sabato 31 maggio 2008

IL TEVERE PIU' STRETTO

da Ragionpolitica.it del 31 maggio 2008

Nel giorno in cui giunge la conferma ufficiale dell'incontro che avrà luogo in Vaticano, il 6 giugno prossimo, tra Benedetto XVI e Silvio Berlusconi, Papa Ratzinger interviene all'Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana con un discorso che sancisce il recuperato rapporto tra Santa Sede e Stato italiano dopo i due burrascosi anni di governo Prodi e di maggioranza parlamentare di centrosinistra. Due anni nei quali - giova ricordarlo - sia dall'esecutivo che dalle forze che lo sostenevano alle Camere erano giunti numerosi attacchi nei confronti non soltanto del pontefice e della gerarchia, ma anche agli stessi principii e valori tanto cari alla Chiesa, in primis la vita e la famiglia (si pensi alla proposta di istituzione dei Dico, alla bozza di legge sul testamento biologico e, ultima in ordine di tempo, alla decisione dell'ex ministro della Salute, Livia Turco, di rivedere le linee guida della legge sulla fecondazione assistita snaturandone, di fatto, lo spirito). I rapporti non certo idilliaci tra il governo del «cattolico adulto» Romano Prodi e l'Unione da un lato e la Chiesa italiana dall'altro, del resto, si erano definitivamente incrinati con la mancata visita del Papa all'università La Sapienza, quando l'esecutivo non seppe garantire le condizioni di sicurezza e tranquillità per lo svolgimento dell'evento.

Tutti questi episodi, sommati insieme, avevano fatto sorgere oltre Tevere un atteggiamento di sospetto e di critica più o meno esplicita nei confronti del governo e della maggioranza, documentati dalle ripetute prese di posizione dei vertici della Cei e, per altro verso, da alcuni interventi dello Benedetto XVI. Come interpretare diversamente, ad esempio, il discorso del pontefice del 10 gennaio scorso, all'annuale incontro con gli amministratori locali di Roma e del Lazio, nel quale, di fronte all'ancora sindaco (ma già candidato presidente del Consiglio in pectore del Partito Democratico) Walter Veltroni, il Papa parlò di «gravissimo degrado di alcune aree» della Capitale?

E' chiaro, quindi, che il cambiamento degli equilibri politici dopo il voto del 13 e 14 aprile, l'esclusione dal parlamento di quei partiti che con più vigore avevano soffiato sul fuoco dell'anticlericalismo e del laicismo ideologico, l'insediamento al potere dello schieramento di centrodestra (da sempre sensibile ai temi propri della dottrina della Chiesa su vita, famiglia ed educazione) e il nuovo clima di dialogo instauratosi tra maggioranza ed opposizione non potevano che essere salutati con favore dalla Santa Sede e dalla Conferenza episcopale. Tanto che non solo il cardinal Bagnasco, nella sua prolusione all'Assemblea generale della Cei, ha auspicato «un periodo di operosa stabilità, al quale costruttivamente partecipino tutte le forze politiche, nei ruoli loro assegnati», ma anche lo stesso pontefice, nel suo discorso, ha di fatto benedetto i «segnali di un clima nuovo, più fiducioso e più costruttivo. Esso - ha affermato - è legato al profilarsi di rapporti più sereni tra le forze politiche e le istituzioni, in virtù di una percezione più viva delle responsabilità comuni per il futuro della Nazione». Anche se «questo clima ha bisogno di consolidarsi e potrebbe presto svanire, rappresenta però già di per sé una risorsa preziosa, che è compito di ciascuno, secondo il proprio ruolo e le proprie responsabilità, salvaguardare e rafforzare».

Parole inequivocabili, queste di Benedetto XVI, che fanno anche da cornice all'incontro del 6 giugno con Silvio Berlusconi. E' infatti consapevolezza comune del Papa e del presidente del Consiglio la necessità di una collaborazione fattiva tra tutte le forze politiche, economiche e sociali presenti sul territorio italiano per affrontare con qualche chance di vittoria i tanti problemi che affliggono il paese. «L'Italia - ha detto il pontefice nel suo intervento di fronte all'Assemblea della Cei - ha bisogno di uscire da un periodo difficile, nel quale è sembrato affievolirsi il dinamismo economico e sociale, è diminuita la fiducia nel futuro ed è cresciuto invece il senso di insicurezza per le condizioni di povertà di tante famiglie». Sono concetti che si collocano nella stessa direttrice sulla quale il leader del Popolo della Libertà ha condotto la sua campagna elettorale ed ha iniziato il cammino del suo quarto governo: far rialzare un'Italia sfiduciata e impaurita, ridare speranza ai cittadini che sperimentano ogni giorno sulla propria pelle le difficoltà legate al caro vita e ai bassi salari, rimettere in moto la locomotiva dello sviluppo e della crescita.

La Chiesa, per quanto la riguarda, è pronta, da un lato, a fare la sua parte negli ambiti in cui maggiori sono la sua presenza e il suo radicamento e, dall'altro, a mantenere alto il livello di guardia su quei principii «non negoziabili» che il Papa ha ribadito anche nel suo discorso alla Cei: la difesa della vita umana «in ogni momento e condizione, dal concepimento e dalla fase embrionale alle situazioni di malattia e di sofferenza e fino alla morte naturale», la tutela della famiglia fondata sul matrimonio con adeguati provvedimenti legislativi ed economici, la promozione della libertà scolastica e la valorizzazione di quelle realtà educative «suscitate da forze popolari multiple, preoccupate di interpretare le scelte educative delle singole famiglie». Benedetto XVI sa che su questi temi, con l'esecutivo Berlusconi in carica e con il centrodestra in maggioranza alle Camere, il confronto con lo Stato italiano e le sue istituzioni sarà molto più agevole rispetto ai due anni passati. E' quindi alle porte, anche tra governo e Chiesa italiana, una «nuova stagione» di dialogo e collaborazione, nella quale la politica e la Chiesa, ciascuna nel proprio ruolo e ambito d'azione e nel rispetto delle reciproche prerogative, si impegnino a realizzare il bene comune dell'Italia e degli italiani.

