giovedì 25 novembre 2010

UNIVERSITÀ. IL PD SCHERZA COL FUOCO

da Ragionpolitica.it del 25 novembre 2010

Pur di abbattere il governo Berlusconi, il Partito Democratico è pronto a fare anche i proverbiali patti col diavolo. Non soltanto alleandosi con l'ex odiato e deprecato fascista Fini, ma anche assecondando la protesta studentesca che sta andando in scena in questi giorni nei modi e nelle forme che tutti hanno potuto e possono vedere. La logica democratica richiederebbe che un partito, per salire al governo del Paese, godesse della legittimazione popolare, che passasse attraverso libere elezioni ed ottenesse il consenso maggioritario dei cittadini. Peccato soltanto che ciò oggi risulti, per il Pd, un miraggio lontano come i Tartari del famoso romanzo di Dino Buzzati. E allora? E allora meglio ricorrere ai mezzi alternativi, ai metodi spicci, come ha fatto Bersani unendosi alla protesta degli studenti e salendo con loro sul tetto dell'università nella convinzione di alimentare un'onda di ribellione che, negli auspici dei Democratici, dovrebbe gonfiarsi fino a sommergere e a spazzare via come uno tsunami Berlusconi, il suo governo e la maggioranza che lo sostiene. Come ha osservato il presidente dei deputati del Pdl, Fabrizio Cicchitto, il Pd - in compagnia del movimento estremista per eccellenza, l'Idv - «cavalca la protesta arrivando allo spettacolo grottesco di salire sui tetti, mentre c'è una componente eversiva di questa protesta che ieri ha preso d'assalto il Senato». Ed ha aggiunto, rivolto a Bersani e al suo partito: «Voi state lisciando il pelo a un movimento minoritario ed estremista che provocherà danni seri al Paese».


E' proprio così: in assenza di una proposta politica in grado di porsi come seria e credibile alternativa di governo, incapace di elaborare una piattaforma programmatica all'altezza delle sfide che l'Italia si trova a dover affrontare in questo complesso frangente storico, il Partito Democratico ha scelto ancora una volta la strada dell'estremismo, del peggior conservatorismo sociale, dell'anacronistica difesa di quei privilegi (nel campo della scuola, dell'università, del welfare, solo per citare alcuni casi macroscopici) che negli scorsi decenni hanno portato il nostro Paese ad accumulare debito pubblico, parassitismo, clientelismo e inefficienze varie, con le deleterie conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.


Alla luce dell'atteggiamento tenuto da Bersani e dalla dirigenza democrat in questi giorni, è chiaro che la formula del Pd come «partito riformista», tanto evocata e ripetuta ad ogni piè sospinto a meri fini di propaganda, appare a conti fatti come un ossimoro. Il Pd non è il nuovo, non è la strada italiana alla moderna socialdemocrazia, ma è la somma di tutto ciò che è vecchio, dei privilegi acquisiti, dell'ipertrofia statalista. Esageriamo? Ma se il punto cardine della riforma universitaria della Gelmini è la meritocrazia, come altro definire il tipo di opposizione che sta portando avanti il Partito Democratico, se non come bieca conservazione dello status quo? E questo è solo l'ultimo episodio in ordine di tempo, perché se andiamo ad analizzare la risposta politica data nel corso degli anni dal Pd ai provvedimenti innovatori messi in campo dai governi Berlusconi, l'elenco potrebbe allungarsi a dismisura, a partire dalla pervicace e preconcetta ostilità alle riforme in materia di lavoro e di welfare ispirate alle proposte di Marco Biagi e realizzate grazie alla coraggiosa iniziativa di Maurizio Sacconi.


Insomma, gli anni passano ma i post-comunisti non cambiano mai: sempre arroccati in difesa dell'indifendibile, sempre schierati al fianco dei nemici del rinnovamento, sempre incapaci di rompere una volta per tutte con il loro passato che non vuole passare. D'Alema, Veltroni, Franceschini, Bersani sono, alla fine dei conti, le facce di una stessa medaglia, l'espressione di una medesima cultura - se così si può chiamare - ancora fondata sull'antagonismo e sull'odio preconcetto nei confronti dell'avversario. Addirittura con un'aggravante rispetto al Pci, che per lo meno manteneva un realistico (anche se opportunistico) senso delle istituzioni e sapeva prendere le distanze (ancorché nei modi e nei tempi tipici di un partito legato a doppio filo con l'Unione Sovietica) dai movimenti di lotta violenta. Cosa che il Pd oggi non sembra in grado di fare, preferendo invece scherzare col fuoco pur di cancellare dalla scena politica il nemico Silvio.

