giovedì 29 aprile 2010

IL BILANCIO 2010 DEL COMUNE DI SESTRI LEVANTE. LA GIUNTA LAVARELLO TIRA A CAMPARE

Intervento tenuto in occasione della seduta di Consiglio Comunale di Sestri Levante del 29 aprile 2010

Il Bilancio di Previsione che quest’oggi ci troviamo a discutere è, con tutta evidenza, un Bilancio deludente. Esso mostra in modo chiaro che la Giunta Lavarello “naviga a vista” e “non ha un progetto per la città”– per riprendere le parole usate qualche settimana fa dall’ormai ex consigliere comunale del Partito Democratico, Bruno Panteri, nel motivare le sue dimissioni. Che cosa emerge, infatti, analizzando il documento economico previsionale sottoposto alla nostra attenzione? Emerge una scelta amministrativa che potremmo definire, in poche parole, come la scelta del “tirare a campare”, del “galleggiare” e, per altri versi, del “vorrei, ma non posso”.

E’ emblematico, in tal senso, quanto è accaduto con il Piano delle Opere Pubbliche: un Piano che, secondo la Delibera di Giunta numero 187 del 30 ottobre 2009, avrebbe dovuto prevedere opere per un totale di 7.980.000 euro. Oggi, invece, quel Piano si riduce a un totale di euro 5.490.000. Due milioni e mezzo di euro in meno. Infatti troviamo, inserita nella Relazione Previsionale e Programmatica allegata al Bilancio, una nota in cui si spiega quanto segue: “A seguito di verifiche sulle attuali disponibilità finanziarie di Bilancio… ed ulteriori precisazioni tecniche… si rende necessaria una rivisitazione del suddetto programma”. Così, ad esempio, vengono sospese e, afferma la nota, “saranno poi inserite successivamente - speriamo, aggiungo io - in sede di quantificazione ed accertamento dell’Avanzo di Amministrazione 2009” le seguenti opere: secondo lotto della passerella sul porto; riqualificazione e difesa del litorale nella spiaggia di Ponente della zona di Sant’Anna; e ancora, realizzazione della nuova strada parco all’interno del Piano di riqualificazione delle aree ex FIT; manutenzione straordinaria dei cimiteri; e infine, asfaltatura delle strade comunali. Se a ciò si aggiunge che il terzo lotto della riqualificazione di Via Nazionale passa da 300 mila a 200 mila euro e che vengono stralciate dal Piano le opere di demolizione e messa in sicurezza della zona del Cantierino di Riva Trigoso in quanto dirottate nel progetto finanziato con fondi FAS per una parte e fatte rientrare nella competenza del Settore Urbanistica per un’altra parte, ecco che abbiamo la riduzione di 2 milioni e mezzo di euro.

Con un’incognita in più, sulla quale vorrei soffermarmi. L’incognita - chiamiamola così - è quella riguardante proprio il finanziamento FAS (Fondi per le Aree Sottoutilizzate) per il progetto di riqualificazione del fronte mare di Riva Trigoso. Come noto, il 21 aprile scorso il TAR della Liguria ha annullato la Delibera della Giunta Regionale numero 126 del 5 febbraio 2010, avente ad oggetto l’approvazione della graduatoria e la concessione di finanziamenti FAS per progetti integrati di riqualificazione urbana. In base alla citata Delibera, al Comune di Sestri Levante sarebbero dovuti giungere 4 milioni di euro.

All’indomani della decisione del Tribunale Amministrativo Regionale abbiamo letto sui quotidiani locali le dichiarazioni rassicuranti del Sindaco Lavarello, il quale ha affermato, tra le altre cose, che “il finanziamento non è messo in discussione”, poiché sarebbero solo difficoltà formali quelle derivanti dalla sentenza del TAR. In realtà, purtroppo, le cose non stanno così. E’ sufficiente leggere il testo della sentenza per rendersene conto: salta subito agli occhi, infatti, quanto scrive il Collegio giudicante spiegando le ragioni dell’annullamento della Delibera regionale, previa sospensione dell’efficacia della medesima. Il Tribunale osserva, in punta di diritto - e quindi da un punto di vista sostanziale e non meramente formale - che l’approvazione della graduatoria per l’assegnazione dei FAS non doveva essere di competenza dell’organo politico (cioè la Giunta regionale), bensì dell’apposita Commissione di valutazione, organo esclusivamente gestionale. “Oggi - cito dalla sentenza - costituisce principio cardine dell’azione dei pubblici poteri, quale diretta espressione dei canoni fissati dall’articolo 97 della Costituzione, quello della netta separazione funzionale tra l’attività di indirizzo e programmazione, riservata agli organi politici, e quella gestionale, riservata ai responsabili degli uffici e dei servizi”.

Ma, purtroppo, c’è di più. Perché il Tribunale Amministrativo lascia intendere che il problema sta a monte, e cioè nel Bando stesso per l’assegnazione dei FAS. E’ proprio il Bando, infatti, a prevedere, al punto 9.4, che - cito - “la Giunta regionale approva la graduatoria dei progetti ammissibili a finanziamento, e individua i progetti finanziati nell’ambito della dotazione finanziaria di 32 milioni di euro”. Se quindi, come pare leggendo il testo della sentenza, il nocciolo del problema sta nel Bando e non soltanto nella Delibera della Giunta regionale, è evidente che non basterà, non potrà bastare, come auspicato dal sindaco Lavarello, un semplice intervento dei dirigenti regionali per sanare la situazione. E’ probabile che la questione non possa essere risolta così facilmente. Tutto ciò potrebbe comportare l’allungamento dei tempi, il rischio di altri ricorsi e la possibilità di una diversa ripartizione dei fondi. Diciamolo chiaro: è davvero un “pasticciaccio brutto” quello compiuto dalla Giunta regionale, che mette a rischio il cospicuo finanziamento di un progetto che i cittadini rivani attendono ormai da molto tempo.