Gianteo Bordero

venerdì 30 maggio 2008

SINISTRA IN MOVIMENTO, NASCE L'ASSE VENDOLA-SD

da Ragionpolitica.it del 30 maggio 2008

Per i partiti della fu Sinistra Arcobaleno, rimasti fuori dalle aule parlamentari dopo le elezioni del 13 e 14 aprile, si apre una intensa stagione di analisi e ripensamento delle strategie e della proposta politica. Prova ne è la convocazione dei congressi dei Verdi e di Rifondazione Comunista (di quest'ultimo abbiamo già parlato in un precedente articolo) e dell'assemblea nazionale della Sinistra Democratica, che si svolgerà a Chianciano dal 27 al 29 di giugno. Leggere il documento politico che sarà in discussione a Chianciano è importante per comprendere che cosa bolle in pentola dalle parti della sinistra radicale e come potrebbero rimescolarsi le carte non soltanto nella gauche «dura e pura», ma anche nel più ampio quadro di quella che un tempo fu l'Unione. L'esito dei congressi del Prc e dei Verdi e dell'assemblea nazionale di Sd potrebbe, infatti, avere ripercussioni anche sulle future alleanze del Partito Democratico dopo il fallimento della strategia veltroniana della corsa in solitaria e dopo che Massimo D'Alema e i dalemiani hanno rialzato la testa, tornando a promuovere una linea di raccordo tra tutte le opposizioni, anche quelle escluse dalla ripartizione dei seggi parlamentari.

La proposta contenuta nel documento della Sinistra Democratica è chiara: una Costituente della sinistra che abbia come obiettivo quello della nascita di «un nuovo soggetto politico» fondato «sulla partecipazione e sul protagonismo di migliaia di donne e di uomini, iscritti e non iscritti ai partiti politici». Non si tratterebbe più di una semplice sommatoria di partiti e di apparati, di un cartello elettorale «privo di proposta politica e di un'idea convincente sul futuro dell'Italia», ma di un soggetto radicalmente nuovo, capace di valorizzare «le culture che attraversano tutta la sinistra, in ciascuna delle sue attuali componenti: la cultura del lavoro, della qualità e della sostenibilità dello sviluppo, il pacifismo, l'esperienza femminista, quella dei diritti e delle libertà civili».

Tale proposta si colloca nella medesima prospettiva indicata dalla mozione congressuale con cui il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, tenterà di conquistare la segreteria di Rifondazione Comunista durante le assise che si terranno, anche in questo caso a Chianciano, dal 24 al 27 luglio (non è casuale, a tal proposito, la presenza del coordinatore nazionale della Sinistra Democratica, Claudio Fava, a un incontro organizzato a Roma da Vendola qualche giorno fa - ne ha dato conto l'Espresso la scorsa settimana). E' chiaro che una eventuale sconfitta del governatore pugliese al congresso del Prc e l'affermazione del suo competitore, l'ex ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero, comporterebbero anche la bocciatura sul nascere del progetto della Costituente. La mozione Ferrero, infatti, pur riconoscendo l'opportunità di un percorso di «unità a sinistra», usa toni duri nei confronti dell'ipotesi fatta propria da Vendola e rivendica innanzitutto la necessità di rafforzare Rifondazione e di valorizzarne il ruolo prima di procedere a nuovi tipi di aggregazione («La proposta della Costituente - si legge nella mozione congressuale - non coglie il ruolo storico di Rifondazione Comunista» ed anzi «ne rappresenta la negazione in chiave moderata»).

Al contrario, se al congresso del Prc dovesse avere la meglio Vendola, la Costituente prenderebbe quota e l'asse tra Rifondazione e Sinistra Democratica potrebbe portare anche a nuovi sviluppi per quanto riguarda la strategia delle alleanze del Partito Democratico, che troverebbe nel nuovo soggetto un interlocutore con cui dare vita a un centrosinistra «allargato» oltre i suoi attuali confini. Da questo punto di vista, è significativo il fatto che Walter Veltroni abbia iniziato i suoi colloqui post-elettorali, su impulso dei dalemiani, proprio incontrando Fava e dicendosi disponibile, a quanto riferito dallo stesso coordinatore di Sd, «a confrontarsi a sinistra non su titoli astratti ma sulle scelte politiche concrete, avendo come punto d'arrivo la costruzione di un nuovo centrosinistra». Il prezzo di tale possibile intesa, però, sarebbe non soltanto (sul versante Pd) l'indebolimento de facto della leadership veltroniana e il ritorno in auge di D'Alema come vero pilota della nave democratica, ma anche (sul versane Prc) una probabile nuova scissione interna al partito, con Ferrero e i suoi sostenitori (molti dei quali provenienti da Democrazia Proletaria) a presidiare, assieme ai comunisti di Diliberto, lo spazio della gauche «dura e pura». Come si vede, il percorso della sinistra italiana per i prossimi anni si preannuncia tutto in salita.