Gianteo Bordero

martedì 23 novembre 2010

BENEDETTO XVI, RIFORMATORE INCOMPRESO DALLA CULTURA DOMINANTE

da Ragionpolitica.it del 23 novembre 2010

Il clamore mediatico suscitato dalle anticipazioni del libro-intervista di Peter Seewald a Papa Ratzinger porta con sé la traccia, in molti casi, di un'interpretazione errata del pontificato di Benedetto XVI sin dai suoi inizi. Sul Papa è stato cioè applicato un giudizio superficiale e conformistico che ha impedito alla maggior parte dei media di cogliere il tratto distintivo all'un tempo della personalità di Ratzinger e del suo magistero petrino. Il «panzerkardinal», l'arcigno conservatore refrattario ad ogni tipo di confronto con le questioni poste dalla modernità, il nostalgico del passato e delle sue forme, il novello inquisitore, il freddo teologo tutto ripiegato sui suoi studi, il dottrinario indifferente ai problemi concreti dei cristiani in carne ed ossa: questo e molto altro ancora, sulla stessa lunghezza d'onda, è stato detto e scritto sull'attuale pontefice in questi ultimi anni. Ciò faceva comodo, del resto, a coloro che puntavano ad alimentare una vulgata politicamente e finanche ecclesialmente corretta, volta a dimostrare che era in corso il tentativo, ai massimi livelli della gerarchia, di destrutturare, quando non di cancellare tout court, le cosiddette «conquiste» raggiunte grazie al Vaticano II e all'affermazione, in ambito cattolico, di una teologia e di una pastorale finalmente al passo e all'altezza dei tempi moderni.


Chi ha portato avanti questa operazione non ha dunque saputo cogliere il vero Ratzinger, quello reale e storico e non quello banalizzato e caricaturale presentato ad ogni piè sospinto da giornali e tv. Non ha saputo leggere, ascoltare, approfondire le sue parole e i suoi gesti. Non ha voluto afferrare il filo conduttore di tutto il suo pontificato. Che non è la bieca volontà di tornare al bel tempo che fu, di azzerare il Concilio, di mortificare i «progressisti» e via strologando. No, quello di Benedetto XVI è stato sin dal principio, come abbiamo detto più volte, un papato tutto orientato alla riforma spirituale della Chiesa. Una riforma che non è cambiamento in primis di strutture, di burocrazie vaticane, di strategie pastorali, bensì richiamo costante alla conversione, alla vera fede, al nocciolo dell'esperienza cristiana. Una riforma che, come Ratzinger stesso ha ribadito in più di una occasione, si ottiene innanzitutto non per aggiunta di qualche cosa all'immutabile depositum fidei, ma per sottrazione di ciò che, nel corso del tempo, ha in qualche modo appesantito il cammino della Chiesa nella storia.


Ciò che conta prima di tutto, per Benedetto, è cioè la qualità spirituale dei credenti, la riscoperta del cuore della fede cristiana e l'adesione ad esso. In questa prospettiva è la fede che fonda la morale, è il sì dell'uomo a Cristo che fonda un nuovo modo di vivere. Queste cose Ratzinger le diceva già da cardinale, quando ricordava che il cristianesimo non è in primo luogo una «dottrina che si può ripetere in una scuola di religione», un «seguito di leggi morali», un «certo complesso di riti»: «Tutto questo è secondario, viene dopo. Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento». E' il mistero del Dio che si fa compagno di strada dell'uomo, carne e sangue, che assume su di sé la condizione umana fino all'estremo limite della morte. Che per amore, sacrificando se stesso, salva le sue creature dal naufragio nel nulla, nella disperazione, nel vuoto di significato. Da qui, e non da altro, parte la riforma.


E allora si comprendono anche alcune delle risposte che il Papa ha dato a Peter Seewald nel libro in uscita quest'oggi e anticipate dalla stampa nei giorni scorsi. Come quella, tanto fraintesa e subito salutata con tripudio dagli stessi che fino a ieri dipingevano Ratzinger come il peggiore dei Papi possibili, sull'uso del preservativo nel caso in cui una prostituta (o «prostituto», secondo l'originale tedesco) rischi di contagiare il cliente col virus Hiv. «Questo - ha detto il pontefice - può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole». Tuttavia «questo non è il modo vero e proprio per vincere l'infezione dell'Hiv. È veramente necessaria una umanizzazione della sessualità». Ora, alla luce di quanto detto poc'anzi, è chiaro che il punto centrale dell'affermazione papale non è la questione del condom, peraltro limitata al caso specifico, bensì quella della «umanizzazione della sessualità». La chiave di volta, cioè, è ancora e sempre la sfida dell'«essere nuovo» da cui tutto, anche la morale, discende. Perché è solo l'«essere nuovo» che il cristianesimo ha portato nel mondo a poter rigenerare l'umanità nei suoi costumi e nelle sue pratiche. Non viceversa.

Gianteo Bordero

giovedì 18 novembre 2010

COSÌ VINCE L’ANTIMAFIA DEI FATTI

da Ragionpolitica.it del 18 novembre 2010

Una grande vittoria dello Stato, delle forze di Polizia, del ministero dell'Interno, del governo Berlusconi. La cattura di Antonio Iovine, uno dei capi storici del clan dei Casalesi, «delfino» del boss Francesco Schiavone, rappresenta l'ennesimo duro colpo inferto alla criminalità organizzata negli ultimi due anni. E' l'arresto che accorcia ulteriormente la lista dei latitanti più pericolosi: ventiquattro mesi fa si era partiti da trenta, oggi ne mancano soltanto due: Matteo Messina Denaro e Michele Zagaria. Un risultato straordinario, che ormai senza ombra di dubbio fa dell'ultimo biennio quello più efficace e più fruttuoso nella lotta alle cosche, ai clan, alle 'ndrine. I numeri parlano da soli: 6.754 mafiosi arrestati, di cui 410 latitanti; più di 660 operazioni di polizia giudiziaria; 29.700 beni sequestrati per un valore di quasi 15 miliardi di euro; 5.900 beni confiscati, pari a 3 miliardi di euro. Un'azione capillare e mai prima d'ora così incisiva. Un coordinamento straordinario tra le varie istituzioni coinvolte.