La sostanza della questione, su cui credo debba essere fatta un’attenta ponderazione da parte dell’Amministrazione comunale, è che ad oggi, dopo la sentenza del TAR, quei fondi, quei 4 milioni, non sono più nella disponibilità del Comune di Sestri Levante. Con due conseguenze di non poco conto: la prima è che il Piano delle Opere pubbliche si ridurrebbe così a 1 milione e 490 mila euro, di cui 1 milione di mutuo sempre inerente al progetto di riqualificazione del fronte mare di Riva Trigoso; la seconda - e più importante - conseguenza è che questa sera ci troviamo a votare un documento in cui vengono messi a bilancio 4 milioni di euro, cioè una parte rilevante del Bilancio stesso, che allo stato attuale non risultano più assegnati al nostro Comune. Se malauguratamente - ripeto: malauguratamente! - quei fondi non dovessero più rientrare nella disponibilità dell’Amministrazione, credo che si porrebbe un serio problema negli equilibri di Bilancio. Penso che, stanti così le cose, tutto si debba fare tranne che prendere sottogamba la questione. Per questo invito la Giunta e la maggioranza ad un’attenta riflessione su tutta la vicenda e sulle decisioni che l’Amministrazione dovrà adottare per non vedere andare in fumo il finanziamento FAS e tutto il progetto della riqualificazione del fronte mare di Riva.

Tornando al Piano delle Opere Pubbliche e al suo ridimensionamento rispetto alle previsioni originarie, alla fine dei conti risulta che, come stanziamenti di Bilancio per il Programma degli interventi per il 2010, vi sono soltanto, a livello di fondi comunali, 290 mila euro. Nella citata Delibera dell’ottobre 2009 erano 2 milioni e 980 mila euro.

E’ tutta in questi numeri la sostanza politica di un Bilancio che, come detto, rivela una Giunta che “naviga a vista” e che “vorrebbe ma non può”. L’ambizioso Piano del 2009 si è trasformato nel “pianino” del 2010, un “pianino” da “minimo sindacale”: la montagna ha partorito il topolino. Dai sogni alla realtà. E la realtà è che questa Amministrazione procede a tentoni proprio nel momento in cui la città avrebbe bisogno di una Giunta all’altezza della situazione, all’altezza delle enormi possibilità di sviluppo di Sestri, all’altezza delle aspettative dei cittadini.

Ci saremmo aspettati un Bilancio diverso. Lo dico alla luce di due elementi che avrebbero lasciato presagire una disponibilità finanziaria maggiore per il 2010 e una conseguente coraggiosa politica di investimenti e di sviluppo. Primo elemento: le risorse ottenute dalla deprecabilissima stangata fiscale dello scorso anno, con l’aumento della Tassa sui Rifiuti Solidi Urbani, con l’introduzione del Canone per l’Occupazione del Suolo Pubblico in sostituzione dell’omonima Tassa, con il rincaro generalizzato delle tariffe, con l’innalzamento dei costi per il rilascio dei tesserini Ztl e via tassando. Evidentemente quanto raccolto col salasso fiscale è servito soltanto per coprire i costi del già citato “minimo sindacale”, della minima ordinaria amministrazione, e talora, purtroppo, neppure di quella. Invece che mettere in atto una robusta razionalizzazione delle spese per liberare risorse utili allo sviluppo, avevate pensato che per questo fine fosse sufficiente la solita vostra politica: la politica dell’aumento delle tasse, delle imposte, delle tariffe. Il Bilancio 2010 è la prova provata che questa politica non produce mai gli effetti sperati, quando non produce effetti contrari. Certo, quest’anno vi siete limitati ad “aggiornare” soltanto la tariffa per il rilascio dei permessi di costruire lasciando invariate le altre tasse ed imposte. E avremmo voluto vedere, dopo la stangata dello scorso anno! A tutto c’è un limite, per fortuna, anche se temiamo che dall’anno prossimo possano riprendere gli aumenti. Ad esempio quello della TARSU: quest’anno, infatti, nonostante il rincaro del 2009, la copertura del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti è scesa dal 92% all’84%. E’ dunque prevedibile che l’anno prossimo, come si suol dire, saranno nuovamente dolori…

Il secondo elemento che ci faceva sperare in un Bilancio diverso per il 2010 è la totale copertura finanziaria garantita dal Governo per il mancato introito derivante dalla lodevole abolizione dell’ICI sulla prima casa. Abbiamo ancora tutti vivo il ricordo dell’Assessore Ceselli che l’anno scorso parlava di “furto”, “scippo” e “rapina” da parte dell’Esecutivo. Bene, informo i Consiglieri che, a fronte del milione e 500 mila euro messi a bilancio nel 2009 per il rimborso ICI, il Governo ne ha fatti arrivare al Comune di Sestri Levante 1 milione e 600 mila, la stessa cifra che sarà versata anche quest’anno, come risulta dal sito del ministero dell’Interno dedicato alla Finanza Locale. Non vi è stato dunque alcun “furto”, alcuno “scippo”, alcuna “rapina”. Anzi, come avevo annunciato già in miei precedenti interventi, il Governo ha garantito ai Comuni le somme che doveva garantire.

Insomma - e concludo - non ci sono davvero più alibi attraverso i quali scaricare su altri le responsabilità di un Bilancio che non riesce a garantire alla città quello slancio, quello spirito positivo, quelle risorse necessarie per mettere pienamente a frutto le sue molteplici eccellenze o per far emergere i suoi talenti ancora inespressi. Il Bilancio 2010 è lo specchio di una Giunta che, andreottianamente, tira a campare, visto che, come diceva l’ex leader della Dc, in politica - come nella vita - “è meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Ma a pagare il prezzo salato di questo immobilismo, di questa mancanza di slancio innovatore, di questa assenza di una visione complessiva sul futuro del nostro territorio, è ancora una volta la città nel suo complesso, che meriterebbe ben altra Amministrazione. Sono anni, ormai, che auspichiamo un cambio di rotta, uno scatto di reni, un sussulto all’insegna dell’alta politica. Dobbiamo prendere atto, anche questa volta, che le nostre speranze sono andate, purtroppo, deluse.

Gianteo Bordero

Capogruppo consiliare "Il Popolo della Libertà - Lega Nord", Sestri Levante

mercoledì 28 aprile 2010

FONDI FAS. Il PRESSAPOCHISMO DELLA REGIONE LIGURIA METTE A RISCHIO I FINANZIAMENTI PER IL NUOVO FRONTE MARE DI RIVA TRIGOSO

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE
GRUPPO CONSILIARE “IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – LEGA NORD”


COMUNICATO STAMPA DEL 28 APRILE 2010


Come hanno osservato in una nota i consiglieri regionali del Pdl Roberto Bagnasco, Raffaella Della Bianca, Gino Garibaldi, Franco Rocca e Matteo Rosso, la sentenza con cui il 21 aprile il TAR ha annullato la delibera della Regione Liguria che assegnava quattro milioni di euro di fondi FAS - tra gli altri - al Comune di Sestri Levante mette a nudo “la superficialità e il pressapochismo” della Giunta Burlando. A causa di questa superficialità e di questo pressapochismo cade ora nell’incertezza - checché ne dica il sindaco Lavarello - il progetto per il quale il Comune di Sestri aveva chiesto di poter accedere ai FAS, e cioè la riqualificazione del fronte mare di Riva Trigoso, da molto tempo attesa dai cittadini.