Gianteo Bordero

martedì 27 maggio 2008

RIFONDAZIONE VA A CONGRESSO

da Ragionpolitica.it del 27 maggio 2008

Fausto Bertinotti, ben 9 mesi prima della débacle elettorale della sinistra il 13 e 14 aprile scorsi, lo aveva già compreso e messo per iscritto sulla sua rivista Alternative per il socialismo: «La sinistra si trova oggi di fronte alla sfida forse più difficile della sua storia: quella dell'esistenza politica. Non è solo, come è successo tante altre volte, il rischio della sconfitta, dello scompaginamento, di un duro ma temporaneo ridimensionarsi della sua forza: quel che si affaccia è l'orizzonte di un vero e proprio declino». Erano ancora di là da venire la crisi del governo Prodi, la scelta del Pd veltroniano di correre da solo, la disgregazione dell'Unione, la schiacciante vittoria di Berlusconi e della Lega, l'uscita della sinistra antagonista dal parlamento, le conseguenti analisi sulla fine dell'egemonia culturale e persino sulla fine politica della stessa sinistra. Eppure l'allora presidente della Camera aveva, in qualche modo, già previsto tutto.

Aveva capito che le difficoltà del suo partito e degli altri che sarebbero confluiti nell'Arcobaleno non erano dovute soltanto a quello che è stato definito «vento di destra», ma anche, in misura rilevante, all'incapacità della sinistra di leggere e interpretare in modo convincente i cambiamenti in atto nella società, di proporre una alternativa politica credibile e praticabile, di porsi in reale (e non soltanto verbale) sintonia con quello che un tempo fu il «suo» popolo. E aveva anche compreso che «questa volta l'urgenza della risposta è davvero grande: non ci sono dati né tempi lunghi né solide certezze sugli strumenti con i quali attrezzarsi. E' un po' come quando tocca insieme correre e cercare la strada, ed è anche possibile che non si riesca a trovarla».

Anche qui, Bertinotti è stato in qualche modo profeta, perché la strada non è stata trovata: la via da lui stesso proposta, ossia la nascita della Sinistra Arcobaleno, si è rivelata, alla prova dei fatti, una scelta perdente. Al punto che oggi viene criticata, all'interno di Rifondazione Comunista, non soltanto da un'ampia fetta di dirigenti e militanti che fanno capo al ministro della Solidarietà Sociale del governo Prodi, Paolo Ferrero, ma anche (seppure in maniera più morbida) dallo stesso Bertinotti e dai suoi fedelissimi, che sostengono la candidatura a segretario di Nichi Vendola al prossimo congresso nazionale del partito, che si svolgerà a Chianciano Terme dal 24 al 27 luglio.

Eppure, nonostante le critiche più o meno aspre alla strategia del «compagno» Fausto, la sua idea madre, quella dell'unità a sinistra, rimane sul tavolo come quella attorno a cui si giocherà il destino della sinistra italiana e della sua ristrutturazione dopo la sconfitta del 13 e 14 aprile. Certo, Ferrero e i suoi sostenitori, che puntano a prendere in mano le redini del Prc, sottolineano, nel documento preparato in vista del congresso, la necessità di rafforzare Rifondazione Comunista, puntano il dito contro la mozione Vendola e l'idea, in essa contenuta, di una nuova «costituente della sinistra», usano parole dure contro la «riduzione di Rifondazione Comunista a un fatto politicamente residuale e conservatore». Ma, quando dall'analisi devono passare alla proposta, anch'essi non possono fare a meno di riconoscere che «la sconfitta della Sinistra Arcobaleno non ha per nulla ridotto la necessità di unire la sinistra... Si tratta quindi di porsi il problema di come unire la sinistra, dalle forze politiche alle associazioni, ai singoli individui, senza ripetere gli errori e le forzature che hanno caratterizzato la Sinistra Arcobaleno». In discussione è quindi il metodo, il «come», ma non il punto d'arrivo, l'orizzonte politico, che resta quello indicato dall'ex presidente della Camera.

Il vero problema, per tutti (per Bertinotti come per Ferrero), rimane quello della definizione e ridefinizione di una proposta politica capace nuovamente di fare breccia nell'elettorato «storico» di Rifondazione. Un elettorato che, come hanno dimostrato i risultati delle elezioni, è emigrato in maniera significativa verso il Partito Democratico, non soltanto a causa della fallimentare partecipazione del Prc al governo Prodi prima e del richiamo veltroniano al cosiddetto «voto utile» poi, ma anche - e forse soprattutto - per l'incapacità della classe dirigente rifondarola di parlare un linguaggio comprensibile all'elettore di sinistra e attinente all'agenda politica dell'Italia 2008. In questo senso, i documenti programmatici di Vendola e Ferrero non sembrano certo marcare una discontinuità di linguaggio né formale né sostanziale rispetto al recente passato e rischiano di trasformare il prossimo congresso di Rifondazione in un semplice momento di lotta tra fazioni contrapposte e, tutt'al più, di riposizionamento tattico del Prc in merito alle future alleanze da stipularsi a livello nazionale. Un po' poco, rispetto all'entità della sconfitta e alla profondità della crisi emersa con le elezioni del 13 e 14 aprile.

