mercoledì 24 dicembre 2008

SANTO NATALE 2008


sabato 20 dicembre 2008

IL CORAGGIO DI SACCONI

da Ragionpolitica.it del 18 dicembre 2008

La notizia è questa: checché ne dica la casta dei vari Grillo, Di Pietro, Travaglio, Flores D'Arcais e compagnia, checché ne pensi una certa magistratura che interpreta il suo ruolo come quello del custode unico e insostituibile dell'etica pubblica, dalla politica può ancora venire qualcosa di buono per il paese. Cioè per la vita del popolo italiano. Seguendo l'insegnamento della migliore e tanto bistrattata prima Repubblica, che educava i giovani impegnati nei partiti democratici e liberali al tanto vituperato «primato della politica», il ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, Maurizio Sacconi, ha diffuso ieri l'altro una direttiva destinata a lasciare il segno oltre la contingenza storica cui essa si riferisce.

Il caso è noto: dopo la recente sentenza definitiva della Corte di Cassazione, a Eluana Englaro potrebbero essere sospese l'idratazione e la nutrizione da un momento all'altro. Ciò comporterebbe, per la donna, una lunga agonia e ad un'atroce morte di fame e di sete. Il perché si sia giunti a questo punto è ormai risaputo: «Eluana è già morta», «Eluana è un vegetale», «Meglio una morte degna che una vita indegna» ripetono da tempo, a ogni pie' sospinto, i tanti Umberto Veronesi sparsi per la Penisola, convinti, in forza della loro suprema Scienza, di poter essere i giudici insindacabili della vita e della morte delle persone. Il problema, però, sorge nel momento in cui diventa necessario individuare un ospedale, una clinica, una struttura che accetti di ospitare tra le sue mura gli ultimi giorni di Eluana, che lasci morire la giovane «come un vegetale» privato del sostegno vitale. Si fa avanti una clinica friulana. Che, in accordo con la famiglia e con i medici e gli avvocati di questa, prepara il «ricovero», quello che i giornali chiamano «l'ultimo viaggio di Eluana».

E' di fronte a questa situazione che Maurizio Sacconi decide di intervenire con i suoi poteri di ministro emettendo una direttiva che parla chiaro: interrompere la nutrizione e l'idratazione di una persona in «stato vegetativo persistente» rappresenta un atto oggettivo di abbandono del malato. Sacconi si rifà, per motivare la sua direttiva, a un parere espresso il 30 settembre 2005 dal Comitato nazionale di bioetica e alla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, approvata dall'Onu il 13 dicembre 2006. Nel primo documento si afferma che la somministrazione di cibo e acqua, venga essa fornita per vie naturali o artificiali, «è il sostentamento ordinario di base». Nutrizione ed idratazione, secondo il Comitato di bioetica, «vanno considerati atti dovuti eticamente (oltre che deontologicamente e giuridicamente) in quanto indispensabili per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere». Nella Convenzione delle Nazioni Unite si stabilisce, poi, che gli Stati membri «riconoscono che le persone con disabilità hanno il diritto di godere del migliore stato di salute possibile, senza discriminazioni fondate sulla disabilità». Per questo è compito dei governi «prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazione di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità». In forza di ciò il ministro invita le Regioni «ad adottare le misure necessarie affinché le strutture sanitarie pubbliche e private si uniformino ai principi sopra esposti e a quanto previsto dall'articolo 25 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità».

Come prevedibile, la direttiva approntata da Sacconi innesca subito la solita ridda di polemiche: forti critiche al ministro vengono dalla stampa laicista, dal magistrato che ha emesso l'ultima sentenza, dal dottore di Eluana, dalla lobby dei medici favorevoli alla «dolce morte», dai partiti della sinistra e chi più ne ha ne metta. L'accusa è quella di voler impedire alla giustizia di fare il suo corso, di voler imporre un'etica di Stato, di voler accontentare il Vaticano. Nessuno, però, che si chieda se la decisione di Sacconi corrisponda o meno a un oggettivo interesse pubblico, che come tale deve essere tutelato dalla politica: quello di salvaguardare la vita come bene primario e indisponibile, impedendo che essa venga trattata non secondo il criterio della giustizia e del diritto, ma in base all'arbitrio e ai dettami contingenti della cultura dominante. Noi riteniamo che il ministro abbia fatto quello che un rappresentante del popolo e delle istituzioni deve fare: intervenire, usando i mezzi di cui per legge dispone, per riaffermare il principio dell'interesse generale e del bene comune di fronte ai tentativi di poteri non eletti di trasformare una visione patentemente di parte in un dogma etico per tutti. L'alternativa è ritenere che la vita sia un bene relativo, con tutte le conseguenze e le ricadute del caso in termini di rispetto della persona, soprattutto di quella più debole e indifesa. Come Eluana. Sarebbe, questa, vera civiltà?

