da Ragionpolitica.it del 27 maggio 2008
Fausto Bertinotti, ben 9 mesi prima della débacle elettorale della sinistra il 13 e 14 aprile scorsi, lo aveva già compreso e messo per iscritto sulla sua rivista Alternative per il socialismo: «La sinistra si trova oggi di fronte alla sfida forse più difficile della sua storia: quella dell'esistenza politica. Non è solo, come è successo tante altre volte, il rischio della sconfitta, dello scompaginamento, di un duro ma temporaneo ridimensionarsi della sua forza: quel che si affaccia è l'orizzonte di un vero e proprio declino». Erano ancora di là da venire la crisi del governo Prodi, la scelta del Pd veltroniano di correre da solo, la disgregazione dell'Unione, la schiacciante vittoria di Berlusconi e della Lega, l'uscita della sinistra antagonista dal parlamento, le conseguenti analisi sulla fine dell'egemonia culturale e persino sulla fine politica della stessa sinistra. Eppure l'allora presidente della Camera aveva, in qualche modo, già previsto tutto.
Aveva capito che le difficoltà del suo partito e degli altri che sarebbero confluiti nell'Arcobaleno non erano dovute soltanto a quello che è stato definito «vento di destra», ma anche, in misura rilevante, all'incapacità della sinistra di leggere e interpretare in modo convincente i cambiamenti in atto nella società, di proporre una alternativa politica credibile e praticabile, di porsi in reale (e non soltanto verbale) sintonia con quello che un tempo fu il «suo» popolo. E aveva anche compreso che «questa volta l'urgenza della risposta è davvero grande: non ci sono dati né tempi lunghi né solide certezze sugli strumenti con i quali attrezzarsi. E' un po' come quando tocca insieme correre e cercare la strada, ed è anche possibile che non si riesca a trovarla».
Anche qui, Bertinotti è stato in qualche modo profeta, perché la strada non è stata trovata: la via da lui stesso proposta, ossia la nascita della Sinistra Arcobaleno, si è rivelata, alla prova dei fatti, una scelta perdente. Al punto che oggi viene criticata, all'interno di Rifondazione Comunista, non soltanto da un'ampia fetta di dirigenti e militanti che fanno capo al ministro della Solidarietà Sociale del governo Prodi, Paolo Ferrero, ma anche (seppure in maniera più morbida) dallo stesso Bertinotti e dai suoi fedelissimi, che sostengono la candidatura a segretario di Nichi Vendola al prossimo congresso nazionale del partito, che si svolgerà a Chianciano Terme dal 24 al 27 luglio.
Eppure, nonostante le critiche più o meno aspre alla strategia del «compagno» Fausto, la sua idea madre, quella dell'unità a sinistra, rimane sul tavolo come quella attorno a cui si giocherà il destino della sinistra italiana e della sua ristrutturazione dopo la sconfitta del 13 e 14 aprile. Certo, Ferrero e i suoi sostenitori, che puntano a prendere in mano le redini del Prc, sottolineano, nel documento preparato in vista del congresso, la necessità di rafforzare Rifondazione Comunista, puntano il dito contro la mozione Vendola e l'idea, in essa contenuta, di una nuova «costituente della sinistra», usano parole dure contro la «riduzione di Rifondazione Comunista a un fatto politicamente residuale e conservatore». Ma, quando dall'analisi devono passare alla proposta, anch'essi non possono fare a meno di riconoscere che «la sconfitta della Sinistra Arcobaleno non ha per nulla ridotto la necessità di unire la sinistra... Si tratta quindi di porsi il problema di come unire la sinistra, dalle forze politiche alle associazioni, ai singoli individui, senza ripetere gli errori e le forzature che hanno caratterizzato la Sinistra Arcobaleno». In discussione è quindi il metodo, il «come», ma non il punto d'arrivo, l'orizzonte politico, che resta quello indicato dall'ex presidente della Camera.
Il vero problema, per tutti (per Bertinotti come per Ferrero), rimane quello della definizione e ridefinizione di una proposta politica capace nuovamente di fare breccia nell'elettorato «storico» di Rifondazione. Un elettorato che, come hanno dimostrato i risultati delle elezioni, è emigrato in maniera significativa verso il Partito Democratico, non soltanto a causa della fallimentare partecipazione del Prc al governo Prodi prima e del richiamo veltroniano al cosiddetto «voto utile» poi, ma anche - e forse soprattutto - per l'incapacità della classe dirigente rifondarola di parlare un linguaggio comprensibile all'elettore di sinistra e attinente all'agenda politica dell'Italia 2008. In questo senso, i documenti programmatici di Vendola e Ferrero non sembrano certo marcare una discontinuità di linguaggio né formale né sostanziale rispetto al recente passato e rischiano di trasformare il prossimo congresso di Rifondazione in un semplice momento di lotta tra fazioni contrapposte e, tutt'al più, di riposizionamento tattico del Prc in merito alle future alleanze da stipularsi a livello nazionale. Un po' poco, rispetto all'entità della sconfitta e alla profondità della crisi emersa con le elezioni del 13 e 14 aprile.
Gianteo Bordero
martedì 27 maggio 2008
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