Gianteo Bordero

giovedì 22 maggio 2008

IL RITORNO DEL GOVERNO

da Ragionpolitica.it del 22 maggio 2008

Sicurezza, rilancio dell'economia, questione rifiuti. Parte da qui il cammino del Berlusconi IV. Parte dall'affronto di quei temi e di quei problemi che già in campagna elettorale avevano rappresentato il cuore della proposta programmatica del Popolo della Libertà e della Lega Nord. Parte da Napoli, dalla città simbolo del non governo, per far comprendere agli italiani che ora, finalmente, un governo c'è. C'è un esecutivo che decide, un esecutivo non più ostaggio dei veti incrociati e dei diktat paralizzanti che impediscono il dispiegarsi di un'azione amministrativa forte e coerente, infine un esecutivo che governa per e non contro. L'opposto, insomma, di ciò a cui ci avevano abituato, nei passati due anni, il governo Prodi e una maggioranza divisa praticamente su tutto e tenuta insieme soltanto dall'odio nei confronti del «nemico» e dalla volontà di cancellare i provvedimenti che tale «nemico» aveva realizzato.

Il segnale che giunge dal Consiglio dei ministri riunito a Napoli è innanzitutto questo: l'Italia ha nuovamente un governo nella pienezza dei suoi poteri. Questo, del resto, è ciò che gli elettori hanno chiesto a gran voce nelle elezioni del 13 e 14 aprile, stanchi del penoso spettacolo offerto dall'Unione e del continuo «teatrino» che per venti mesi ha visto opporsi sulla scena, l'un contro l'altro armati, ministri dello stesso governo, leaders dei partiti facenti parte della stessa coalizione, peones dello stesso partito in cerca di visibilità e ribalta mediatica. Mentre questa drammatica telenovela andava in onda tutti i giorni, senza soluzione di continuità, nei Palazzi del potere, nelle aule parlamentari, sui giornali e alla tv, l'Italia rimaneva di fatto priva di un governo degno di tal nome, che affrontasse a testa alta e con mano ferma i tanti problemi sul tappeto, che hanno invece potuto continuare a crescere e ad aggravarsi in tutta tranquillità - anche in questo caso, Napoli docet, con i cumuli di monnezza che, ora dopo ora, si trasformavano in vere e proprie montagne di rifiuti.

Silvio Berlusconi porta dunque sulle spalle il peso gravoso di dover porre rimedio anche a questo vuoto di governo dei problemi lasciatogli in eredità dal centrosinistra di marca prodiana. La sfida è di enormi proporzioni, ma già da ora, da questi primi giorni della sedicesima legislatura e dal Consiglio dei ministri di Napoli, si può cogliere un secondo dato (oltre a quello del «ritorno del governo») di assoluta rilevanza politica, invero poco sottolineato dalla gran parte dei commentatori: la definitiva affermazione di uno dei capisaldi del berlusconismo sin dalle sue origini, ossia di quella «nuova moralità della politica» che consiste nel mantener fede alla parola data ai cittadini in campagna elettorale. Se gli italiani hanno consegnato la maggioranza parlamentare nelle mani del centrodestra è anche - e forse soprattutto - perché sapevano che votare per Berlusconi e per i suoi alleati dava maggiori garanzie, rispetto alla preferenza data al centrosinistra, sul piano concreto dell'affidabilità, del mantenimento cioè delle promesse elettorali nell'azione quotidiana di governo. Consapevole di ciò, il leader del Popolo della Libertà ha giocato la sua campagna elettorale non sul terreno dell'ideologia, ma della prassi. Ed ha avuto ragione.

Ora il quarto governo Berlusconi è atteso alla prova dei fatti. Le questioni sul tappeto sono tante, ma la scelta di entrare subito in medias res, partendo proprio dall'affronto delle tre maggiori «emergenze» nazionali, dà la misura di quanto il nuovo esecutivo sia consapevole delle attese dei cittadini e della loro volontà di avere un governo che sia tale, cioè che funzioni e dia risposte efficaci ai problemi, mettendo in pratica quanto preannunciato nei mesi precedenti la competizione elettorale. Da questo punto di vista, la semplificazione del quadro politico e il mutato atteggiamento dell'opposizione nei confronti del Cavaliere (ancora da verificare sul terreno dopo le aperture verbali dei giorni scorsi) possono creare quelle condizioni di sistema necessarie affinché l'esecutivo possa da un lato dispiegare interamente la sua azione riformatrice e, dall'altro lato, soddisfare le domande provenienti da larga parte dell'elettorato - non solo da quello che ha votato centrodestra.

Gianteo Bordero

domenica 18 maggio 2008

DIALOGO IN NOME DEL BENE COMUNE

da Ragionpolitica.it del 18 maggio 2008

Il nuovo clima instauratosi tra i due schieramenti politici, suggellato ieri dal faccia a faccia a Palazzo Chigi tra Silvio Berlusconi e Walter Veltroni, deve essere letto alla luce di un dato oggettivo che costituisce una sorta di imprinting del Berlusconi quater: il nuovo governo è nato - e per un po' di tempo dovrà continuare ad operare - in un quadro nazionale caratterizzato da uno stato d'emergenza su materie che toccano da vicino la vita quotidiana degli italiani: la sicurezza, i salari, il caro-vita, i rifiuti. E' su questi temi che, come è stato da molti rilevato, il nuovo esecutivo è chiamato a dare risposte immediate. Ma, trattandosi appunto di «emergenze», sarebbe illusorio pensare che problemi che si trascinano ormai da anni, e le cui cause sono da ricercarsi in storture del sistema-paese che vengono da lontano, possano essere risolti con un colpo di bacchetta magica e con provvedimenti che non toccano alla radice le criticità che rendono faticoso il cammino dell'Italia nel contesto globale.