Lo Stato, insomma, è tornato a fare lo Stato. Ha fatto sentire la sua presenza nei territori infestati dalla criminalità organizzata. Ha inviato l'esercito nei luoghi simbolo della malavita per non far sentire i cittadini abbandonati a se stessi, per non lasciare che la paura continuasse a inghiottire intere comunità, per non perpetuare la drammatica realtà di pezzi d'Italia controllati totalmente dalle cosche. Ha dato un segnale chiaro e inequivocabile anche col rafforzamento del carcere duro per i boss, col Piano straordinario antimafia varato dal governo e approvato pochi mesi fa dal parlamento (contenente misure quali la creazione dell'Agenzia per la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, il Codice delle leggi antimafia, l'introduzione di nuovi strumenti di aggressione ai patrimoni mafiosi e all'ecomafia), con la firma del Protocollo per la lotta alla criminalità organizzata assieme a Confindustria. Tanti provvedimenti che vanno in un'unica direzione: contrastare la malavita in ogni modo possibile e in tutti i settori nei quali essa ha infiltrazioni. E' una battaglia dura, durissima, contro un nemico con cento facce e mille diramazioni. Ma decisivo è appunto mostrare e dimostrare che lo Stato c'è, che le istituzioni ci sono, che la volontà di sradicare le mafie si concretizza in atti concreti.


Questa, come è stato detto, è l'antimafia dei fatti e non l'antimafia delle chiacchiere. L'antimafia che combatte ogni giorno la criminalità sul campo e non nei salotti. L'antimafia di tanti eroi ignoti e silenziosi, dei servitori fedeli dello Stato, dei valorosi uomini delle squadre «catturandi», e non di coloro che affollano le tribune mediatiche in cerca di gloria personale. E' l'antimafia di cui c'è bisogno, non quella che ha bisogno della ribalta perché così fa più chic. E' l'antimafia che unisce gli italiani, non quella che li divide sulla base di rozzi stereotipi ideologici, per cui se sei di centrodestra non hai diritto alla patente di perfetto antimafioso, mentre se sei di sinistra sei per ciò stesso un paladino della lotta ai clan. E' l'antimafia che vogliamo, non quella che tentano di imporci certi giornali e tv come strumento di lotta politica. A proposito, tra i principali quotidiani oggi in edicola l'unico che s'è scordato - diciamo così - di dare ampio risalto in prima pagina all'arresto di Iovine è stata l'Unità. Chissà perché...

Gianteo Bordero

mercoledì 17 novembre 2010

COSI' IL COMUNE DI SESTRI LEVANTE HA SPREMUTO I CITTADINI

Testo dell'intervento che ho tenuto durante il Consiglio Comunale di Sestri Levante il 16 novembre 2010, in merito al Rendiconto di Gestione 2009.

Visto che siamo in periodo di olive e di olio, potremmo paragonare il Bilancio Consuntivo 2009, che ci troviamo a discutere questa sera, ad una abbondante spremitura. La grande spremitura delle tasche dei cittadini sestresi, che l’anno passato si sono visti piovere sulla testa una gragnola di aumenti di tasse, canoni e quant’altro, giustificata allora dall’assessore Ceselli con la supposta necessità di attingere risorse per il Comune a causa – uso le parole dell’assessore – del “furto”, dello “scippo”, della “rapina” messi in atto dal governo nei confronti degli Enti locali. Ebbene, alle parole di Ceselli rispondono, contraddicendole, i numeri del Rendiconto 2009.


Un Rendiconto che, peraltro, ha avuto un iter travagliato. Lo prova in primo luogo il fatto che siamo qui a discuterlo praticamente a fine anno, tanto che gli stessi Revisori dei Conti, nella loro relazione, raccomandano - cito testualmente - “per la successiva annualità di effettuare una rendicontazione più tempestiva, che consenta di rispettare i termini di legge per l’approvazione del Consuntivo. Questo – proseguono i Revisori – anche ai fini di poter utilizzare l’eventuale avanzo di amministrazione non vincolato tenendo conto delle priorità in ordine al finanziamento dei debiti fuori bilancio ed al vincolo per crediti di dubbia esigibilità”.


