione di uno sbarramento che permetta di superare la frammentazione politica». Lo sbarramento è previsto al 4%, «ma su questo siamo disposti a discutere».

In sostanza, dunque, una bocciatura della proposta del segretario, avvenuta per mano degli stessi che, neanche un mese fa, gli avevano dato carta bianca per risollevare le sorti del partito. Una bocciatura soltanto all'apparenza «tecnica», riguardante cioè i complicati meccanismi dell'ingegneria elettorale. In realtà, l'affondo critico di D'Alema, Rutelli, Marini e Letta è pienamente politico, e riguarda un capitolo fondamentale come quello delle alleanze. La richiesta veltroniana di un robusto sbarramento era funzionale, infatti, al mantenimento in vita della linea della «vocazione maggioritaria» del partito, cioè l'anima del progetto del segretario, volto a fare del Pd una «maggioranza riformista» (egli stesso lo ha confermato durante l'ultima puntata di Ballarò). Contestare tale riforma della legge elettorale europea significa, quindi, contestare la stessa strategia veltroniana.

Basta leggere l'intervista a Enrico Letta apparsa sulla Repubblica quest'oggi per averne conferma: «Un partito del 33% - dichiara - non ce la fa da solo. La formula della "vocazione maggioritaria" va radicalmente rivista... Il Pd non può vivere con la stampella degli sbarramenti. Bisogna passare dal voto utile al voto convinto». Secondo Letta, se il Partito Democratico vuole tornare al governo, deve «lavorare per sedurre l'elettorato moderato. Deve farlo il Pd e dobbiamo aiutare l'Udc a fare altrettanto legandola sempre più a noi». Insomma: «Dobbiamo dialogare in maniera strutturale con i centristi, non metterli sullo stesso piano di Di Pietro (come aveva fatto Veltroni a Ballarò, ndr). Il Pd continua a tenere da parte il tema delle alleanze come se non esistesse. Invece esiste eccome».

Le affermazioni di Letta si aggiungono a quelle di D'Alema e di Rutelli delle settimane e dei giorni passati e non fanno che confermare l'impressione che la linea strategica proposta da Veltroni abbia ormai fatto il suo tempo. A vantaggio del segretario, però, gioca il fatto che le alternative finora proposte, invece che una soluzione, assomigliano più a una pezza con cui si tenta di coprire la voragine della crisi strutturale non soltanto del Pd, ma dell'intera sinistra italiana. Aggiungere l'Udc da un lato o frammenti della sinistra antagonista dall'altro è soltanto sommare debolezza a debolezza. Per paradossale che possa sembrare, è questa debolezza, oggi, la forza di Veltroni.


Gianteo Bordero

sabato 10 gennaio 2009

UNA VIA PER GUARESCHI

Comunicato stampa del 10 gennaio 2009

La manifestazione in ricordo di Giovanni Guareschi, che si svolgerà domani a Trigoso alla presenza dei figli Carlotta e Alberto, mi dà l’occasione per rendere noto che alla fine dello scorso mese di giugno ho proposto, nella commissione consiliare sulla toponomastica, di intitolare una strada del borgo trigosino al grande scrittore. Trigoso, dove l’autore del “Mondo Piccolo” soggiornò durante l’infanzia, ha già ricordato Guareschi, nel corso degli anni, con una statua, una targa sulla facciata della canonica e un libro della collana “I ciottoli”, firmato da Carlo Stagnaro. Quando ho saputo, come membro della commissione toponomastica, che vi era la necessità di dare un nome a una nuova via del borgo, ho sùbito pensato a Guareschi, non soltanto perché ricorreva il centenario della nascita, ma anche perché ritengo un onore, per la nostra città, l’aver ospitato una delle figure più geniali, originali e acute del Novecento italiano e non solo.