Su questo punto, il presidente del Consiglio è stato molto chiaro, tanto nel corso della campagna elettorale quanto in questo inizio di sedicesima legislatura; coloro che parlano di una radicale «metamorfosi» berlusconiana (dal Berlusconi d'assalto al Berlusconi pacificatore) dovrebbero comprendere che essa, più che essere dettata dalla volontà del leader del Popolo della Libertà, è stata imposta dagli eventi stessi, dalla realtà. Una realtà che, a tutt'oggi, non lascia spazio agli svolazzamenti pindarici sullo stato del paese, ma chiede che al consueto ottimismo della volontà (a cui il Cavaliere ci ha abituati) corrisponda un solido realismo della ragione. Un realismo che obbliga a chiamare le cose con il loro nome, riconoscendo la drammatica profondità e la nodosa complessità dei problemi che oggi l'Italia si trova a dover affrontare. Tant'è vero che lo stesso presidente del Consiglio e i ministri che guidano alcuni dicasteri-chiave si sforzano ogni giorno di sottolineare come i primi provvedimenti che il nuovo governo si accinge a varare siano solo il primo passo per uscire dallo stato d'emergenza, una boccata d'aria per far comprendere ai cittadini che la rotta è cambiata e che il paese, come recitava il motto della campagna elettorale del Popolo della Libertà, può davvero incominciare a rialzarsi. Si tratta di uno sforzo di realismo che, presumibilmente, accompagnerà tutto il cammino del Berlusconi quater e che, se mantenuto, non potrà che portare buoni frutti per l'Italia e per gli italiani.

E' in quest'ottica e all'interno di questo quadro che va collocata quella che alcuni commentatori hanno definito la «stagione del dialogo» tra maggioranza ed opposizione sui grandi nodi insoluti del sistema-paese, a partire dalle riforme istituzionali e costituzionali e dalla questione dei salari. L'iniziativa berlusconiana del riconoscimento del governo ombra del Partito Democratico e le aperture del presidente del Consiglio sul cosiddetto «statuto dell'opposizione» non devono essere pensate, come lo stesso Berlusconi ha affermato nel corso del dibattito sulla fiducia alle Camere, a mo' di un inciucio consociativo tra i due schieramenti: quello a cui punta il capo del governo è invece dare il senso di una responsabilità comune di tutta la classe politica italiana di fronte alle emergenze che il paese si trova ad affrontare; il senso di una consapevolezza trasversale di quelli che sono i problemi sul tappeto; il senso di una compattezza del sistema politico nel suo complesso per quanto riguarda lo spirito di fondo con cui aggredire i mali che rendono meno facile e tranquilla la vita dei cittadini.

Sia Silvio Berlusconi che Walter Veltroni, in questi giorni, hanno posto l'accento sul bene comune e sulla necessità di trasmettere al paese il sentimento di uno sforzo di crescita che va oltre gli schieramenti partitici e riguarda tutti i protagonisti della vita sociale, politica ed economica italiana. E' l'unico modo credibile, questo fare appello alle energie e all'iniziativa di tutti i cittadini, per affrontare a testa alta lo stato d'emergenza e per ridare al paese quella fiducia, quello slancio, quel senso di appartenenza a un popolo che, soli, possono far uscire l'Italia dalle secche in cui è finita. E' la realtà a dettare il metodo. Berlusconi e Veltroni lo hanno compreso, ed è sulla base di tale consapevolezza che si avviano ad una stagione di responsabilità - ciascuno nel suo campo - nel nome dell'interesse comune del paese.


Gianteo Bordero

venerdì 16 maggio 2008

DI PIETRO VA ALLA GUERRA

da Ragionpolitica.it del 16 maggio 2008

Più che una dichiarazione di voto sulla fiducia ad un governo, quella pronunciata ieri alla Camera da Antonio Di Pietro aveva tutta l'aria di una dichiarazione di guerra. L'ex pm di Mani Pulite ha indossato nuovamente la toga per la sua arringa contro il nemico di sempre, facendo risuonare nell'aula di Montecitorio non le parole di un ragionamento politico, ma le accuse più svariate (le solite, già ascoltate mille volte) nei confronti di Berlusconi. «Conosciamo bene - ha detto il leader dell'Italia dei Valori rivolgendosi al presidente del Consiglio - la sua storia personale e giudiziaria e quella dei tanti dipendenti e sodali che si è portato in parlamento con sé a titolo di ringraziamento per i favori e le omertà di cui si sono resi complici... Conosciamo bene la tela sul controllo dell'informazione e sul sistema di disinformazione che ha messo in piedi». E ancora: «Lei odia i giudici indipendenti che fanno il loro dovere, a lei quei giudici fanno orrore! Lei vuole solo una giustizia forte con i deboli e debole con i forti! Lei vuole solo una giustizia che fa comodo a lei, una giustizia a suo uso e consumo, e quando non le basta si fa le leggi apposta per fare in modo che la giustizia funzioni come dice lei... Lei è in conflitto di interesse con se stesso e nulla vuole fare per risolverlo». E si potrebbe continuare...

