da "Ragionpolitica.it" del 2 dicembre 2008
Le vicende politiche degli ultimi giorni mostrano che il processo di unificazione di Ds e Margherita nel Pd sta producendo effetti contrari a quelli sperati dai dirigenti dei due partiti. Il livello di conflittualità interna al Partito Democratico è tale che, procedendo di questo passo, potrebbe presto raggiungere il punto di non ritorno; non è dunque da escludere che si possa assistere in tempi brevi (da qui a un anno?) all'implosione del partito. Fare l'elenco dei guai del Pd è come incamminarsi in una via crucis che sembra non conoscere fine: l'incertezza sulla collocazione europea del partito, la lotta intestina tra veltroniani e dalemiani, la difficoltà nell'arginare il protagonismo di Di Pietro, l'assenza di una strategia di opposizione chiara e distinta, la mancanza di accordo interno sui vari temi proposti dall'agenda politica, i mal di pancia dei sindaci del nord. Tutti dati che poi si riverberano in capitomboli politici come l'elezione del presidente della Vigilanza Rai, la crisi della giunta sarda, la divisione in merito all'opportunità di sostenere o meno lo sciopero della Cgil.
Anche Edmondo Berselli, su La Repubblica del 1° dicembre, osserva, senza giri di parole, che «la crisi serpeggiante lascia vedere crepe che potrebbero semplicemente far crollare il partito. Se infatti dovesse trovare un innesco, anche casuale, l'insieme delle tensioni in atto sarebbe più che sufficiente a disgregare il Pd». Questo è dunque il punto: né più ne meno si tratta della sopravvivenza stessa del Partito Democratico a un anno soltanto dalla nascita. Sopravvivenza che, a tutt'oggi, è legata in maniera inscindibile alla tenuta della leadership veltroniana, attorno alla quale ha preso forma il Pd così come lo conosciamo oggi: come partito a vocazione maggioritaria che rompe il vecchio schema di alleanze a sinistra, fautore di un modello non più soltanto bipolare, ma più marcatamente bipartitico. Un soggetto che, lasciatosi alle spalle la visione tradizionale del centro-sinistra col trattino, diventi esso stesso compiutamente «centrosinistra».
La domanda da farsi, dunque, è la seguente: può sopravvivere e svilupparsi quest'idea di Partito Democratico, cioè l'idea veltroniana del Pd, o invece essa è destinata a logorarsi, giorno dopo giorno, fino al punto di lasciare nuovamente il passo al sistema ampio di alleanze precedente l'ascesa dell'ex sindaco di Roma alla segreteria e alle elezioni politiche del 13 e 14 aprile scorsi? In ballo, nella risposta a tale quesito, non c'è soltanto il rapporto del Pd con gli altri partiti di centro e di sinistra, ma qualche cosa di ben più importante: la definizione politica del Partito Democratico, la chiarificazione della sua identità, lo sviluppo della sua missione.
E' qui che si gioca la grande partita tra Walter Veltroni e Massimo D'Alema, che non può essere ridotta a una semplice questione di antipatia personale, ma va osservata in tutta la sua radicalità, ossia come uno scontro tra visioni politiche differenti, se non opposte. Come ricordava lunedì dalle colonne de Il Giornale Peppino Caldarola, ex direttore dell'Unità e profondo conoscitore di Veltroni e D'Alema, «l'uno, Walter, è ingolfato nell'idea del partito unico democratico che dovrebbe salvare il paese dal berlusconismo trionfante. L'altro, Massimo, pensa di costruire una forza socialista mascherata in grado di competere, ma anche di dialogare, con il capo del centrodestra».
Detta in altri termini: mentre Veltroni pensa che il Pd possa inglobare in sé, nel nome dell'ecumenismo culturale (il «ma-anche» ormai divenuto famoso grazie alla satira di Maurizio Crozza), una pluralità multiforme di esperienze politiche tra loro le più diverse, D'Alema rimane fermamente convinto che senza una definizione identitaria del Pd come partito di sinistra e, in special modo, come partito riformista e socialdemocratico che cerca poi alleanze alla sua destra e alla sua sinistra, non vi possano essere chance di vittoria per la gauche italiana. Per l'ex sindaco di Roma la strada maestra è l'unione delle differenze; per l'ex presidente Ds è l'unità nella differenza, per giungere a una forma di sintesi politica in cui ciascuno mantiene la sua identità all'interno di un'alleanza tra più partiti (come ricordava ancora Caldarola, per D'Alema la politica è proprio «l'arte delle alleanze», non delle fusioni).
Ne segue che, se oggi dire Partito Democratico equivale a dire Veltroni, un'eventuale fine precoce dell'attuale leadership potrebbe portare con sé conseguenze ben più sconvolgenti che un semplice cambio di segreteria. Perché l'alternativa a Walter, almeno così par di capire dalle discussioni e dagli avvenimenti degli ultimi tempi, non è un nuovo equilibrio che porti all'elezione di un nuovo leader, ma una rottura radicale delle stesse ragioni e motivazioni che hanno portato alla nascita del Pd. D'Alema ha dichiarato che intende occuparsi di più del partito. Come lo farà lo vedremo nei prossimi mesi, ma quel che è certo è che inizia ora, per il Partito Democratico, il momento della verità.
Gianteo Bordero
martedì 2 dicembre 2008
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