Ho avuto la fortuna, sin da bambino, di conoscere Guareschi attraverso i suoi scritti e attraverso i film di Don Camillo e Peppone. Da qui ho imparato che la politica, talvolta anche nella forma della lotta aspra, mantiene intatta la sua dignità e la sua utilità per il popolo soltanto se essa è animata da un vivo senso di umanità, di appartenenza comune a una storia e a una patria, di disponibilità al sostegno reciproco. Quando Guareschi parla di politica nei suoi racconti, ha la dote straordinaria di metterne alla berlina i difetti e, allo stesso tempo, di esaltarne i pregi. Di far sorridere e, la pagina successiva, di far commuovere. In tempi di antipolitica e di cinismo calcolatore, leggere le storie del reverendo Camillo e del sindaco Peppone è come prendere una boccata d’aria pura, respirare a pieni polmoni il sapore dell’umanità leale e genuina, riportare la mente e il cuore su ciò che veramente conta per chi è chiamato a rappresentare i cittadini.

Per tutti questi motivi sono lieto che la commissione toponomastica abbia approvato all’unanimità la mia proposta. Spero, in forza di ciò, che presto il Consiglio Comunale possa dare il via libera definitivo all’intitolazione di Via Guareschi.

Gianteo Bordero
Vice-presidente del Consiglio Comunale di Sestri Levante
Consigliere Comunale del gruppo "Pdl-Lega-Udc-Per Ianni sindaco"

LA FINE DI UNA STAGIONE

da Ragionpolitica.it del 10 gennaio 2009

Le vicende che ruotano attorno alla giunta napoletana di Rosa Russo Iervolino non sono soltanto l'ennesima conferma della crisi in cui versa il Partito Democratico, ma anche - e forse soprattutto - il sintomo della definitiva consunzione di una fase politica iniziata quindici anni fa: la cosiddetta «stagione dei sindaci». Che ciò accada nella città partenopea non è casuale: il mito dei sindaci finisce laddove era iniziato, con l'elezione a primo cittadino di Antonio Bassolino, nel 1993. Fu infatti nella tornata amministrativa dell'autunno di quell'anno che trovò applicazione, per la prima volta, la nuova legge per l'elezione diretta dei sindaci, varata soltanto pochi mesi prima. Tale legge rivoluzionò il sistema di equilibrio dei poteri negli enti comunali, toccando due punti fondamentali: in primo luogo, al sindaco veniva assegnato il potere di nomina e di revoca diretta degli assessori senza «passare» attraverso il voto del Consiglio comunale; in secondo luogo, la nuova normativa prevedeva un robusto premio di maggioranza consiliare a favore del sindaco vincente. Come si vede, un sistema che fino ad allora aveva avuto come perno i partiti e le loro segreterie politiche venne di colpo ridisegnato, in ossequio al nuovo dogma del sistema maggioritario, attorno alla figura del primo cittadino in quanto tale.

I sindaci si trovarono all'improvviso tra le mani un potere e un'autorità prima sconosciuti, divennero i decisori unici e ultimi della vita amministrativa dei Comuni, con tutto ciò che questo avrebbe potuto comportare, nel bene (la governabilità) e nel male (l'eccessiva concentrazione del potere nelle mani di uno solo). Nell'ottobre del '93, i sindaci che salirono alla ribalta nazionale furono, tra gli altri: il già citato Antonio Bassolino a Napoli, Francesco Rutelli a Roma, Leoluca Orlando a Palermo, Massimo Cacciari a Venezia, Riccardo Illy a Trieste, Enzo Bianco a Catania, Adriano Sansa a Genova, solo per citare i più importanti. Nell'immaginario collettivo di un'Italia che usciva a pezzi da Mani Pulite, con una perdita pressoché totale di fiducia nella politica, i sindaci divennero il simbolo di un nuovo corso, le figure carismatiche che rimediavano al malgoverno prodotto da partiti corrotti e inaffidabili.