Leggendo infatti la sentenza del TAR, salta subito agli occhi quanto scrive il Collegio giudicante spiegando le ragioni dell’annullamento (previa sospensione dell’efficacia) della delibera ragionale. Il Tribunale osserva, in punta di diritto, che l’approvazione della graduatoria per l’assegnazione dei FAS non doveva essere di competenza dell’organo politico (cioè la Giunta), bensì dell’apposita Commissione di valutazione, organo esclusivamente gestionale. “Oggi - ricorda il TAR - costituisce principio cardine dell’azione dei pubblici poteri, quale diretta espressione dei canoni fissati dall’articolo 97 della Costituzione, quello della netta separazione funzionale tra l’attività di indirizzo e programmazione, riservata agli organi politici, e quella gestionale, riservata ai responsabili degli uffici e dei servizi”. E’ davvero una bella tirata d’orecchie alla Giunta regionale.

Ma, purtroppo, c’è di più. Perché il Tribunale Amministrativo spiega che il problema sta a monte, e cioè nel Bando stesso per l’assegnazione dei FAS. E’ proprio il Bando, infatti, a prevedere, al punto 9.4, che “la Giunta regionale approva la graduatoria dei progetti ammissibili a finanziamento, e individua i progetti finanziati nell’ambito della dotazione finanziaria di 32 milioni di euro”. Tutto questo lascia supporre che non basterà, come auspicato dal sindaco Lavarello, un semplice intervento dei dirigenti regionali per sanare la situazione: se, come scrive il TAR, il nocciolo del problema sta nel Bando, è probabile che la questione non possa essere risolta così facilmente. Ciò comporterà allungamento dei tempi, il rischio di altri ricorsi e la possibilità di una diversa ripartizione dei fondi. E’ davvero un “pasticciaccio brutto”, che nessuno può liquidare come un mero “errore di forma”. Perché - ricordiamolo - spesso in democrazia la forma è sostanza.


Gianteo Bordero (capogruppo)

Marco Conti
Giancarlo Stagnaro

lunedì 26 aprile 2010

TU QUOQUE, BERSANI!

da Ragionpolitica.it del 26 aprile 2010

Che delusione Pierluigi Bersani! Proprio nei giorni in cui il presidente del Consiglio invoca, in sintonia con il capo dello Stato, uno spirito costituente capace di andare oltre le divisioni partitiche per «scrivere insieme una nuova pagina di storia della nostra democrazia e della nostra Italia», il segretario del Pd non trova di meglio da fare che proporre per l'ennesima volta una sorta di CLN contro la «deriva populista» che, a suo dire, Berlusconi vorrebbe imporre alle istituzioni democratiche del nostro paese.


La risposta negativa di Bersani al premier, ribadita in un'intervista su Repubblica, oltre che mostrare l'incapacità del Partito Democratico di rompere in maniera definitiva con quell'antiberlusconismo duro e puro che da sedici anni a questa parte paralizza ogni autentico processo di rinnovamento della sinistra italiana, mette in luce un'imbarazzante incomprensione delle parole pronunciate sabato alla Scala di Milano dal capo dello Stato. Parole che contengono un'interessante novità nell'interpretazione delle vicende che portarono alla nascita della Repubblica e che dischiudono, dal punto di vista politico, una prospettiva che potrebbe consentire - se davvero tutti i partiti la facessero propria - il superamento di una sterile retorica di parte e quindi la riscoperta di un terreno comune sulla base del quale dare vita ad un diverso modo di concepire e sviluppare il confronto tra le forze politiche.


Quando afferma che «il 25 aprile è non solo Festa della Liberazione: è Festa della riunificazione d'Italia», Napolitano fa infatti appello ad uno spirito nazionale e ad un sentimento patriottico che dovrebbero essere comun denominatore di tutti i protagonisti della vita politica e che li dovrebbero spingere, nel momento in cui i principi di libertà e democrazia sanciti dalla Costituzione sono fatti propri da tutti i partiti rappresentati in parlamento, a non concepire la lotta politica come una sorta di perenne guerra civile, ma come un confronto che, per quanto aspro, non punta alla delegittimazione totale dell'avversario dipingendolo come un nuovo Duce contro il quale organizzare una nuova Resistenza. Che significa tutto ciò? Che sarebbe ora di finirla con una lettura faziosa della Liberazione, utilizzata in modo strumentale per colpire il nemico di turno e cancellarlo dal novero degli amanti della democrazia. Tanto più che - come ha ricordato ancora il capo dello Stato - «nel più ampio e condiviso sentimento della Nazione, nel grande alveo della guerra patriottica si raccolsero forze che non erano state partecipi dell'antifascismo militante e fresche energie rappresentative di nuove, giovanissime generazioni. E questa caratterizzazione più ricca, e sempre meno di parte, della Resistenza si rispecchiò più tardi nel confronto costituente, nel disegno e nei principi della Costituzione repubblicana». Per questo «si tratta di celebrare il 25 aprile nel suo profondo significato nazionale».


Vallo a spiegare a Bersani, tutto intento, con un tempismo degno di miglior causa, a organizzare il nuovo «patto repubblicano» contro il presidente del Consiglio, nella convinzione di poter in questo modo sconfiggere il Cavaliere alle prossime elezioni, tenendo insieme il Partito Democratico, Di Pietro, la sinistra radicale, l'Udc e tutti gli antiberlusconiani d'Italia, in una riedizione - se possibile ancor più vasta - di quell'Unione prodiana che ha già dimostrato tutta la sua inconsistenza politica e tutta la sua incapacità di governo del paese. Possibile che passino gli anni, passino i segretari del Pd, passino le sconfitte e il maggior partito della sinistra non riesca a proporre altro che il solito, stantio progetto del Comitato di Liberazione Nazionale contro l'uomo di Arcore? Non uno straccio di idea, nessuna disponibilità al confronto, le consuete alchimie per mettere in piedi un'alleanza dove convivano tutto e il suo contrario. E' evidente che si tratta dell'opposto di quello spirito nazionale richiamato dal presidente della Repubblica. Stavolta è chiaro chi sia a far spallucce di fronte alle ragionevoli e sagge parole dell'inquilino del Colle.