In secondo luogo, che questo Rendiconto sia frutto di un percorso a dir poco faticoso è testimoniato dal fatto che sono state necessarie ben due stesure del Bilancio per giungere alla versione definitiva, quella che stasera siamo chiamati a votare. Nella prima versione, quella già approvata dalla Giunta e poi sostituita dalla presente, risultavano spese correnti maggiori per 350 mila euro nel settore Ambiente e Territorio, alla voce “servizio smaltimento rifiuti”. 350 mila euro che sono poi andati ad ingrossare il già copioso avanzo di amministrazione, che nella prima versione risultava essere di 3.351.000 euro, mentre nella seconda risulta essere di 3.701.000 euro. Appunto, 350 mila euro in più. A tal proposito, chiediamo all’assessore Ceselli una spiegazione in merito a tale significativa modifica che ha reso necessario annullare la prima delibera e votarne una seconda.


Parlavamo all’inizio di “spremitura”. Lo si evince proprio dal dato sull’avanzo di amministrazione, che chiude, come detto, a 3.701.000 euro, mentre nell’anno precedente risultava pari a 1.996.000 euro. Lo si evince poi dai dati sulle entrate tributarie ed extratributarie, entrambe in aumento rispetto al 2008. In particolare, per quanto riguarda le entrate tributarie, la tassa sulla spazzatura, la TARSU, passa da 2.630.000 euro a 3.208.000 euro, in conseguenza della revisione delle tariffe adottata con delibera di Giunta il 12 febbraio 2009. Per quanto riguarda le entrate extratributarie, svettano le “Sanzioni codice della Strada”, le cosiddette “multe”, che passano da 606.000 euro del 2008 a 1.269.000 euro del 2009. Un aumento cospicuo, anche al netto della riscossione coatta per contravvenzioni verbalizzate nel 2004 e prima non pagate. Sempre tra le entrate extratributarie fa la sua comparsa il Cosap, il Canone per l’occupazione del suolo pubblico, che l’anno scorso ha sostituito la Tosap, l’omonima tassa, garantendo all’Amministrazione 590.000 euro, mentre la Tosap ne portava 527.000. In totale, le entrate extratributarie passano dai 4.953.000 euro del 2008 ai 5.876.000 euro del 2009. Quasi un milione di euro in più. E il cittadino paga.


E veniamo al capitolo relativo ai trasferimenti, dove ci imbattiamo in qualche sorpresa. Vediamo ad esempio che il totale dei trasferimenti passa dai 6.171.000 del 2008 ai 5.884.000 del 2009, quindi più di 200 mila euro in meno. Ma la cosa interessante è andare a vedere la composizione e il trend di questi trasferimenti. E così scopriamo che ad aver subìto una sensibile riduzione sono i trasferimenti dalla Regione Liguria al Comune di Sestri Levante. Sia i trasferimenti correnti, che erano 1.960.000 euro nel 2008 e sono 1.674.000 nel 2009, sia i trasferimenti per funzioni delegate. In particolare, tra questi ultimi, vediamo che il contributo regionale per le politiche abitative passa dai 216 mila euro del 2008 ai 148 mila euro del 2009, il contributo regionale per l’assistenza scolastica passa da 105 mila euro a 98 mila euro, e soprattutto il contributo regionale per anziani passa dai 675 mila euro del 2008 ai 409 mila euro del 2009, 265 mila euro in meno. E mentre abbiamo più 10 mila euro di contributo regionale per minori e più 15 mila euro di contributo regionale per i disabili, per quanto riguarda il contributo regionale per attività sociale passiamo dagli 821 mila euro del 2008 ai 669 mila euro del 2009: meno 150 mila euro. Chissà che cosa ne pensa, di tutti questi tagli, l’assessore Valentina Ghio.


Una riflessione va fatta anche sui trasferimenti dallo Stato al Comune per il mancato introito dell’ICI sulla prima casa, abolita dal governo Berlusconi nel 2008. Nel 2009 l’importo certificato di tale trasferimento di risorse, come emerge dalla relazione dei Revisori dei Conti, è stato pari a 1.642.000. L’assessore Ceselli ne aveva messi a bilancio 1.500.000 mila. Quindi, rispetto alle previsioni dell’assessore, sono arrivati dal governo 142 mila euro in più. Per due anni, in questa sede, ci siamo sentiti dire e ridire dall’assessore, dal sindaco e dalla maggioranza che con l’abolizione dell’ICI sulla prima casa il governo metteva alla fame i Comuni. Noi abbiamo sempre sostenuto che non era così, e oggi ne abbiamo anche la prova provata. Se si sommano infatti a tali trasferimenti le entrate derivanti dall’ICI ancora vigente sulle seconde case, sulle attività commerciali e quant’altro, pari a 5.705.000 euro, otteniamo la cifra di 7.347.000 euro, di gran lunga superiore a quella di 6.719.000 euro che il Comune otteneva prima del 2008. Quindi potremmo perfino dire, numeri alla mano, che il Comune di Sestri Levante, dall’abolizione dell’ICI sulla prima casa, ci ha persino guadagnato. Il contrario del “furto”, il contrario dello “scippo”, il contrario della “rapina”. Semmai bisognerebbe dire un “grazie Roma” che però dubitiamo di sentire questa sera dai banchi della maggioranza.