Nessuno che vedesse, allora, nell'ubriacatura generale del post Tangentopoli, che slegare il livello amministrativo da quello politico avrebbe potuto riprodurre, in scala ancora maggiore, gli stessi guasti che si volevano combattere e archiviare. L'errore, in quella fase, non fu tanto il dare rilievo al buon amministrare del sindaco contrapposto alle furberie e all'inconcludenza dei partiti, quanto credere che ciò potesse bastare per porre rimedio alla crisi generale della politica dei primi anni Novanta. Pensare che cancellare la politica come visione generale di governo e mettere al bando i partiti in quanto tali significasse per ciò stesso eliminare dalla scena anche le peggiori pratiche della tanto detestata prima Repubblica, fu un grossolano errore di valutazione, le cui conseguenze sono oggi sotto gli occhi di tutti.

A spingere astutamente l'opinione pubblica verso l'accettazione di questa vulgata fu soprattutto la sinistra, in particolare il Pds, alla ricerca di una nuova identità e di una nuova verginità politica dopo la fine del Pci. In assenza di idee-guida su cui fondare una proposta alta e altra da quella del passato, il «territorio» e il controllo di esso diventarono lo scopo ultimo della strategia del partito sopravvissuto, assieme alla sinistra democristiana, all'ondata di Tangentopoli. Non che prima il territorio fosse un fattore ininfluente, anzi. Ma, a partire dal ‘93, slegato da qualsiasi politica nazionale organica e di ampio respiro, esso finì col produrre due fenomeni che oggi tutti criticano, compresi coloro che, quindici anni fa, furono i primi a tessere acriticamente le lodi per l'inizio della gloriosa «stagione dei sindaci»: il diffondersi di «mine politiche vaganti», rappresentate dai primi cittadini più in vista e desiderosi di costruirsi in quanto tali una posizione ben oltre i confini del proprio Comune, e, soprattutto, lo svilupparsi di clientele locali ramificate in ogni settore dell'amministrazione, dalla gestione degli appalti pubblici a quella dei servizi, con pratiche non certo virtuose e per nulla improntate al criterio del «ben amministrare».

Quello a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, con diverse giunte comunali guidate dalla sinistra finite nel mirino della magistratura (Napoli, Firenze, Pescara) costituisce quindi il canto del cigno di un sistema che per tre lustri ha potuto crescere pressoché indisturbato, godendo di ottima stampa e di una pubblicistica che ne ha mitizzato i protagonisti, presentati come i nuovi messia della politica italiana, come coloro che avrebbero raddrizzato le sorti della Repubblica in forza delle loro sindacature virtuose. Basti pensare, tra gli altri, a Francesco Rutelli e al suo successore sul Campidoglio, Walter Veltroni. Oggi il mito crolla, le statue degli eroi vanno in frantumi e al posto della gloria di un tempo ci sono le inchieste delle procure, gli scandali, i trucchetti per restare in sella qualche mese in più, nella sfiducia generale dei cittadini. E il Pd, che è stato il primo beneficiario della «stagione dei sindaci», è oggi, inevitabilmente, il partito che paga in maniera più pesante le conseguenze della sua fine. Come ha detto Emanuele Macaluso al Messaggero di giovedì: «Il Partito Democratico è nato mettendo insieme una enorme macchina di potere locale, una serie di potentati locali, di apparati costruiti con l'obiettivo di rinsaldare e perpetuare il potere ottenuto». Il risultato? «Il degrado morale e più ancora politico». Col serio rischio di scomparire per sempre dalla scena, non soltanto a Napoli.

Gianteo Bordero

mercoledì 7 gennaio 2009

ANNO NUOVO, VITA VECCHIA. PD SEMPRE NEL CAOS

da Ragionpolitica.it del 6 gennaio 2009

Il 2008 è stato un annus horribilis per il Partito Democratico, iniziato male (con la caduta del governo Prodi e la pesante sconfitta elettorale del 13 e 14 aprile) e finito peggio (con diverse amministrazioni locali a guida Pd finite nel mirino della magistratura e altre in crisi per divisioni interne allo stesso partito). Difficile immaginare, dopo tanti disastri, qualcosa di peggiore. Ma la realtà, spesso, supera l'immaginazione. E allora eccoci qua a commentare il pessimo inizio d'anno dei Democratici.