Parla dunque Di Pietro, ma sembra di ascoltare Marco Travaglio o Michele Santoro, o Paolo Flores D'Arcais, i paladini dell'antiberlusconismo militante, gli irriducibili dell'odio contro il Cavaliere, quelli che, da quindici anni a questa parte, ritengono che egli non debba essere affrontato e sconfitto con argomenti politici, ma attraverso l'uso politico della giustizia, facendo tintinnare le manette (o le monetine) come nel '93 - l'anno d'oro del giustizialismo made in Italy. Poco importa se Berlusconi è stato assolto in tutti i processi che lo hanno visto coinvolto, se tutta la lunga serie delle accuse rivoltegli si è rivelata priva di fondamento. L'importante, per Di Pietro & CO., è ripetere ossessivamente, fino alla nausea, tutti i teoremi che per più di un decennio hanno intorbidato il clima politico e sociale del paese, impedendo che si giungesse alla maturazione di un bipolarismo non più guerreggiato in nome dell'odio contro una sola persona, ma giocato attorno al confronto tra programmi, idee e progetti per il governo del sistema-Italia.

Ora che questa maturazione ha ricevuto una significativa accelerazione grazie all'iniziativa di legittimazione reciproca portata avanti da Walter Veltroni e Silvio Berlusconi - una legittimazione definitivamente sancita nei due giorni di dibattito sulla fiducia alla Camera dei Deputati - a Di Pietro non resta che inasprire ancora di più i toni, smettendo i panni istituzionali (del ministro delle Infrastrutture prima ed ora del parlamentare) per tornare a vestire quella toga che tanta fortuna gli ha garantito a partire dalle inchieste di Mani Pulite. Così il fondatore dell'Italia dei Valori sceglie di presentarsi come il vero, unico oppositore di Berlusconi e del centrodestra: «Da oggi - ha affermato durante il suo intervento a Montecitorio - esiste ed esisterà un'opposizione forte, decisa e senza compromessi: quella dell'Italia dei Valori... Noi crediamo che lei abbia fatto e si sia messo a fare politica per i suoi interessi personali e giudiziari; è questa la verità che non ci toglie nessuno. Noi non le diamo la fiducia».

Parole, queste pronunciate da Di Pietro, che mostrano come la sua strategia punti non soltanto alla delegittimazione dell'avversario politico, ma anche a erodere consensi al Partito Democratico, che ha scelto (lo testimoniano gli interventi di Piero Fassino e Walter Veltroni alla Camera) di percorrere fino in fondo la strada del dialogo con il nuovo governo, ponendo fine a quella sorta di «guerra civile» che ha contraddistinto i rapporti tra gli schieramenti politici negli anni passati. Ora che la sinistra antagonista è rimasta fuori dalle aule parlamentari, l'ex pm ha scelto di rappresentare lui l'opposizione radicale al centrodestra berlusconiano, non più - come accadeva con Rifondazione, i Verdi e i Comunisti Italiani - in termini ideologici, ma in quelli di pura contestazione giustizialista della legittimità politica di Berlusconi e delle forze che lo sostengono. In questo senso, oggi è proprio l'Italia dei Valori la vera forza anti-sistema del panorama politico italiano. Un problema che investe anche il Partito Democratico - alleato di Di Pietro nella competizione elettorale del 13 e 14 aprile - e la definizione della sua strategia politica per gli anni a venire.

Gianteo Bordero

martedì 13 maggio 2008

IL TRAVAGLIO DELL'OPPOSIZIONE

da Ragionpolitica.it del 13 maggio 2008

Mentre il Partito Democratico e la Sinistra Arcobaleno si leccano le ferite del dopo voto cercando di progettare una strategia di sopravvivenza politica - il primo dai banchi del parlamento, la seconda nel chiuso delle segreterie di partito -, a dare voce all'opposizione al centrodestra e al nuovo assetto istituzionale rimangono, sempre identiche a se stesse, le truppe d'assalto dell'antiberlusconismo fazioso e militante. Ecco allora che Marco Travaglio, davanti alle telecamere di Che tempo che fa, su Rai 3, tira fuori dal cilindro magico della più bolsa retorica manipulitesca la nuova, strabiliante accusa nei confronti di un esponente del Pdl: il neo presidente del Senato, Renato Schifani. Il quale, secondo Travaglio, «ha avuto rapporti con persone poi condannate per mafia». Il teorema che si vuole divulgare è sempre il solito, trito e ritrito: Berlusconi, il suo partito e i suoi uomini di fiducia sono espressione di un potere colluso con la malavita organizzata, sono il braccio politico della mafia, ne curano gli interessi dai palazzi romani. Come di consueto quando si ha a che fare con Travaglio, si tratta di pure teorie non suffragate da prove, insinuazioni infamanti e capi d'accusa campati per aria - sullo «stile Travaglio» ha scritto un bell'articolo Filippo Facci su Il Giornale di ieri.

Quello che qui ci preme sottolineare, oltre all'ennesimo episodio di disservizio pubblico offerto dalla tv di Stato e, in particolare, dalla terza rete - il consigliere d'Amministrazione Rai Angelo Maria Petroni ha parlato di «uno dei momenti più bassi nella storia dell'azienda» -, è il dato della debolezza dell'opposizione «ufficiale» (parlamentare e politica) al centrodestra. Un'opposizione talmente malconcia, stordita e afona, dopo il voto del 13 e 14 aprile, da lasciare che siano i vari Travaglio, Grillo & Santoro ad assurgere a protagonisti assoluti della scena e ad organizzare nelle piazze (reali, virtuali e mediatiche), e quindi al di fuori delle sedi istituzionali, l'alternativa a Berlusconi e alle forze che lo sostengono. Certo, bisogna registrare con favore le prese di posizione critiche provenienti dal Partito Democratico in merito alle dichiarazioni di Travaglio, da quella di Renzo Lusetti a quella della capogruppo al Senato, Anna Finocchiaro, tutte segno di un significativo cambio di rotta rispetto all'antiberlusconismo di maniera a cui, negli anni scorsi, anche gli esponenti dell'allora Margherita e dell'allora Ds ci avevano abituato. Ma le dichiarazioni estemporanee non bastano: da un'opposizione degna di tal nome ci si attende l'elaborazione di una linea politica chiara, organica e coerente in materia di informazione, giustizia e garanzie a tutela dei rappresentanti delle istituzioni. Una linea politica che, a tutt'oggi, si fa fatica ad intravedere dalle parti del loft veltroniano.