Venendo poi alla parte relativa alle spese, si può sùbito osservare che assistiamo ad un aumento della spesa corrente e ad una contrazione della spesa in conto capitale. Per quanto riguarda la spesa corrente, il dato del 2009 consolida purtroppo una tendenza che si registra da diversi anni: nel 2007 la spesa corrente è aumentata del 7,4%, nel 2008 del 5,49%, nel 2009 un aumento più lieve dello 0,1% circa. Per quanto riguarda la spesa in conto capitale, passa dai 5.802.000 euro del 2008 ai 5.300.000 euro del 2009, con una diminuzione di 500 mila euro, pari all’8,64%. Sul totale delle spese, quelle correnti incidono per il 67,43%, quelle in conto capitale per il 18,21%. Segnaliamo dunque, per l’ennesima volta, che è necessario agire ulteriormente sul fronte del contenimento della spesa corrente, mettendo in atto politiche virtuose volte all’eliminazione degli sprechi, al risparmio, alla maggiore efficienza.


Da notare, in particolare, l’aumento delle spese correnti per prestazioni di servizi, che passano da 7.397.000 euro a 7.925.000 euro, in percentuale dal 37,7 al 40,3% sul totale delle spese correnti; la sostanziale stabilità delle spese per il personale, che passano dal 36,53% al 36,28%; l’aumento delle spese per l’acquisto di beni di consumo, da 753 mila a 833 mila euro; infine l’aumento delle spese per oneri straordinari della gestione, raddoppiate rispetto al 2008, da 137 mila a 278 mila euro.


Per quanto concerne l’esame delle funzioni di spesa corrente, osserviamo un aumento per quel che riguarda la gestione del territorio e ambiente (in particolare la gestione dei rifiuti) e una contrazione del settore sociale, con 300 mila euro in meno rispetto al 2008. Da segnalare anche lo 0,82% destinato al turismo, lo 0,17% destinato allo sviluppo economico, l’1,53% destinato al settore sportivo e ricreativo. Turismo, sviluppo economico e settore sportivo vengono penalizzati anche negli investimenti. Il settore sportivo registra, in conto capitale, 89 mila euro, pari all’1,70%, in netta diminuzione rispetto al 2008. Lo sviluppo economico e il turismo, invece, si attestano in conto capitale a quota zero virgola zero zero. Quando si dice le priorità strategiche… Segnalo, tra l’altro, che anche per quel che riguarda gli investimenti il settore sociale passa da 1.399.000 euro del 2008 a 876.000 euro del 2009, scendendo in percentuale dal 24,13 al 16,54%.


Per quanto concerne poi il conto economico, facciamo nostre le osservazioni dei Revisori dei Conti, i quali affermano che “l’equilibrio economico è un obiettivo essenziale ai fini della funzionalità dell’Ente. Il mantenimento del pareggio economico della gestione deve essere pertanto considerato un obiettivo da perseguire”.


Infine, una riflessione sull’indebitamento e sulla gestione del debito. L’indebitamento del Comune di Sestri Levante, a fine 2009, è pari a 18.787.000 euro. Ciò significa che ogni nuovo sestrese che nasce si ritrova sulle spalle un debito di più di mille euro. Credo che un’Amministrazione seria e che davvero abbia a cuore il futuro debba mettere in atto robuste politiche di riduzione di questo debito: è un atto dovuto nei confronti delle nuove generazioni. Per questo il nostro gruppo si augura che, come peraltro consigliato dai Revisori dei Conti nella loro Relazione, l’avanzo di amministrazione non vincolato possa essere utilizzato in tale direzione.


In conclusione deve essere ribadito il dato politico che emerge dal Rendiconto di Gestione 2009: il robusto aumento delle tasse e il forte aumento dell’avanzo di amministrazione. Il combinato disposto di questi due elementi ci dice che la Giunta Lavarello, in un periodo di crisi economica che ha colpito in maniera significativa anche il nostro Paese, ha scelto non soltanto di andare a tartassare i cittadini, ma lo ha fatto anche oltre il necessario. Insomma, in un momento di crisi avete spremuto i sestresi e poi vi siete tenuti i soldi lì. Credo che sia una politica che si commenta da sola. Del resto, altre politiche questa Amministrazione non sembra ontologicamente in grado di metterne in campo. Eppure sono quelle che servirebbero alla città: quelle virtuose, liberali e improntate allo sviluppo.