Gianteo Bordero


martedì 16 dicembre 2008

IL LUNEDÌ NERO DEL PD

da Ragionpolitica.it del 16 dicembre 2008

Già la mattina non prometteva bene, con i dati sulla bassa affluenza ai seggi che allarmava il quartier generale del partito. Poi il pomeriggio confermava le più cupe previsioni. Verso le 18, dopo 3 ore di scrutinio, iniziavano a delinearsi le dimensioni del patatrac. A quell'ora, infatti, non soltanto il candidato del centrodestra, Gianni Chiodi, si posizionava stabilmente tra i 6 e gli 8 punti percentuali di vantaggio sul suo avversario Carlo Costantini, ma soprattutto prendeva forma quello che sarebbe stato il vero dato politico della giornata: al crollo verticale del partito di Veltroni corrispondeva la crescita esponenziale dell'Italia dei Valori. I dati definitivi, a notte inoltrata, dicono che il Pd è affondato, passando dal 33,5% del 13-14 aprile a un misero 19,6%, mentre Antonio Di Pietro e la sua Idv sono saliti dal 7% al 15%. I democratici, dunque, hanno perso in 7 mesi il 40% dei loro consensi, mentre i dipietristi li hanno raddoppiati. Se il raffronto, poi, è con le regionali del 2005, quelle che videro trionfare Ottaviano Del Turco, le cose per il Pd vanno ancora peggio: Ds più Margherita (allora separati) ottennero il 35,4% (rispettivamente il 18,6 e il 16,8%), mentre l'Idv si fermò al 2,4%. Rispetto a soli 3 anni fa, dunque, il numero di elettori del Pd in Abruzzo s'è quasi dimezzato, mentre i sostenitori del partito dell'ex pm si sono sestuplicati. Numeri da capogiro, in un senso e nell'altro. Che non possono essere spiegati, come invece hanno fatto numerosi esponenti del Pd, soltanto con l'elevato astensionismo.

Intanto, ai microfoni delle tv e sulle agenzie, in serata Antonio Di Pietro iniziava gongolante il suo show fatto di proclami trionfalistici e di j'accuse, di auto-incoronazione a nuovo leader del centrosinistra e di bordate contro il Partito Democratico. Dichiarava, ad esempio, il capo dell'Idv: «Noi abbiamo rilanciato la questione morale senza la quale i cittadini vedono che nulla cambia... I partiti che non sono né carne né pesce, che fanno riunioni, che dicono "ma anche" e che non si decidono, vengono puniti». Come con una trottola, l'ex pm si prendeva gioco dell'alleato: dopo esser riuscito a fargli sostenere il suo candidato presidente, ora lo accusava di non essere all'altezza della missione «moralizzatrice» incarnata dall'Italia dei Valori. Dalla padella alla brace. Tutto prevedibile? Forse, ma il talento naturale di Di Pietro, la sua capacità di infierire sui deboli e di capitalizzare poi politicamente i frutti delle sue requisitorie, hanno reso ancor più grama la giornata dei democratici.

Ma la mazzata finale doveva ancora arrivare. Il peggio era dietro l'angolo. Un'Ansa delle 23.53 annunciava infatti l'arresto di Luciano D'Alfonso. Il quale, oltre ad essere sindaco di Pescara, è pure il coordinatore regionale del Partito Democratico. Finito già nei mesi scorsi nel mirino della Procura della Repubblica, avrebbe annunciato stamane le sue dimissioni dalla carica di primo cittadino e dalla segreteria abruzzese del Pd. Tra le accuse quella di concussione, truffa e peculato per un appalto sui cimiteri, nonché falso ideologico e associazione per delinquere. Ex Ppi, ex Margherita, già giovanissimo presidente della Provincia di Pescara, oggi al secondo mandato amministrativo, solo qualche ora prima dell'arresto D'Alfonso aveva analizzato la sconfitta del suo partito parlando di una «disaffezione» dell'elettorato di centrosinistra «di cui ci sentiamo responsabili». Dopo Genova, Napoli e Firenze, un nuovo caso destinato a gettare altra benzina sul fuoco in casa democratica.