Gianteo Bordero

lunedì 19 aprile 2010

I PRIMI CINQUE ANNI DI UN PONTIFICATO BENEDETTO

da Ragionpolitica.it del 19 aprile 2010

Nomen omen. Oggi, a cinque anni di distanza dall'inizio del pontificato di Papa Ratzinger, possiamo affermare con certezza che l'elezione al soglio di Pietro dell'ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ha rappresentato, per la Chiesa, per i cattolici e per coloro che guardano al cristianesimo senza pregiudizi di sorta, un'autentica benedizione. Non soltanto a motivo dei gesti compiuti, delle parole pronunciate, delle importanti decisioni assunte in questo lustro, ma anche e soprattutto perché Benedetto XVI ha saputo - e sa - guidare con sapienza, fermezza ed umiltà la barca di Pietro in anni burrascosi, in un tempo difficile per la Chiesa, per la fede e per il mondo: come ha osservato Gian Guido Vecchi in un bell'articolo apparso domenica sul Corriere della Sera, Ratzinger è stato «come il kybernetes di Aristotele, il timoniere che governa la nave e sa mantenere il "giusto mezzo". Che non è una mediocre e facile equidistanza, ma all'opposto la cosa più difficile: seguire la rotta mentre la barca è sballottata dalla tempesta».


Tutto ciò è stato evidente sin dagli albori dell'attuale pontificato: mentre un certo trionfalismo venato di sentimentalismo accompagnava la fine del lungo regno di Giovanni Paolo II, e mentre molte analisi parziali e superficiali, nei giorni della sede vacante e del pre-conclave, terminavano con l'auspicio di una replica pedissequa del papato wojtyliano, Ratzinger fu l'unico che seppe rompere questo clima di ingenuo ottimismo, ricordando a tutti, con la sua omelia durante la messa pro eligendo pontifice, che quello che stavano attraversando la Chiesa e i credenti era un tempo confuso e tormentato: il futuro Papa affermò infatti che negli ultimi decenni «la piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata» e «gettata da un estremo all'altro dalle correnti ideologiche, dalle mode del pensiero». E aggiunse: «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare "qua e là da qualsiasi vento di dottrina", appare come l'unico atteggiamento all'altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». Un monito duro, che faceva il paio, per quanto riguarda l'aspetto interno alla Chiesa, con le clamorose espressioni contenute nelle meditazioni per la Via Crucis del 2005: «Quanta sporcizia c'è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute!».


Se i media, una certa opinione pubblica e alcuni settori del cosiddetto «mondo cattolico» avessero preso sul serio da sùbito queste parole di Ratzinger, avrebbero evitato, nel corso degli ultimi cinque anni, di trasmettere un'immagine falsata del suo pontificato: l'immagine cioè di Benedetto XVI rigido conservatore, uomo del passato, nostalgico del bel tempo che fu, intento solamente a riportare indietro di quarant'anni, se non di secoli, le lancette della storia della Chiesa. Avrebbero compreso che quello del teologo tedesco è un papato che si muove sostanzialmente lungo le coordinate della riforma, ossia della sempre urgente presa di coscienza del fatto che la fede cristiana, fondata sull'incarnazione, passione, morte e risurrezione del Dio fattosi uomo in Gesù di Nazareth, richiede, in ogni tempo e in ogni luogo, la conversione del cuore della persona in carne ed ossa, quindi dentro le circostanze storiche che essa si trova a vivere. Come già Joseph Ratzinger scriveva nelle sue opere giovanili, la rivelazione della verità eterna implica sempre un soggetto a cui essa è rivolta: e questo soggetto, l'uomo, non vive al di fuori del tempo e dello spazio, ma si colloca all'interno di una storia, dentro la quale egli è chiamato a testimoniare la novità e la sempiterna freschezza dell'avvenimento cristiano, a diventare «creatura nuova», ad essere infine «segno di contraddizione». In questo senso vale la tradizionale espressione latina secondo cui «Ecclesia semper reformanda»: la Chiesa - come il cristiano - ha bisogno ogni giorno di dire il suo «sì» alla chiamata di Dio, di rinnovare la sua fedeltà e la sua gratitudine al suo Fondatore, di affidare a Lui le fatiche, le angosce e le difficoltà del cammino, di chiedere perdono per i peccati commessi, di essere purificata grazie alla potenza redentrice del Padre.


Tutto il pontificato di Benedetto XVI si è mosso e si muove lungo questa direttrice. E ciò è ancor più evidente oggi, nella risposta che il Papa ha saputo fornire di fronte allo scandalo dei preti coinvolti in casi di pedofilia, da ultimo con la decisione di incontrare, durante il suo viaggio apostolico a Malta, alcune vittime di abusi. La scelta della cosiddetta «linea dura» e della trasparenza, lungi dal rappresentare un cedimento o una tacita resa di fronte alla deformante campagna d'odio che punta a delegittimare la Chiesa intera raffigurandola come una congrega di pedofili, nasce dalla profonda consapevolezza che «la penitenza è grazia; è una grazia che noi riconosciamo il nostro peccato, è una grazia che conosciamo di aver bisogno di rinnovamento, di cambiamento, di una trasformazione del nostro essere... Noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, ci appariva troppo dura. Adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter fare penitenza è grazia. E vediamo che è necessario far penitenza, cioè riconoscere quanto è sbagliato nella nostra vita, aprirsi al perdono, prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare» (Omelia tenuta da Benedetto XVI il 15 aprile 2010 di fronte ai membri della Pontificia Commissione Biblica).


La vera riforma, dunque, è proprio questa: è Dio che ri-forma ogni giorno, con la Sua grazia, la Chiesa e il cuore dei fedeli; ed è la disponibilità della Chiesa e dei fedeli a riconoscere il proprio peccato e a lasciarsi abbracciare dalla misericordia divina, che «fa nuove tutte le cose». Prima ancora che aggiornamento delle istituzioni e delle strutture ecclesiastiche, insomma, l'autentica riforma è la capacità di inginocchiarsi di fronte all'Onnipotente chiedendo a Lui il miracolo del cambiamento e la forza per una testimonianza coraggiosa in mezzo ai marosi della storia. Non a caso, durante la messa domenicale celebrata a Malta, Benedetto XVI ha rievocato la figura di San Pietro, che «durante la passione del Signore, lo ha rinnegato tre volte. Ora, dopo la resurrezione, Gesù lo invita tre volte a dichiarare il suo amore, offrendo in tal modo salvezza e perdono, e allo stesso tempo affidandogli la sua missione». Tutti i primi cinque anni di pontificato di Papa Ratzinger sono stati - e sono - un incessante richiamo a questa verità della fede, a questa quotidiana possibilità di salvezza per ogni uomo. Se la Chiesa seguirà il vicario di Cristo nella strada che egli sta coraggiosamente percorrendo, uscirà dalla tempesta di questi tempi ancora più forte e con una coscienza ancora più chiara della sua vocazione e della sua missione nella storia.