Gianteo Bordero
Capogruppo “Il Popolo della Libertà” - Sestri Levante

venerdì 12 novembre 2010

QUANDO FINI ERA CONTRO I RIBALTONI

da Ragionpolitica.it del 12 novembre 2010

«In Costituzione la norma antiribaltone». «Se il governo perde la maggioranza si va alle urne». Firmato Gianfranco Fini. Peccato soltanto che si tratti di dichiarazioni risalenti all'anno di grazia 2005. Quattordicesima legislatura. Terzo governo Berlusconi. Maggioranza di centrodestra formato Casa delle Libertà: Forza Italia, An, Lega e Udc. Intervistato dal Gazzettino di Venezia, l'allora vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri analizza la situazione politica, che vede all'ordine del giorno le dimissioni di Marco Follini da segretario dell'Udc e le conseguenti voci su un possibile passaggio di quest'ultimo al centrosinistra. Domanda dell'intervistatore, Giorgio Gasco, a Fini: «Lei ha appena detto che c'è in giro qualcuno che ha governato per quattro anni e ora si chiama fuori, all'ultimo giro. Insomma, i voltagabbana. Pensava a Follini?». Risposta: «Pensavo a quelli che, eletti col centrodestra, poi si sono collocati nel centrosinistra, magari attraverso quel grande riciclatore, quella lavanderia della politica, che è Mastella dell'Udeur». A futura memoria. Passando poi all'esame del più importante provvedimento in votazione alle Camere in quella fase, e cioè la riforma costituzionale che sarebbe poi stata bocciata dal referendum dell'anno successivo, affermava l'allora presidente di An: «La revisione (della Costituzione, ndr) conterrà la norma antiribaltone, così che se il governo perde la maggioranza si va alle urne, evitando di replicare le storture di Prodi e D'Alema».


Chissà se oggi l'onorevole Fini condivide ancora queste parole da lui stesso pronunciate. Sono infatti tali e tante le giravolte di idee e di posizioni politiche a cui egli ci ha abituati da un po' di tempo a questa parte (immigrazione, temi etici, Costituzione, ecc...), che è lecito nutrire qualche dubbio anche in merito al tema in oggetto. Chi ha avuto occasione di seguire il dibattito tra il presidente della Camera e Massimo D'Alema organizzato qualche tempo fa ad Asolo dalle fondazioni FareFuturo e Italianieuropei se ne sarà reso conto: il feeling tra i due andava ben oltre la personale stima reciproca, che entrambi non hanno mai nascosto. Si trattava invece di una liaison politica a tutti gli effetti. Per quanto riguarda D'Alema, non c'è da stupirsi: stiamo parlando del maggior teorico - e pratico - del ribaltone che vi sia in circolazione, avendo egli già organizzato quello del post Berlusconi nel 1994, che portò alla nascita del governo Dini, e avendo realizzato quello del 1998 con il quale cacciò da Palazzo Chigi il suo compagno di schieramento Romano Prodi e si insediò personalmente alla guida dell'esecutivo. Quello che oggi lascia perplessi - per usare un eufemismo - non è dunque la tendenza dalemiana a reiterare i tentativi del passato con manovre finalizzate a trasformare gli sconfitti dalle urne in vincitori con giochi di Palazzo, quanto la china intrapresa da Fini in merito alla nascita di governi non legittimati dal voto popolare.


Ce lo ricordiamo tutti il segretario del Msi tuonare contro la Prima Repubblica, contro il consociativismo e contro la partitocrazia. Ce lo ricordiamo tutti il presidente di An strenuo difensore del bipolarismo e del rispetto della volontà popolare contro ogni ritorno al passato. E più vivi sono questi ricordi, più stride con la memoria l'immagine che oggi Fini fornisce di sé con le sue scelte, con quel suo tatticismo esasperato, con quel riportare in auge le peggiori liturgie politiche del tempo che fu, i riti fumosi di un'epoca che gli italiani non rimpiangono. Tant'è vero che, come ha sottolineato di recente il direttore responsabile de Il Giornale, Alessandro Sallusti, il Fini in versione Alleanza Nazionale, alleato di Berlusconi, era riuscito a portare il suo partito al 15% dei consensi, mentre oggi il Fini nella versione antiberlusconiana di Futuro e Libertà non ne raccoglie - sondaggi alla mano - neppure la metà nella migliore delle ipotesi, e ancora meno ne raccoglierebbe se decidesse di lanciarsi in spericolate alleanze con coloro che egli ha sempre combattuto e contrastato.


Insomma, il «nuovo Fini», come già ci è capitato di osservare, potrà pure piacere un sacco all'intellighenzia politicamente corretta, ai maitre-a-penser della sinistra radical chic, ai benpensanti che leggono Repubblica e ai giustizialisti che leggono Il Fatto, agli antiberlusconiani in servizio permanente effettivo. Ma il rischio più che concreto - per lui - è che a non seguirlo siano proprio molti dei suoi estimatori di un tempo, quel popolo della destra che vedeva in Fini una bandiera della coerenza, della fedeltà ai patti e alle alleanze, della chiarezza politica, dei valori tradizionali, e che oggi non si riconosce più in un politico che sembra rinnegare, gettandolo a mare, tutto ciò che egli ha costruito negli ultimi vent'anni.