Il giorno dopo, le ferite ancora sanguinano e i dirigenti del Pd cercano di puntellare come possono i fondamenti dell'edificio faticosamente costruito nell'ultimo anno. Ma crescono i mal di pancia interni, aumenta il malcontento di coloro (e non sono pochi) che vedono come fumo negli occhi l'alleanza con Di Pietro, e che oggi, dopo che il voto abruzzese ha reso anche plasticamente l'idea della stretta mortale con cui l'ex pm sta cingendo il Pd, hanno un argomento in più per far valere le loro ragioni di fronte al segretario. Il quale è chiamato ora a giocare la partita più difficile non soltanto da quando è alla guida del Partito Democratico, ma di tutta la sua carriera politica: tenere in piedi una casa pericolante non soltanto a causa dei continui scossoni dovuti alle correnti interne, ma per la sferza dei venti (Di Pietro e le inchieste giudiziarie) che dall'esterno soffiano senza posa, giorno dopo giorno, con sempre maggiore forza e intensità. Mai il crollo è stato così vicino.

Gianteo Bordero

giovedì 11 dicembre 2008

VOTI IN FUGA

da Ragionpolitica.it dell'11 dicembre 2008

In attesa che arrivino i voti reali, quelli che usciranno dalle urne il prossimo lunedì dopo le elezioni regionali abruzzesi, in questi giorni il Partito Democratico deve fare i conti con i voti «virtuali» rilevati dai sondaggi. Due in particolare: quello condotto dall'Ispo di Renato Mannheimer per Affaritaliani.it e quello commissionato da Repubblica.it all'Ipr-Marketing. Il quadro che ne esce, per il Pd, è a dir poco sconfortante, sotto tutti i punti di vista. Non deve stupire, perciò, che nella giornata di ieri Walter Veltroni e Massimo D'Alema, nell'ultimo mese al centro di una lotta senza quartiere, abbiano deposto l'ascia di guerra per fronteggiare con una parvenza di unità l'allarme rosso proveniente dalle indagini demoscopiche. Ma procediamo con ordine.

L'Ispo ha reso noto che, negli ultimi 15 giorni, il Partito Democratico ha subito una flessione quantificabile in un milione di voti, passando dal 30% di due settimane fa all'odierno 28%. Commentando i risultati dell'indagine, Mannheimer ha dichiarato ad Affaritaliani.it che questi voti «sono andati un po' all'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e un po' sparsi». I motivi di questa débacle? «Le questioni interne, i continui conflitti tra le varie anime del partito e anche le recenti vicende giudiziarie che hanno colpito il Pd in diversi comuni, da Napoli a Firenze».

Ipr-Marketing, invece, si è concentrata sulle intenzioni di voto degli italiani in vista delle elezioni europee della prossima primavera. Anche in questo caso, per quanto riguarda il dato nazionale complessivo, il partito di Veltroni si assesta su un deludente 28%. Un dato di gran lunga inferiore non soltanto al risultato ottenuto alle politiche del 13 e 14 aprile scorsi (-5,2%), ma anche alle europee del 2004, quando Ds e Margherita, presentatisi insieme a Sdi e Repubblicani sotto le insegne della lista «Uniti per l'Ulivo», avevano raggiunto quota 31,1%. Le cose non vanno meglio se si analizzano i dati scorporati per circoscrizioni: qui salta immediatamente agli occhi, nel calo generale di consensi per il Pd, il tracollo del partito al nord, in particolare nel nord ovest della penisola (-4,5% rispetto alle ultime europee). Tradotti in seggi all'europarlamento, questi numeri potrebbero significare 4 o 5 deputati in meno a Strasburgo.

Come l'Ispo, anche l'Ipr-Marketing rileva, contestualmente all'emorragia di voti del Partito Democratico, una forte crescita dell'Italia dei Valori, che passa dal 4,4% delle ultime elezioni politiche al 7,8%, quasi raddoppiando i suoi consensi. Segno che, sin dalla scelta di non aderire al gruppo parlamentare del Pd e di presentarsi, nel suo primo discorso alla Camera, come il vero oppositore «duro e puro» a Berlusconi e al centrodestra, Antonio Di Pietro in questi mesi non ha sbagliato un colpo, erodendo, giorno dopo giorno, il capitale di voti del suo principale alleato.