Gianteo Bordero

mercoledì 14 aprile 2010

SCONFITTA DOPO SCONFITTA

da Ragionpolitica.it del 14 aprile 2010

Dopo sessantacinque anni capitola anche una delle ultime roccaforti rosse: il centrodestra strappa al centrosinistra il Comune di Mantova. E' il simbolo da un lato del processo di rafforzamento sul territorio dell'asse Pdl-Lega, dall'altro della crisi sempre più profonda in cui versa la gauche italiana. Una crisi che viene da lontano (essa ha avuto inizio nel momento in cui si è affermata l'idea che l'unico collante per sconfiggere il centrodestra fosse l'antiberlusconismo duro e puro) ma che negli ultimi due anni è emersa in tutta la sua portata. Il centrosinistra ha perso, nell'ordine: nel 2008 le elezioni politiche e le regionali in Friuli e in Abruzzo; nel 2009 le elezioni regionali in Sardegna, le europee e le amministrative; infine, nel 2010, le regionali e le amministrative del 28 e 29 marzo scorsi. Un panorama desolante: in ventiquattro mesi è cambiata radicalmente la geografia politica del paese, e quello che fino agli inizi del 2008 sarebbe apparso anche al più pessimista tra i sostenitori della sinistra come uno scenario da incubo, è invece divenuto realtà.


A poco è servito, al maggior partito dell'attuale opposizione - cioè quello che dovrebbe essere il motore del centrosinistra, il suo cuore pulsante - avvicendare ben tre segretari in due anni: Veltroni, Franceschini, Bersani. Perché al cambiamento del nome del leader non è corrisposto alcun cambiamento della cosa, cioè della rotta politica del partito. Soprattutto, nessuno dei tre capi del Pd è stato veramente in grado di far uscire il soggetto erede dei Ds e della Margherita dalle secche nelle quali l'avevano condotto più di due lustri di fede cieca nel mito delle varie Unioni, Ulivi, Grandi Alleanze Democratiche, messe in piedi sotto lo stellone di Prodi senza alcun fondamento programmatico oltre all'avversione totale e quasi teologica al Cavaliere. Ci aveva provato Veltroni, e sappiamo tutti che triste fine abbia fatto la sua «nuova stagione»; Franceschini, memore della lezione, si era rigettato nell'antiberlusconismo più becero, nella speranza di salvare la poltrona al congresso del 2009: niente, perché essere stato il vice di Walter era una colpa inescusabile agli occhi della vecchia guardia del partito; infine è arrivato Bersani, con la promessa di «dare un senso a questa storia»: sono passati già sei mesi e di questo «senso» non c'è traccia alcuna. Si vedono soltanto le solite sconfitte elettorali, le solite liti interne, la solita caccia al segretario di turno, e soprattutto si vede la solita incapacità di andare alle radici della crisi e di agire di conseguenza, dando vita coraggiosamente a una moderna sinistra di stampo europeo che rompa con i vecchi schemi del passato. Certo, è un'operazione che richiede tempo e paziente tessitura politica, ma a furia di rimandare al domani la gauche italiana sta perdendo tutti gli appuntamenti con la storia.


E sui treni persi dal Pd e dai suoi alleati ci sale invece il centrodestra: ci salgono Berlusconi e Bossi, il Popolo della Libertà e la Lega Nord, che riescono a fare breccia in fasce sempre più ampie dell'elettorato e perfino in quei settori un tempo appannaggio esclusivo della sinistra. Una sinistra che non è più capace di parlare a quello che per decenni è stato il suo popolo, che non ha programmi e soluzioni da proporre ai suoi tradizionali simpatizzanti, che ha perso il contatto con gli italiani e con i loro problemi quotidiani. Tutta ripiegata su se stessa e concentrata unicamente sulle formule aritmetiche di coalizione con cui tentare di tornare ad essere competitiva con il centrodestra, senza più visione e senza più anima genuinamente popolare, la gauche nostrana sembra incamminata su un sentiero senza via d'uscita. Prova ne sia, da ultimo, l'accusa di populismo rivolta al Pdl e alla Lega: è l'ennesima resa a quell'atteggiamento radical-chic che negli ultimi lustri ha trasformato i partiti di sinistra in soggetti autoreferenziali, in gruppi ristretti di personale politico che non sono stati più in grado di attingere alla linfa vitale del rapporto con il loro popolo, che ha iniziato a guardare da un'altra parte e a cercare altri leader da cui farsi rappresentare.


Gianteo Bordero

lunedì 12 aprile 2010

I SASSOLINI DI PRODI

da Ragionpolitica.it del 12 aprile 2010

Di sassolini da togliersi dalle scarpe Romano Prodi ne avrebbe parecchi. Unico leader della sinistra che sia stato in grado, negli ultimi quindici anni, di sconfiggere per due volte il centrodestra - seppur di misura e mettendo insieme coalizioni tanto larghe quanto politicamente fragili e incapaci di reggere alla prova del governo - egli ha oggi più di un motivo per servire il piatto freddo della vendetta a quei sedicenti alleati che, tanto nel 1998 quanto nel 2008, si adoperarono in tutti i modi per dargli il benservito. Il Professore lo può fare, come si suol dire, tenendo il coltello dalla parte del manico, visto che dopo la caduta del suo secondo esecutivo la gauche italiana è sprofondata in uno stato di crisi dal quale non sembra in grado di riemergere. E se è indubbio che all'origine di tale stato confusionale vi sia anche il malcontento generale per il modo con cui Prodi ha portato avanti la sua azione quando si trovava alla guida del centrosinistra, è altrettanto evidente che coloro che sono venuti dopo di lui non hanno certo brillato per capacità di visione politica e di proposta programmatica. Così l'ex presidente del Consiglio ha oggi buon gioco nel prendere di mira l'attuale classe dirigente del Partito Democratico, tanto più dopo il deludente risultato ottenuto alle Regionali del 28 e 29 marzo scorsi.