Uno degli effetti collaterali di tale debolezza politica dell'opposizione «ufficiale» è il rischio, più che concreto, che anche tra le forze politiche alternative al centrodestra, e presenti in parlamento, a dettar legge siano quelle che, abilmente, si accodano alle crociate giustizialiste di Travaglio & CO. per trarne vantaggio in termini di consenso: una su tutte, l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Il quale - guarda caso - è stato l'unico, tra i leader dei partiti rappresentati alle Camere, a manifestare la propria solidarietà a Travaglio dopo la puntata di Che tempo che fa di sabato scorso. L'ex pm di Mani Pulite, dopo il buon risultato ottenuto il 13 e 14 aprile, punta a capitalizzare ulteriormente il suo sostegno ai guru dell'antipolitica, con una strategia spicciola, del giorno per giorno, ma sicuramente efficace - almeno nell'immediato: da qui la sua scelta di non aderire, rinnegando quanto affermato prima del voto, ai gruppi parlamentari del Partito Democratico e di fare cammino in solitaria nella sedicesima legislatura. Anche qui viene a galla un altro degli errori politici e strategici del Pd, che prima delle elezioni ha cercato di «usare» Di Pietro per essere competitivo col centrodestra e che ora scopre di essere stato «usato» da lui come cavallo di Troia per ottenere un buon numero di parlamentari, tale da garantire l'autosufficienza per formare un gruppo tanto a Montecitorio quanto a Palazzo Madama. Veltroni e i suoi, come si suol dire, «andarono per suonare e tornarono suonati». In molti si augurano che, d'ora in poi, la musica cambi dalle parti dell'opposizione.

Gianteo Bordero

venerdì 9 maggio 2008

CHE COSA E' IL PD?

da Ragionpolitica.it del 9 maggio 2008

Che cosa è, oggi, il Partito Democratico? Quale la sua identità politica? Quale la sua collocazione in ambito europeo? Domande capitali che non hanno trovato risposta in questi mesi, ma non più eludibili dopo la pesante sconfitta del 13 e 14 aprile. Se è vero che i tempi ristretti in vista della competizione elettorale non hanno consentito una adeguata riflessione sull'essenza del nuovo soggetto politico di centrosinistra, è altrettanto vero che tale vaghezza ha rappresentato un elemento penalizzante, a fronte della chiarezza identitaria e programmatica con cui il Popolo della Libertà e la Lega Nord si sono presentati agli italiani. Il Pd, agli occhi degli elettori, è sembrato oscillare continuamente tra la mimesi del linguaggio e delle proposte di governo berlusconiane e la continuità con l'esperienza dell'esecutivo prodiano, col risultato di apparire o troppo schiacciato sul centrodestra o troppo legato al passato.

E' mancato, in sostanza, un centro di gravità, un punto di equilibrio, che solo poteva essere garantito dalla previa definizione di una identità politica chiara e distinta, dalla dichiarazione di una collocazione inequivoca nel contesto dei partiti europei, dalla scelta di alleanze omogenee alle storie politiche che sono confluite nel Partito Democratico. Invece Veltroni e i suoi collaboratori si sono riparati sotto l'ombrello del «partito liquido», di un generico «melting pot» tra diverse culture politiche, per nascondere l'indeterminatezza identitaria; sono rimasti nel vago in merito alla scelta di aderire o meno al Partito Socialista europeo; hanno imbarcato alleati (Di Pietro e i Radicali) certamente non vicini alle posizioni programmatiche espresse dal candidato premier.

Per tutti questi motivi oggi una riflessione profonda su che cosa sia il Partito Democratico non può più essere procrastinata, e di certo la soluzione dei problemi non può essere semplicemente individuata nella mera rimozione della dirigenza che sin qui ha retto le sorti del partito. Invece i quotidiani degli ultimi giorni riportano le cronache dell'apertura di una lotta di potere che si sta consumando, ancora una volta, tra Walter Veltroni e il suo antagonista di sempre, Massimo D'Alema. Come se bastasse cambiare assetto dirigenziale per dare tout court un volto definito e comprensibile a un partito nato da poco e ancora in cerca d'autore. Scrive ad esempio Il Riformista di mercoledì: «L'impressione è che il dibattito nel Pd sia partito molto male. Al centro c'è - meglio non girarci intorno - uno scontro politico sul gruppo dirigente. Sulla sua qualità, tenuta, e rappresentatività democratica. C'è chi pensa che Veltroni non possa fare da solo, perché da solo non ce la fa; e c'è chi pensa che Veltroni debba fare da solo, perché gli altri sono tutti dei Borgia. Parlate di questo - conclude l'articolo - e, paradossalmente, l'ampiezza del contrasto si ridurrà. Parlate d'altro, e finirete invece davvero a cazzotti».