In aggiunta a ciò, a preoccupare i Democratici è anche un altro dato contenuto nel sondaggio pubblicato su Repubblica.it: la crescita del Popolo della Libertà, che sale dal 37,3% del 13 e 14 aprile al 39%. Evidentemente, le critiche quotidianamente rivolte dal Pd al governo di cui il Pdl è l'asse portante non sono riuscite a interrompere la «luna di miele» con gli italiani e a riportare «a casa» quegli elettori che, come ricordava Daniele Capezzone durante l'ultimo Consiglio Nazionale di Forza Italia, alle politiche sono passati dal voto al Partito Democratico a quello per il Popolo della Libertà.

Come accennato all'inizio, non deve stupire il fatto che, con i risultati dei sondaggi sotto gli occhi e nel bel mezzo della bufera che sta investendo le giunte rosse che amministrano importanti città italiane, Veltroni e D'Alema abbiano deciso di firmare di comune accordo, come titola Il Tempo, un «armistizio»: la priorità, in queste ore, è quella di pilotare insieme il Pd fuori da una tempesta che rischia non soltanto di spazzare via la leadership veltroniana, ma anche di inghiottire nel suo vortice tutto il partito e tutta la sua classe dirigente - Baffino compreso.

Gianteo Bordero

domenica 7 dicembre 2008

LA BASSA CUCINA DI "FAMIGLIA CRISTIANA"

da Ragionpolitica.it del 6 dicembre 2008

Un'abbondante dose di disinformazione, una buona quantità di antiberlusconismo, quanto basta di antipolitica, un pizzico di politicamente corretto per condire il tutto... e la ricetta è bell'è pronta. La cucina di Famiglia Cristiana, il settimanale dei paolini che, come il nome stesso dice, dovrebbe occuparsi e preoccuparsi di rappresentare la cara e vecchia «buona stampa» nelle case dei cattolici italiani, da un po' di tempo a questa parte ha abbandonato la sua originaria missione e, forse anche per contrastare il calo di abbonamenti e vendite, si è trasformata in una bocca da fuoco contro il governo Berlusconi e contro ogni suo provvedimento. Che l'attuale presidente del Consiglio non piacesse a Famiglia Cristiana sin dal momento del suo ingresso in politica è cosa nota. Ma la campagna anti-Cavaliere inaugurata quest'estate con l'accusa di fascismo e di razzismo rivolta al suo governo è davvero senza precedenti nella storia della rivista.

Questa settimana, ad essere presi di mira, sono i provvedimenti varati dall'esecutivo col decreto anti-crisi, in particolare la social card e il bonus famiglie. Secondo FC, col decreto in questione «la montagna ha partorito un topolino»; trattasi di «demagogia, più che dell'inizio di una politica familiare seria». E poi la sparata ad effetto, che vorrebbe produrre perfino ilarità, ma al prezzo di giocare sulla pelle degli italiani in difficoltà, quelli per i quali i 40 euro mensili della carta sociale davvero sono importanti se paragonati al reddito percepito: «E' come dare l'aspirina - scrive Famiglia Cristiana - a un malato terminale». Bella battuta. Peccato che di mezzo vi siano, come detto, le persone in carne ed ossa che non arrivano o che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese, e che soltanto un cinismo senza confini può definire come «malati terminali». Si dirà: la rivista si riferiva al sistema-Italia nel suo complesso, di certo non ai poveri. Bene. Ma, se le parole hanno un senso, resta l'impressione che tutto faccia brodo per attaccare il governo, costi quel che costi.

Impressione confermata dal prosieguo dell'articolo, dove nessuna seria e approfondita analisi dei benefici (piccoli o grandi che siano) di cui potranno godere i cittadini in difficoltà è presente. In compenso, abbondano i giudizi meramente propagandistici come il seguente: «La borsa, quella vera, quella colma di denaro, sarà a disposizione delle banche, che hanno bisogno di soldi freschi per i loro affari». Dove sta scritto? Quale atto del governo può confermarlo? Domande destinate a rimanere senza risposta. E ancora: «Tremonti ha inventato la social card, poteva chiamarla "tessera del pane" (come Mussolini) o "carta della povertà": era lo stesso. Almeno, era più sincero». Ci risiamo con le accuse gratuite di fascismo, ormai immancabili nelle pagine del settimanale paolino.