Ed è proprio da qui, dalla recente debacle elettorale del Pd, che Prodi prende le mosse per sferrare un attacco a tutto campo contro i suoi nemici storici all'interno del partito che egli ha contribuito a fondare. Lo fa con una lettera al Messaggero - giornale di cui è editorialista - nella quale, senza tanti giri di parole, afferma che «il risultato delle elezioni è stato inferiore alle attese e la comune interpretazione di questo risultato è che la struttura del partito stesso sia diventata fortemente autoreferenziale, con rapporti troppo deboli con il territorio e con i problemi quotidiani degli italiani, messi in secondo piano dai ristretti obiettivi dei dirigenti e delle correnti». Un'interpretazione, questa, evidentemente fatta propria dal Professore. Che infatti parte proprio da essa per avanzare la sua proposta per una profonda riforma organizzativa del Pd, che prevede, in sostanza, l'azzeramento senza se e senza ma dell'attuale classe dirigente e l'elezione tramite primarie di venti segretari regionali che andrebbero poi a costituire l'esecutivo nazionale del partito. Spetterebbe quindi a questi venti coordinatori regionali il compito di «eleggere il segretario nazionale», «decidere sulle grandi strategie politiche del partito» e «le candidature per le rappresentanze parlamentari».


E' dunque una rivoluzione in piena regola quella invocata da Prodi dalle colonne del Messaggero. Una rivoluzione che però ha il sapore più di una resa dei conti interna che di una genuina proposta (cioè avanzata senza secondi fini) per ridare slancio al maggior partito d'opposizione. Gli indizi che suggeriscono una tale lettura delle parole del fondatore dell'Ulivo sono contenuti nelle durissime espressioni che egli dedica ai notabili del Pd. Parla infatti della necessità di «cancellare gli organi nazionali che si sono dimostrati inefficaci», invoca per il futuro l'esclusione dall'esecutivo del partito delle «infinite code di benemeriti e aventi diritto, compresi gli ex segretari e gli ex presidenti del Consiglio». Ogni malcelato riferimento a Veltroni e D'Alema non è puramente casuale. E Bersani? Sembra essercene anche per lui quando il Professore scrive, in riferimento all'attuale discussione sulle riforme istituzionali, che «non si può continuare con dibattiti senza fine nei quali si ritorna sempre al punto di partenza e ogni decisione viene sentita come provvisoria, per cui, ad esempio, dopo aver optato per il cancellierato si ritorna al semipresidenzialismo e dal semipresidenzialismo si finisce con la scelta di non cambiare nulla».


Insomma, «gl'è tutto da rifare», come avrebbe detto il grande Gino Bartali. Peccato soltanto che a invocare il rinnovamento sia uno dei protagonisti - se non il principale - della non certo esaltante stagione che ha portato al declino del centrosinistra italiano e del suo partito-guida. Prodi, in sostanza, non si può certo chiamare fuori dalla scena che lui stesso ha contribuito a creare da quindici anni a questa parte. Perciò, alla fine, l'impressione è che in ballo vi siano soltanto rivendicazioni personali, regolamenti di conti interni e, come accennato in precedenza, vendette servite a freddo al momento opportuno, cogliendo la palla al balzo di una sconfitta elettorale. Tant'è vero che il Professore non avanza nuove proposte programmatiche da sottoporre all'attenzione degli italiani, non suggerisce - come invece sarebbe auspicabile - nuove idee per il governo del paese. Si concentra unicamente sull'organizzazione interna del Pd, cioè su un aspetto di scarsissimo interesse per i cittadini, e lancia frecce avvelenate contro i suoi detrattori di un tempo. E questo la dice lunga sulle reali intenzioni di un leader deluso e tradito che si è seduto sulla sponda del fiume e attende il passaggio, elezione dopo elezione, del cadavere politico dei suoi amici-nemici.


Gianteo Bordero

giovedì 8 aprile 2010

PD, SE CI SEI BATTI UN COLPO

da Ragionpolitica.it dell'8 aprile 2010

Mentre la maggioranza, uscita rafforzata dall'esito del voto regionale, macina politica a pieno ritmo e mette in cantiere un grande progetto di riforme a tutto campo da realizzarsi negli ultimi tre anni di legislatura, il Partito Democratico sembra scomparso dalla scena. Pd, non pervenuto. Sarà per la delusione conseguente alle elezioni del 28 e 29 marzo scorsi; sarà perché Bersani e suoi hanno dovuto riporre ancora una volta nel cassetto il sogno della spallata a Berlusconi; sarà per l'emorragia di consensi registrata perfino nei tradizionali feudi rossi; sarà per lo stordimento di fronte alla ripresa in grande stile dell'iniziativa politica da parte dell'asse Pdl-Lega... Fatto sta che il maggior partito d'opposizione, da un po' di giorni a questa parte, è diventato quasi afono: qualche dichiarazione d'ufficio del segretario, il solito inconcludente dibattito interno, pochi titoli di giornale e per lo più relegati nelle pagine interne. Insomma, il Pd non fa più notizia. Forse perché la notizia non c'è.


Prima delle elezioni ragionali il partito di Bersani sembrava destinato, stando alle dichiarazioni dei suoi esponenti, a spaccare il mondo, a infliggere una pesante sconfitta al Cavaliere e a indebolirne così il governo, a riproporsi come il perno politico di una nuova alleanza di centrosinistra in grado di contendere allo schieramento avversario la vittoria alle elezioni generali del 2013. In realtà già questa era mera propaganda senza costrutto, perché sin dalla fase della definizione delle candidature per la guida delle Regioni il Pd non aveva certo brillato per capacità d'iniziativa e per autorevolezza nella conduzione del centrosinistra. Alcuni esempi: nel Lazio aveva di fatto subìto la candidatura della radicale Bonino, in Puglia aveva visto morire nella culla delle primarie il progetto dalemiano di un'alleanza con l'Udc di Casini e aveva dovuto ingoiare per la seconda volta la nomination di Vendola, in Calabria aveva tentennato fino all'ultimo sul da farsi, non riuscendo a trovare un accordo con l'Idv. Insomma, se queste erano le premesse, era oggettivamente difficile credere che le conseguenze sarebbero state diverse. Invece i dirigenti del Pd annunciavano giorni radiosi per le sorti del partito e della sinistra, parlavano - come usanza da dieci anni a questa parte - di imminente declino del berlusconismo, pronosticavano un ampio malcontento dell'elettorato di centrodestra nei confronti del governo, e via profetizzando...