E' giusto che le tensioni vengano a galla - e in parte ciò sta già avvenendo, con D'Alema che riunisce i «suoi» parlamentari in un hotel romano per iniziare a dare forma alla sua corrente anti-veltroniana. Ma tutto questo non è sufficiente, almeno dal punto di vista più marcatamente politico, perché riesce oggettivamente difficile credere che la débacle del 13 e 14 aprile sia ascrivibile in toto (o in grande parte) alla strategia del segretario, così come è difficile pensare che il problema principale del Partito Democratico sia oggi quello della sua leadership. Non che Veltroni sia esente da colpe ed errori, ma caricare esclusivamente sulle sue spalle tutto il peso della sconfitta significherebbe non aver compreso i motivi ultimi per i quali il Pd non è riuscito a fare breccia nell'elettorato italiano. Motivi che, come dicevamo, riguardano innanzitutto la definizione politica del partito. Un partito che, a tutt'oggi, non è - come si suol dire - né carne né pesce, e rimane un semplice contenitore di post-comunisti, post-democristiani e ulivisti, senza che la sintesi sia stata raggiunta - e forse neppure veramente tentata.

Una riflessione senza sconti e senza tentennamenti sul «che cosa è il Partito Democratico», più che sul «che fare», sarebbe senz'altro un elemento utile non soltanto al centrosinistra, ma anche al quadro politico italiano nel suo complesso: alla semplificazione dello scenario parlamentare potrebbe così seguire anche quella semplificazione politica che avvicinerebbe sempre più il nostro paese alle grandi democrazie europee ed occidentali, dove a contendersi il governo sono un grande partito popolare e un grande partito socialdemocratico. Col Pd nel limbo, ad oggi questo quadro risulta ancora, di fatto, incompleto.

Gianteo Bordero

sabato 3 maggio 2008

IL COLPO DI CODA

da Ragionpolitica.it del 3 maggio 2008

Il governo Prodi si congeda dagli italiani nello stesso modo in cui, due anni fa, si presentò sulla scena: come un governo «etico» incaricato di riportare sulla retta via un paese di elusori ed evasori fiscali. E lo fa con lo stesso nome e lo stesso volto dell'ideatore del Grande Fratello fiscale, il viceministro dell'Economia Vincenzo Visco, che un attimo prima di sgomberare il suo ufficio dà il via libera alla pubblicazione su internet delle dichiarazioni dei redditi di tutti gli italiani, senza alcun preavviso e con buona pace del rispetto della tanto invocata (a parole) privacy. Il furore giacobino di Visco non conosce tregua e non si ferma di fronte a nulla - neppure di fronte al sacrosanto diritto dei cittadini di non vedere messi in piazza all'improvviso e nel modo più «brutale» possibile i dati sui loro guadagni.

La decisione del viceministro uscente (peraltro contestata dal Garante per la privacy, che dopo poche ore ha bloccato l'accesso alle pagine web in questione) è la proverbiale ciliegina sulla torta di una politica che, nonostante si fosse auto-proclamata grande vendicatrice dei contribuenti onesti e paladina dei ceti meno abbienti, ha finito, con le sue scelte, per colpire proprio gli anelli più deboli della catena sociale italiana. Lo ha fatto dapprima, all'inizio del cammino del governo Prodi, instaurando un clima da «terrore» fiscale che ha mortificato gli italiani di ogni genere e grado; lo ha fatto, poi, con la Finanziaria 2006, con una grandinata di tasse, imposte e balzelli che si è abbattuta indistintamente su tutti i cittadini ed ha portato ad un impoverimento generale dei contribuenti «normali»; lo fa, ora, con un provvedimento che rischia di mettere in imbarazzo coloro che, per un motivo o per l'altro, non presentano dichiarazioni dei redditi da capogiro - sono proprio costoro, secondo l'inquietante logica economica di Visco, i potenziali evasori da colpire con la mannaia dello Stato guardone.

Questa assurda politica fiscale è stata senz'altro una delle cause maggiori della sonora sconfitta della sinistra alle elezioni del 13 e 14 aprile: non c'è dubbio sul fatto che gli italiani abbiano voluto, tra le altre cose, dire «basta» al sistema-Visco e a tutte le sue pesanti implicazioni sulla vita quotidiana. Perciò non è da escludere che sia proprio una sorta di sete di vendetta nei confronti degli elettori ad aver mosso, più o meno consapevolmente, il viceministro uscente dell'Economia nella pubblicazione on line delle dichiarazioni dei redditi. Come qualche tempo fa Visco fece pagare un conto salato al generale comandante della Guardia di Finanza Roberto Speciale, che aveva «osato» mettere il naso nella vicenda Unipol-Bnl, rimuovendolo dalla guida delle Fiamme Gialle, così è possibile che oggi egli abbia voluto consumare il suo risentimento nei confronti degli italiani, che hanno fatto tornare al potere Berlusconi, sventolando in piazza i dati dei loro 730.

Per fortuna questi sono gli ultimi colpi di coda di un governo che ha scritto una delle pagine peggiori della nostra storia repubblicana, guidando il paese mosso da un moralismo sfrenato e da un dirigismo etico che hanno sfibrato il tessuto sociale italiano, indebolito le energie di crescita del sistema, mortificato il senso dell'ottimismo necessario per produrre benessere e ricchezza. Significativamente, è proprio Vincenzo Visco, l'icona e la quintessenza delle politiche economiche e fiscali prodiane, a girare l'ultima pagina del libro del governo dell'Unione. Fra pochi giorni, con il varo del Berlusconi IV, gli italiani potranno finalmente tornare a leggere un'altra storia - il cui protagonista, grazie al cielo, non sarà più un vampiro.


Gianteo Bordero

venerdì 2 maggio 2008

1° MAGGIO ALLE CINQUE TERRE