Ma quanto poco importi a Famiglia Cristiana di dare un'informazione obiettiva ai suoi lettori, mettendo da parte almeno per un istante la battaglia preconcetta contro il governo, è documentato soprattutto dalla macroscopica contraddizione nella quale cade l'editorialista. Dapprima, come abbiamo visto, urla ai quattro venti che le misure votate dal Consiglio dei ministri sono insufficienti per affrontare la crisi, non bastano, non risolvono alcun problema, la social card «è meno di quanto la gente ruba per fame nei supermercati» e via strologando. Poi, come se niente fosse, ecco la giravolta logica: «La parola magica (usata dal governo, ndr) è bonus, cioè "carità". Che è cosa buona, ma non deve farla lo Stato». Dunque, dopo averci detto e ridetto in tutte le salse che il decreto è, nel migliore dei casi, un pannicello caldo, Famiglia Cristiana ci fa scoprire all'ultima riga, con un coupe de theatre, che lo Stato di queste cose non se ne deve occupare.

Ora, delle due l'una: o l'ultima frase cancella tutto il resto dell'articolo oppure è vero il contrario. Perché, se il principio aristotelico di non contraddizione è ancora vigente, è chiaro che non è possibile essere al medesimo istante campioni dello statalismo (il governo doveva fare di più) e del liberismo (il governo non doveva fare niente). A meno che la logica non sia stata abbandonata sull'uscio di casa nel momento in cui si partiva lancia in resta per l'ennesima crociata contro il nemico numero uno...

Gianteo Bordero

giovedì 4 dicembre 2008

DALLE FABBRICHE A SKY

da Ragionpolitica.it del 4 dicembre 2008

Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ha spiegato martedì da Bruxelles, carte alla mano, che la decisione di «armonizzare» l'Iva pagata da Sky Tv non è un capriccio del governo Berlusconi, ma nasce da un'esplicita richiesta dell'Ue. Senza tale provvedimento sarebbe stata aperta, nei confronti dell'Italia, una procedura d'infrazione per la violazione delle regole europee. Tremonti, inoltre, ha portato all'attenzione dell'opinione pubblica documenti risalenti al periodo di attività del governo Prodi, chiarendo così che l'attuale esecutivo altro non ha fatto che portare a termine un percorso già avviato dal centrosinistra.

Tutto chiarito, dunque? Neanche per sogno, perché, in assenza di argomenti più sostanziosi sui quali condurre la battaglia di opposizione, il Partito Democratico ha continuato a soffiare sul fuoco della polemica, servendosi della vicenda per rovesciare ancora una volta addosso all'esecutivo e al presidente del Consiglio ogni genere di accusa, da quella (solita) di voler limitare il pluralismo televisivo e la libertà di pensiero nel nostro paese, a quella fresca fresca di giornata: «Il governo Berlusconi alza le tasse», ha dichiarato l'ex viceministro dell'Economia Vincenzo Visco intervistato mercoledì da La Stampa. Detto dal Grande Tassatore è tutto un programma. Visco dimentica un paio di cosette. Primo: che altro era la cancellazione dell'Ici sulla prima casa varata dal governo Berlusconi dopo pochi giorni dal suo insediamento, se non un significativo taglio di un'imposta odiosa come quella sull'abitazione di proprietà? Secondo: nel caso di Sky, ci si rende conto di che cosa si sta parlando? La sinistra tratta l'abbonamento alla pay tv come se fosse un genere di prima necessità, come se fosse il pane quotidiano, la pasta o il latte. Invece trattasi di un cosiddetto «bene voluttuario», di cui usufruisce una fetta comunque ristretta di cittadini che se lo possono permettere.


L'atteggiamento dell'opposizione è tanto più irresponsabile se si tiene a mente il contesto generale nel quale esso si colloca. La sinistra si fa paladina di una multinazionale miliardaria come Sky mentre la gente comune deve fare i conti tutti i giorni con una crisi che, ben prima che mettere a rischio la sottoscrizione alla pay tv, va spesso a toccare l'essenziale, quello con cui sfamare i figli e mantenere la famiglia su un tenore di vita dignitoso. Lo stesso essenziale verso cui sono dirette le misure adottate dal governo Berlusconi, come la social card e il bonus famiglie. Misure che un tempo si sarebbero dette «di sinistra» e che sono anch'esse - ironia della sorte - criticate dal Pd in maniera pretestuosa, scavalcando la realtà e lo stato delle cose nel nostro paese.