Per un verso era quindi inevitabile che dopo una smentita così clamorosa delle loro previsioni e dei loro vaticini gli illuminati del Pd si rinchiudessero silenti nelle «secrete stanze» del Nazareno per tentare di metabolizzare la sconfitta e di trovare una plausibile spiegazione ad essa. Per un altro verso, però, l'atteggiamento mostrato in questi giorni dai vertici democratici (da ultimo i tentennamenti a proposito del dialogo con la maggioranza sulle riforme, con dichiarazioni tutte all'insegna del «sì, però», «ma», «forse», «vedremo», «chi lo sa», ecc..) deve far riflettere sullo stato di crisi permanente di un partito che, nonostante i ripetuti cambi di leadership, gli annunci di rinnovamento, di nuove stagioni e di svolte epocali, non riesce ad esprimere nulla che assomigli - neanche lontanamente - a una linea politica degna di tal nome, a una strategia capace di rendere competitivo il centrosinistra sul piano dei programmi e delle proposte andando oltre l'antiberlusconismo di maniera, a un progetto di ampio respiro che riparta dal rapporto col territorio per mettersi in sintonia con le esigenze del paese.


Così, col Pd in stato comatoso, il campo è sgombro per le scorribande dei vari Di Pietro, Vendola, Grillo, che possono tranquillamente andare a caccia di voti in libera uscita da un partito senza idee, senza coraggio, senza prospettive. Se Bersani pensava di ottenere dalle regionali la conferma della possibilità di rifare una grande Unione di centrosinistra sotto la regia democratica e in chiave anti-Cavaliere, ha sbagliato i suoi conti. Non soltanto perché - vedi il caso Piemonte - anche la riedizione della formula prodiana potrebbe non essere sufficiente a vincere, ma anche e soprattutto perché i suoi sedicenti alleati hanno ben compreso che le loro fortune presenti e future dipendono dalle sfortune del Pd, cioè dal suo progressivo indebolimento e cedimento strutturale. Oggi il segretario del Partito Democratico ha un'occasione d'oro per uscire dalle sabbie mobili: sedersi senza indugi al tavolo delle riforme con la maggioranza e diventare co-protagonista del cambiamento delle istituzioni e dell'ammodernamento dello Stato. Se sceglierà la strada opposta, condannerà se stesso e il Pd alla definitiva irrilevanza politica, aprendo la via alla dissoluzione finale del partito. E' l'ultima chiamata.


Gianteo Bordero

mercoledì 7 aprile 2010

GLI SCIACALLI DEL POST-TERREMOTO

da Ragionpolitica.it del 7 aprile 2010

C'è il dolore e c'è chi specula sul dolore. C'è il terribile ricordo del sisma e c'è chi vorrebbe trasformare tale ricordo in un argomento di propaganda da usare a fini di bassa lotta politica. Ci sono le macerie e c'è chi, come certi giornali e certi esponenti della sinistra, si serve delle macerie per portare avanti la sua personale battaglia contro il governo di turno. Purtroppo, a un anno di distanza dal terremoto che ha colpito l'Aquila e i territori limitrofi, spiace dover constatare che quello che avrebbe dovuto essere un momento di reale e profonda unità nazionale è stato trasformato, dai soliti maître à penser della cultura pessimista, disfattista e soprattutto anti-italiana, in una occasione di sterili polemiche un tanto al chilo, di assurde rivendicazioni portate avanti sulla pelle degli aquilani, di cieca delegittimazione della straordinaria opera di soccorso e di gestione dell'emergenza messa in campo dallo Stato e dalle sue strutture di protezione civile.


L'ideologia (l'antiberlusconismo in questo caso) rende ciechi. E così si finisce per negare anche la più solare delle evidenze: che, cioè, mai in Italia si era assistito ad un'azione così tempestiva ed efficace di assistenza alle popolazioni colpite dal sisma. Nessuno, nemmeno il presidente del Consiglio, nega che molto resti ancora da fare - e come potrebbe essere altrimenti! Ma ciò che infastidisce è la cancellazione preconcetta di quello che è stato realizzato fino ad oggi. Sembra, a leggere certi sinistri articoli di giornale, che nel capoluogo abruzzese e nei Comuni vicini si sia ancora al punto di partenza, che nulla sia stato fatto, che gli aquilani siano stati abbandonati a loro stessi nel generale menefreghismo delle istituzioni. E' una visione sbugiardata dalla realtà, ma che cinicamente e senza scrupolo alcuno viene propagandata a piene mani, nella convinzione di strappare - anche dopo il periodo elettorale - qualche consenso al governo. E a poco serve ricordare la costruzione a tempo di record di nuove abitazioni, l'aver dato un tetto a decine di migliaia di sfollati, alle famiglie che con la casa credevano di aver perduto tutto, l'esser riusciti a riaprire le scuole garantendo la continuità sul territorio del percorso formativo, l'essersi prodigati affinché i finanziamenti per la ricostruzione fossero sufficienti alla causa, l'aver ottenuto dai più importanti leader mondiali la collaborazione per il restauro del patrimonio artistico. No. E' inutile ricordare queste cose a coloro che pregiudizialmente non le vogliono ascoltare; a chi pretende di risolvere i giganteschi problemi del dopo-terremoto con un impossibile colpo di bacchetta magica; a tutti quelli che cavalcano la protesta cercando la pagliuzza nell'occhio del governo e non vedendo la trave ideologica che impedisce loro di formulare un giudizio sereno e obbiettivo su ciò che già è stato fatto.


E la cosa peggiore, come accennavamo poc'anzi, è che tutto ciò avviene senza un minimo senso della misura e del pudore nei confronti di coloro che, a causa della violenza del sisma, hanno visto spazzati via gli affetti, le persone care, i figli, i genitori, i parenti, gli amici. Nella lotta politica tutto fa brodo, ma arrivare al punto di strumentalizzare il dolore, lo smarrimento, la rabbia e la disperazione delle persone colpite da una devastante calamità naturale è veramente troppo. Perché l'esito di tale strumentalizzazione non è tanto quello della sempre legittima critica all'operato di un governo, ma è l'imbarbarimento del clima di solidarietà nazionale, di concreta vicinanza, di fraterno sostegno che si era creato sin dalle prime ore successive al terremoto, quando l'Italia intera si era stretta intorno agli abruzzesi per far sentire loro che non erano soli, che non sarebbero stati abbandonati al loro triste destino, che vi sarebbe stato uno sforzo comune per risanare le piaghe prodotte dalla furia della terra. Così quello che dovrebbe essere un motivo d'orgoglio per il paese intero viene ogni giorno di più messo nel dimenticatoio, in nome dell'ennesima campagna di veleni, sospetti e accuse contro chi si è speso sin dall'inizio per evitare che si ripetesse in Abruzzo ciò che purtroppo era accaduto, dopo un sisma, in altre parti della Penisola. E' il trionfo del cinismo, della disinformazione e soprattutto, come dicevamo, di una mai sopita ideologia anti-italiana che non di rado sconfina nel disprezzo e nell'odio nei confronti della nazione, del popolo e di chi democraticamente lo rappresenta.