Il fattaccio più grave accade a Napoli, dove il tenace e testardo sindaco Rosa Russo Iervolino, con un numero d'alto equilibrismo politico, riesce a rimanere in sella dopo il ciclone giudiziario abbattutosi sulla sua giunta sul finire del 2008. Un ciclone che ha spazzato via 4 assessori (arrestati dalla procura partenopea) ed ha trascinato con sé anche la vita di Giorgio Nugnes, morto suicida proprio mentre emergevano i primi dettagli dell'inchiesta «Magnanapoli». La Iervolino, invece che dare le dimissioni - come ci si sarebbe aspettati da un qualsiasi sindaco consapevole di portare su di sé la responsabilità politica dell'intera giunta - si ripresenta lunedì alla città con una squadra che vede solo sei volti nuovi al posto degli indagati e dei dimissionari e la riconferma di dieci vecchi assessori.

Oltre che contro ogni buon senso e ogni buon gusto politico, la scelta del sindaco va anche contro le indicazioni arrivate dalla segreteria provinciale del Partito Democratico, che le aveva recapitato, in sostanza, un messaggio di questo tipo: «Cara Rosetta, la cosa migliore in linea teorica sarebbero le dimissioni, perché lo spettacolo che state dando a Napoli è disgustoso per i cittadini e deleterio per il partito. Ma se tu ti dimetti, ecco che arriva il commissario, a giugno si va a votare e facciamo la stessa fine che in Abruzzo. Perciò bisogna salvare capra e cavoli. Bisogna rifare una bella giunta nuova di zecca, che dia il segno della netta discontinuità col passato: così tu rimani in sella e, allo stesso tempo, il partito ha l'opportunità di riorganizzarsi e lavarsi di dosso il fango delle inchieste giudiziarie». Invece niente. Nessuna discontinuità e nessuna rottura con il passato: il massimo che il sindaco riesce a produrre è un rimpastino da minimo sindacale.

E' a questo punto che il coordinatore provinciale, Luigi Nicolais, prende carta e penna e scrive una lettera indirizzata a Walter Veltroni in cui annuncia le sue dimissioni. Afferma l'ex ministro del governo Prodi: «La città di Napoli in questi giorni ha attraversato una tra le più gravi crisi istituzionale degli ultimi anni. Il Partito Democratico napoletano, interpretando la crisi di fiducia manifestata dai cittadini verso il governo locale, ha adottato una linea politica tesa a sostenere un profondo rinnovamento dell'azione amministrativa della città e degli uomini che sono chiamati a rappresentarla. Purtroppo, non essendo riuscito a concretizzare il mandato ricevuto dal partito napoletano e a trasferire ai vertici del Pd nazionale la drammaticità del momento e la necessità di una svolta coraggiosa che consentisse di recuperare la fiducia dei cittadini, ritengo che non ci siano più le condizioni per il prosieguo del mio mandato». Conclusione: «Pertanto, rassegno le mie irrevocabili dimissioni da segretario del Pd di Napoli».

Al posto di Nicolais, Walter Veltroni nomina subito come commissario provinciale il senatore Enrico Morando, suo uomo di fiducia e coordinatore del governo ombra. A lui toccherà l'ingrato compito di gestire una situazione incandescente, nella quale appare sempre più difficile, per la segreteria nazionale, farsi valere come tale. Infatti Veltroni, al di là delle dichiarazioni di principio sul «rinnovamento» interno al partito, in queste settimane è costretto a muoversi con i piedi di piombo: in assenza di una chiara linea politica nazionale, il potere locale è rimasta l'unica roccaforte a cui il Pd può aggrapparsi per rimanere a galla - il vero obiettivo della leadership democratica per il 2009. Ma se il buongiorno si vede dal mattino...

Gianteo Bordero