Ben più che le diatribe interne, ben più che l'eterno duello tra Walter Veltroni e Massimo D'Alema, ben più che lo sterile dibattito sul fantomatico «partito del Nord», ben più che le batoste elettorali inanellate negli ultimi tempi, a testimoniare lo stato comatoso in cui versa la gauche italiana sono fatti e prese di posizione come quelle descritte, che mettono una pietra tombale su tutto ciò che la parola «sinistra» ha rappresentato nella storia dell'Italia repubblicana. Arrivare al punto di difendere la più grande televisione a pagamento e definire con parole sprezzanti i provvedimenti del governo in favore dei veri poveri, non quelli oggetto delle chiacchiere salottiere dei radical-chic, significa aver perduto totalmente il contatto con la realtà ed essersi sganciati dai bisogni concreti dei cittadini in carne ed ossa; significa aver abbandonato a se stessa la classe operaia, un tempo orgoglio e vanto della sinistra. Dalle fabbriche a Sky. Parafrasando un celebre romanzo di Carlo Levi, potremmo dire che davvero «la sinistra si è fermata alla pay tv».

di Gianteo Bordero

martedì 2 dicembre 2008

PD A RISCHIO IMPLOSIONE

da "Ragionpolitica.it" del 2 dicembre 2008

Le vicende politiche degli ultimi giorni mostrano che il processo di unificazione di Ds e Margherita nel Pd sta producendo effetti contrari a quelli sperati dai dirigenti dei due partiti. Il livello di conflittualità interna al Partito Democratico è tale che, procedendo di questo passo, potrebbe presto raggiungere il punto di non ritorno; non è dunque da escludere che si possa assistere in tempi brevi (da qui a un anno?) all'implosione del partito. Fare l'elenco dei guai del Pd è come incamminarsi in una via crucis che sembra non conoscere fine: l'incertezza sulla collocazione europea del partito, la lotta intestina tra veltroniani e dalemiani, la difficoltà nell'arginare il protagonismo di Di Pietro, l'assenza di una strategia di opposizione chiara e distinta, la mancanza di accordo interno sui vari temi proposti dall'agenda politica, i mal di pancia dei sindaci del nord. Tutti dati che poi si riverberano in capitomboli politici come l'elezione del presidente della Vigilanza Rai, la crisi della giunta sarda, la divisione in merito all'opportunità di sostenere o meno lo sciopero della Cgil.

Anche Edmondo Berselli, su La Repubblica del 1° dicembre, osserva, senza giri di parole, che «la crisi serpeggiante lascia vedere crepe che potrebbero semplicemente far crollare il partito. Se infatti dovesse trovare un innesco, anche casuale, l'insieme delle tensioni in atto sarebbe più che sufficiente a disgregare il Pd». Questo è dunque il punto: né più ne meno si tratta della sopravvivenza stessa del Partito Democratico a un anno soltanto dalla nascita. Sopravvivenza che, a tutt'oggi, è legata in maniera inscindibile alla tenuta della leadership veltroniana, attorno alla quale ha preso forma il Pd così come lo conosciamo oggi: come partito a vocazione maggioritaria che rompe il vecchio schema di alleanze a sinistra, fautore di un modello non più soltanto bipolare, ma più marcatamente bipartitico. Un soggetto che, lasciatosi alle spalle la visione tradizionale del centro-sinistra col trattino, diventi esso stesso compiutamente «centrosinistra».

La domanda da farsi, dunque, è la seguente: può sopravvivere e svilupparsi quest'idea di Partito Democratico, cioè l'idea veltroniana del Pd, o invece essa è destinata a logorarsi, giorno dopo giorno, fino al punto di lasciare nuovamente il passo al sistema ampio di alleanze precedente l'ascesa dell'ex sindaco di Roma alla segreteria e alle elezioni politiche del 13 e 14 aprile scorsi? In ballo, nella risposta a tale quesito, non c'è soltanto il rapporto del Pd con gli altri partiti di centro e di sinistra, ma qualche cosa di ben più importante: la definizione politica del Partito Democratico, la chiarificazione della sua identità, lo sviluppo della sua missione.