Gianteo Bordero

sabato 3 aprile 2010

PASQUA 2010

GIOVANNI PAOLO II, CINQUE ANNI DOPO

da Ragionpolitica.it del 3 aprile 2010

L'abbiamo ancora tutti negli occhi, quella mattina di cinque anni fa. Roma. Piazza San Pietro. Funerali di Giovanni Paolo II. Sulla bara del Pontefice polacco un Vangelo sfogliato da un vento impetuoso. Il vento che soffiava forte quel giorno. Nel Nuovo Testamento il vento è il simbolo dello Spirito, dello Spirito di Dio che si rende presente in mezzo agli uomini. Il vento della Pentecoste. Di quella «nuova Pentecoste» di cui Papa Wojtyla aveva più volte parlato per descrivere la fioritura dei movimenti ecclesiali dopo il Concilio Vaticano II e poi sotto il suo pontificato. Il vento, dunque. E il Vangelo. Lo Spirito di Dio e il Dio fattosi uomo in Gesù Cristo. Quasi una metafora del lungo cammino di Giovanni Paolo II alla guida della Chiesa.


Ventisette anni da Papa. Ventisette anni di profetica, coraggiosa ed entusiasmante testimonianza del mistero cristiano. Ventisette anni scanditi da quell'invito - quasi una supplica - rivolta agli uomini del suo tempo: «Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo». Lo aveva detto all'inizio del suo inatteso pontificato. Lo aveva detto, in quel tempo di ideologie mortali e soffocanti, di guerra fredda e di minacce di distruzione globale, a coloro che tenevano in mano le chiavi dei sistemi economici, dei regimi politici, della cultura: «Non abbiate paura! Cristo sa che cosa è dentro l'uomo. Solo lui lo sa!». Il comunismo sarebbe crollato solo dieci anni più tardi. E oggi nessuno, se non qualche miope nostalgico del tempo che fu, mette più in discussione il ruolo che in tale crollo ebbero le parole di quell'uomo venuto dall'Est - proprio da uno dei paesi schiacciati dal giogo comunista - per guidare la barca di Pietro. Ma quel messaggio - «Aprite le porte a Cristo» - aveva intanto fatto breccia nel cuore e nella mente di milioni di uomini in tutto il mondo, che in esso, e nella testimonianza incarnata che Karol Wojtyla ne dava, avevano sentito risuonare tutta la novità, la forza spirituale, la sempiterna freschezza delle parole di Gesù: «Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù».


In fondo, questo ha mostrato Giovanni Paolo II nel suo lungo pontificato: che dopo duemila anni è ancora possibile vivere fino in fondo l'esperienza cristiana, l'esperienza che di Cristo fecero i primi che gli andarono dietro. La pienezza dell'umanità realizzata nell'incontro con l'Eterno che entra nel tempo e proiettata nel giorno senza fine della Vita che non muore. Perché la Vita, nel mistero cristiano della passione, crocifissione e resurrezione di Gesù, ha sconfitto la Morte. «L'uomo non poteva - disse Papa Wojtyla al termine della Via Crucis del 2003 - immaginare questo mistero, questa realtà. La poteva rivelare Dio solo. L'uomo non ha la possibilità di donare la vita dopo la morte. La morte della morte. Nell'ordine umano, la morte è l'ultima parola. La parola che viene dopo, la parola della risurrezione, è parola solamente di Dio». E questa «parola» egli ha testimoniato fino in fondo, portando di fronte al mondo la croce della malattia e della sofferenza e mostrando come, nell'offerta e nell'abbandono totale al Padre, attraverso di esse è possibile partecipare ancora più profondamente all'esperienza di Cristo. Le immagini di Giovanni Paolo II che quasi si aggrappa alla croce nella sua ultima Via Crucis, quella del 2005, in questo senso parlano più di ogni analisi, di ogni commento, di ogni pur intelligente riflessione. Ancora una volta, ventisette anni di pontificato, quattordici encicliche, centinaia di esortazioni apostoliche, migliaia di discorsi parlano meno del silenzio del Papa sofferente e tremante che abbraccia la croce, quasi diventando un tutt'uno con essa. Siamo al cuore dell'esperienza cristiana.


Ma torniamo per un attimo a quella mattina di cinque anni fa, in Piazza San Pietro. Lì c'era anche il cardinale Ratzinger. L'uomo che Giovanni Paolo II aveva voluto per venticinque anni alla guida della Congregazione per la dottrina della fede. Il «braccio teologico» - se così lo possiamo chiamare - del pontificato wojtyliano. Ma anche l'«amico Ratzinger», come egli stesso ebbe a definirlo andando oltre la freddezza di certo linguaggio clericale. Fu lui che, in qualità di decano del Sacro Collegio, pronunciò l'omelia funebre. Non parole di circostanza, ma il vivo racconto - con «il cuore pieno di tristezza, ma anche di gioiosa speranza e di profonda gratitudine» - di una storia d'amore, sequela e fedeltà durata più di ottant'anni. La storia dell'uomo Karol Wojtyla e della sua risposta alla chiamata del Signore: «Seguimi!». Ma anche qui, le immagini restano nella memoria di più dei discorsi: e allora rivediamo con commozione quel braccio del cardinale sollevato verso il cielo al termine dell'omelia, quasi ad accompagnare non soltanto le parole della predica («Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice»), ma soprattutto l'ultimo, grande viaggio di Giovanni Paolo II. Il viaggio più importante. Oggi l'«amico Ratzinger» siede sul soglio che fu di Wojtyla, e come lui porta con coraggio il peso della guida della Chiesa in anni difficili, pieni di insidie e tempestosi per la barca di Pietro. E allora, alla fine, restano di fronte agli occhi queste due figure di grandi cristiani, due amici in Cristo che la Provvidenza ha messo vicini per tracciare con certezza la rotta della fede tra i marosi del nostro tempo. E così la storia continua...


Gianteo Bordero