Gianteo Bordero

lunedì 8 novembre 2010

FINI. E QUESTO SAREBBE IL LEADER DEL FUTURO?

da Ragionpolitica.it dell'8 novembre 2010

E questo sarebbe il nuovo? Questo sarebbe il coraggio di un grande leader? Ma ci faccia il piacere, onorevole Fini. Raschiando via dal suo discorso alla convention di Futuro e Libertà i quintali di chiacchiere senza costrutto e di retorica da vecchia politique politicienne, quello che resta è da un lato la sua richiesta a Berlusconi di aprire una crisi parlamentare al buio, come ai tempi peggiori della Prima Repubblica (a proposito, Fli non doveva inaugurare a Perugia la Terza?) e, dall'altro lato, la sua mancanza di coraggio nel trarre le conseguenze logiche delle sue stesse parole, votando la sfiducia al governo Berlusconi, in cui non si riconosce più, nelle sede a ciò preposta, cioè - come lei dovrebbe ben sapere, anche se domenica ha fatto finta di dimenticarsene - il parlamento. Altro che ruggito del leone! La sua è soltanto una fuga dalla piena assunzione di responsabilità, la dissociazione - tipica anche in questo caso della peggior politica politicante - tra il dire e il fare. Del resto, come diceva Manzoni, il coraggio se uno non ce l'ha non può darselo. Al suo confronto il tanto vituperato Clemente Mastella, che dopo essersi dimesso da ministro andò in Senato per votare la sfiducia al governo Prodi, svetta come un gigante di coerenza e di credibilità.


Esageriamo? Sono i fatti stessi a darci ragione. Anzi, i non fatti, cioè quello che non accade. Se secondo lei il Berlusconi IV è al capolinea e non è più in grado di mettere in atto scelte utili per il Paese, c'è una sola strada maestra da percorrere. Innanzitutto, prima di invocare le dimissioni di Berlusconi, si dimetta lei da presidente di Montecitorio, visto che ormai è chiara a tutti l'assoluta insostenibilità della sua posizione di terza carica dello Stato che invece di rappresentare in modo imparziale tutta la Camera, come stabilisce lo stesso regolamento oltre che il comune buon senso, si fa attore di parte, promuovendo scissioni, dando vita a un nuovo partito, gettando fango su quello dal quale proviene, lavorando attivamente e in prima fila per rivoltare come un calzino il quadro politico uscito da libere elezioni. Poi, dopo essersi dimesso, da capo parlamentare della sua nuova - si fa per dire - creatura, sfili anche lei sotto il banco della presidenza della Camera e voti di fronte ai rappresentanti del popolo la sfiducia al governo. Questo sì che sarebbe un atto di coraggio, da vero leader quale lei aspira ad essere.


Ma lei non farà nessuna delle due cose. Ritirerà la delegazione di Fli dall'esecutivo e poi, come ha annunciato a Perugia, si terrà le mani libere, votando di volta in volta, senza vincolo di maggioranza, i provvedimenti sottoposti all'attenzione delle Camere. Così, oltre a creare il caos parlamentare e la paralisi dell'azione di governo, facendo pagare al Paese il prezzo salato della sua personale ambizione politica, riporterà indietro le lancette della nostra storia repubblicana, riproponendo la deleteria prassi delle maggioranze variabili slegate da qualsiasi rapporto organico con l'esecutivo. Lei, che per decenni è stato il fautore di una svolta presidenziale per l'Italia in nome della governabilità e dell'ammodernamento delle nostre istituzioni, si comporta ora come un qualsiasi segretario del pentapartito che fu. Tutto questo non in nome del ritorno alla politica da lei invocato dal palco della convention di Futuro e Libertà, ma per un mero calcolo tattico.


Perché è chiaro che lei, onorevole Fini, non sta facendo politica, alta politica - checché ne dicano i suoi pasdaran che sembrano affetti da quello stesso culto cieco della personalità rimproverato agli esponenti e ai militanti del Pdl - bensì un logorante, cinico e sterile tatticismo fine a se stesso. Come altro spiegare, ad esempio, il fatto che solo un mese fa Fli aveva votato, alla Camera e al Senato, la fiducia all'esecutivo sui cinque punti programmatici illustrati dal presidente del Consiglio, mentre oggi scopriamo che questi punti sono diventati «punticini», il «compitino» assegnato a ogni parlamentare, e che serve una «nuova agenda» di governo, anzi serve un nuovo governo con una nuova maggioranza?


Quando lei ha camminato in proprio in chiave antiberlusconiana, in questi ultimi sedici anni, non ha avuto grande fortuna. L'episodio dell'Elefantino con Mario Segni, naufragato miseramente causa disarmante mancanza di voti, è li a dimostrarlo. Non sappiamo come finirà la sua nuova avventura. Questa volta lei gode dell'ampio consenso dei media e della sinistra, di Scalfari e di D'Alema. Dubitiamo fortemente che le basterà per realizzare i suoi sogni di gloria. Non si illuda: non saranno i voti della gauche a benedire quella «nuova destra, moderna ed europea» che Fli dice di voler costruire. Quanto ai voti del centrodestra, nella stragrande maggioranza dei casi continueranno ad andare, come peraltro documentato dai sondaggi, verso colui che il centrodestra ha creato e fatto crescere in questi anni. Chiaramente non si tratta di lei, ma di colui dal quale sono dipese, dal '94 ad oggi, anche le sue fortune politiche.

Gianteo Bordero

sabato 6 novembre 2010

ELOGIO DI GUIDO BERTOLASO

da Ragionpolitica.it del 6 novembre 2010

Guido Bertolaso va in pensione. L'11 novembre lascerà la direzione della Protezione civile e l'incarico di sottosegretario del governo Berlusconi. E' una «brutta notizia», come ha affermato il presidente del Consiglio durante la conferenza stampa tenuta venerdì al termine del Consiglio dei ministri, auspicando allo stesso tempo che la collaborazione con lui possa continuare in altre forme.