E' qui che si gioca la grande partita tra Walter Veltroni e Massimo D'Alema, che non può essere ridotta a una semplice questione di antipatia personale, ma va osservata in tutta la sua radicalità, ossia come uno scontro tra visioni politiche differenti, se non opposte. Come ricordava lunedì dalle colonne de Il Giornale Peppino Caldarola, ex direttore dell'Unità e profondo conoscitore di Veltroni e D'Alema, «l'uno, Walter, è ingolfato nell'idea del partito unico democratico che dovrebbe salvare il paese dal berlusconismo trionfante. L'altro, Massimo, pensa di costruire una forza socialista mascherata in grado di competere, ma anche di dialogare, con il capo del centrodestra».

Detta in altri termini: mentre Veltroni pensa che il Pd possa inglobare in sé, nel nome dell'ecumenismo culturale (il «ma-anche» ormai divenuto famoso grazie alla satira di Maurizio Crozza), una pluralità multiforme di esperienze politiche tra loro le più diverse, D'Alema rimane fermamente convinto che senza una definizione identitaria del Pd come partito di sinistra e, in special modo, come partito riformista e socialdemocratico che cerca poi alleanze alla sua destra e alla sua sinistra, non vi possano essere chance di vittoria per la gauche italiana. Per l'ex sindaco di Roma la strada maestra è l'unione delle differenze; per l'ex presidente Ds è l'unità nella differenza, per giungere a una forma di sintesi politica in cui ciascuno mantiene la sua identità all'interno di un'alleanza tra più partiti (come ricordava ancora Caldarola, per D'Alema la politica è proprio «l'arte delle alleanze», non delle fusioni).

Ne segue che, se oggi dire Partito Democratico equivale a dire Veltroni, un'eventuale fine precoce dell'attuale leadership potrebbe portare con sé conseguenze ben più sconvolgenti che un semplice cambio di segreteria. Perché l'alternativa a Walter, almeno così par di capire dalle discussioni e dagli avvenimenti degli ultimi tempi, non è un nuovo equilibrio che porti all'elezione di un nuovo leader, ma una rottura radicale delle stesse ragioni e motivazioni che hanno portato alla nascita del Pd. D'Alema ha dichiarato che intende occuparsi di più del partito. Come lo farà lo vedremo nei prossimi mesi, ma quel che è certo è che inizia ora, per il Partito Democratico, il momento della verità.

Gianteo Bordero

IL CENTRO SOCIALE "CASETTE ROSSE" E' UN REGALO DEL SINDACO AI COLLETTIVI ANARCHICI

Comunicato stampa del gruppo consiliare "Pdl-Lega-Udc-Per Ianni sindaco"
    Sestri Levante non ha bisogno di centri sociali in stile no global. Non ne ha bisogno, in particolare, il quartiere della Lavagnina, che per essere riqualificato di tutto necessita fuorché di un ampio spazio autogestito quale quello voluto dalla Giunta Lavarello nell’area delle Casette Rosse.

    A preoccuparci maggiormente è il fatto che proprio la zona delle Casette Rosse, in passato, è stata teatro di occupazioni abusive e illegali da parte di collettivi anarchici. Essi da tempo chiedevano all’Amministrazione Lavarello di impegnarsi per trasformare le Casette Rosse in un centro sociale autogestito. Una richiesta che ora il sindaco e la Giunta soddisfano in pieno, usando un’ingente quantità di denaro pubblico (843.000 euro) per realizzare un’opera che tutto ha di mira fuorché l’interesse generale della città.

    Già nel 2003, del resto, a una domanda di spazi avanzata al primo cittadino dal Collettivo Casette Rosse al fine di “divulgare il nostro progetto di autogestione da sperimentare con il quartiere” (protocollo comunale 24699 del 01.10.2003), il sindaco rispondeva definendo “condivisibili le finalità delle richieste” (Atto Interno 198/2003).

    Non c’è da stupirsi, dunque, se oggi il dottor Lavarello fa votare alla sua maggioranza un provvedimento che istituisce il centro sociale Casette Rosse mettendo più volte l’accento sul fatto che esso sarà “autogestito”. C’è semmai da preoccuparsi per l’ennesima scelta sciagurata di un’Amministrazione che bene farebbe a occuparsi, invece che di centri sociali per pochi, dei veri problemi di tutti i cittadini.