lunedì 12 aprile 2010

I SASSOLINI DI PRODI

da Ragionpolitica.it del 12 aprile 2010

Di sassolini da togliersi dalle scarpe Romano Prodi ne avrebbe parecchi. Unico leader della sinistra che sia stato in grado, negli ultimi quindici anni, di sconfiggere per due volte il centrodestra - seppur di misura e mettendo insieme coalizioni tanto larghe quanto politicamente fragili e incapaci di reggere alla prova del governo - egli ha oggi più di un motivo per servire il piatto freddo della vendetta a quei sedicenti alleati che, tanto nel 1998 quanto nel 2008, si adoperarono in tutti i modi per dargli il benservito. Il Professore lo può fare, come si suol dire, tenendo il coltello dalla parte del manico, visto che dopo la caduta del suo secondo esecutivo la gauche italiana è sprofondata in uno stato di crisi dal quale non sembra in grado di riemergere. E se è indubbio che all'origine di tale stato confusionale vi sia anche il malcontento generale per il modo con cui Prodi ha portato avanti la sua azione quando si trovava alla guida del centrosinistra, è altrettanto evidente che coloro che sono venuti dopo di lui non hanno certo brillato per capacità di visione politica e di proposta programmatica. Così l'ex presidente del Consiglio ha oggi buon gioco nel prendere di mira l'attuale classe dirigente del Partito Democratico, tanto più dopo il deludente risultato ottenuto alle Regionali del 28 e 29 marzo scorsi.


Ed è proprio da qui, dalla recente debacle elettorale del Pd, che Prodi prende le mosse per sferrare un attacco a tutto campo contro i suoi nemici storici all'interno del partito che egli ha contribuito a fondare. Lo fa con una lettera al Messaggero - giornale di cui è editorialista - nella quale, senza tanti giri di parole, afferma che «il risultato delle elezioni è stato inferiore alle attese e la comune interpretazione di questo risultato è che la struttura del partito stesso sia diventata fortemente autoreferenziale, con rapporti troppo deboli con il territorio e con i problemi quotidiani degli italiani, messi in secondo piano dai ristretti obiettivi dei dirigenti e delle correnti». Un'interpretazione, questa, evidentemente fatta propria dal Professore. Che infatti parte proprio da essa per avanzare la sua proposta per una profonda riforma organizzativa del Pd, che prevede, in sostanza, l'azzeramento senza se e senza ma dell'attuale classe dirigente e l'elezione tramite primarie di venti segretari regionali che andrebbero poi a costituire l'esecutivo nazionale del partito. Spetterebbe quindi a questi venti coordinatori regionali il compito di «eleggere il segretario nazionale», «decidere sulle grandi strategie politiche del partito» e «le candidature per le rappresentanze parlamentari».


E' dunque una rivoluzione in piena regola quella invocata da Prodi dalle colonne del Messaggero. Una rivoluzione che però ha il sapore più di una resa dei conti interna che di una genuina proposta (cioè avanzata senza secondi fini) per ridare slancio al maggior partito d'opposizione. Gli indizi che suggeriscono una tale lettura delle parole del fondatore dell'Ulivo sono contenuti nelle durissime espressioni che egli dedica ai notabili del Pd. Parla infatti della necessità di «cancellare gli organi nazionali che si sono dimostrati inefficaci», invoca per il futuro l'esclusione dall'esecutivo del partito delle «infinite code di benemeriti e aventi diritto, compresi gli ex segretari e gli ex presidenti del Consiglio». Ogni malcelato riferimento a Veltroni e D'Alema non è puramente casuale. E Bersani? Sembra essercene anche per lui quando il Professore scrive, in riferimento all'attuale discussione sulle riforme istituzionali, che «non si può continuare con dibattiti senza fine nei quali si ritorna sempre al punto di partenza e ogni decisione viene sentita come provvisoria, per cui, ad esempio, dopo aver optato per il cancellierato si ritorna al semipresidenzialismo e dal semipresidenzialismo si finisce con la scelta di non cambiare nulla».


Insomma, «gl'è tutto da rifare», come avrebbe detto il grande Gino Bartali. Peccato soltanto che a invocare il rinnovamento sia uno dei protagonisti - se non il principale - della non certo esaltante stagione che ha portato al declino del centrosinistra italiano e del suo partito-guida. Prodi, in sostanza, non si può certo chiamare fuori dalla scena che lui stesso ha contribuito a creare da quindici anni a questa parte. Perciò, alla fine, l'impressione è che in ballo vi siano soltanto rivendicazioni personali, regolamenti di conti interni e, come accennato in precedenza, vendette servite a freddo al momento opportuno, cogliendo la palla al balzo di una sconfitta elettorale. Tant'è vero che il Professore non avanza nuove proposte programmatiche da sottoporre all'attenzione degli italiani, non suggerisce - come invece sarebbe auspicabile - nuove idee per il governo del paese. Si concentra unicamente sull'organizzazione interna del Pd, cioè su un aspetto di scarsissimo interesse per i cittadini, e lancia frecce avvelenate contro i suoi detrattori di un tempo. E questo la dice lunga sulle reali intenzioni di un leader deluso e tradito che si è seduto sulla sponda del fiume e attende il passaggio, elezione dopo elezione, del cadavere politico dei suoi amici-nemici.


Gianteo Bordero

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