In questi anni Bertolaso è stato soprannominato «l'uomo delle emergenze», chiamato a gestire le situazioni più difficili e complicate conseguenti alle calamità naturali (dalle alluvioni ai terremoti alle frane agli incendi), e a intervenire in circostanze di degrado non più sostenibili (ad esempio la questione dei rifiuti in Campania). Ma la definizione che più si attaglia al capo della Protezione civile è quella che lui stesso ha dato di sé: un «servitore dello Stato». Perché Guido Bertolaso questo ha rappresentato da circa quindici anni a questa parte: il simbolo, il volto, la presenza tangibile dello Stato nei luoghi colpiti e martoriati dalla furia della terra e/o dall'incuria degli uomini. Egli ha portato lo Stato dove lo Stato non c'era o risultava non pervenuto.


Chi l'ha criticato e lo critica per il dilatarsi dei poteri che nel corso degli anni si sono stratificati attorno alla Protezione civile da lui guidata, non tiene conto di questo dato sistemico con cui Bertolaso, sin dal suo primo incarico ricevuto durante il governo Prodi nel 1996, ha dovuto fare i conti: la drammatica debolezza dello Stato in molte parti della Penisola. Una debolezza, quando non un'assenza, dovuta al fatto che per molti decenni, e in maniera più accentuata a cominciare dagli anni Sessanta del secolo scorso, lo Stato - si perdoni la ripetizione - è stato assorbito quasi per intero dai partiti (la «Repubblica dei partiti», come la chiamava Pietro Scoppola), con conseguente indebolimento della dimensione istituzionale degli organismi preposti al governo del Paese. Partito indica infatti una parte, mentre l'istituzione rappresenta tutti, rappresenta la nazione nel suo insieme. E un conto è lavorare per una parte, un conto è lavorare nel e per l'interesse generale.


Guido Bertolaso non è stato e non è uomo di parte, ma in tutto e per tutto uomo delle istituzioni, che è un altro modo per dire «servitore dello Stato». E proprio per questo Silvio Berlusconi lo ha chiamato a ricoprire l'incarico di sottosegretario nel suo quarto governo: non soltanto perché il capo della Protezione civile è, come il presidente del Consiglio, «uomo del fare», ma anche e soprattutto perché egli ben rappresenta, incarnandolo in sé, il programma con il quale la coalizione di centrodestra si è presentata agli elettori nel 2008, riassunto in quel «Rialzati, Italia» che significava e significa la volontà di lavorare per dare forma ad uno Stato degno di tal nome, più efficiente, più vicino al cittadino, capace di far sentire la sua presenza laddove le circostanze lo richiedano. Lo stesso Berlusconi, del resto, ha più volte affermato, anche di recente, di non intendere la sua missione politica come un impegno di parte e quindi di partito, ma come dedizione all'insieme, a tutto il popolo italiano, allo Stato in quanto casa comune dei cittadini.


Lo spirito con cui Bertolaso ha operato in questi anni, e in ragione del quale si è creata una particolare sintonia con il premier, è dunque una ricchezza per il nostro Paese, è ciò che serve all'Italia per continuare nel cammino verso la costruzione di uno Stato nel quale tutti possano riconoscersi e di cui tutti possano andare orgogliosi. Chi conosce i volontari della Protezione civile che negli ultimi lustri, in ogni parte dello Stivale e nelle condizioni più difficili, hanno lavorato con Bertolaso, sa di che cosa stiamo parlando. Il resto - le inchieste, il fango mediatico, i giudizi affrettati, i presunti scandali - lo lasciamo ai professionisti del giustizialismo e dell'ideologia anti-italiana che purtroppo alberga in tanta parte degli opinion makers nostrani. Anche perché al clamore iniziale delle recenti inchieste non ha fatto finora seguito alcuna sentenza, e perché già in passato abbiamo assistito alla condanna preventiva e alla delegittimazione pubblica di fedeli servitori dello Stato rivelatisi poi, alla prova dei fatti, totalmente estranei alle accuse mosse nei loro confronti.


Gianteo Bordero

mercoledì 3 novembre 2010

ANTIBERLUSCONISMO, SINISTRA OSSESSIONE

da Ragionpolitica.it del 3 novembre 2010

Su RaiNews24 va in onda un'intervista ad uno psichiatra che tenta di illustrare ai telespettatori la presunta malattia del presidente del Consiglio, con un compiaciuto Corradino Mineo, direttore della testata, a fargli da suggeritore e da spalla. E' l'ultimo dei tanti segnali, questo, che mostra come davvero il nostro Paese stia toccando uno dei punti più bassi del dibattito pubblico. Sommato agli articoli e alle analisi - chiamiamole così - pubblicate in questi giorni dalla cosiddetta «grande stampa» nazionale e alle dichiarazioni dei leader dell'opposizione, esso certifica che la vera psicosi non è quella che secondo i benpensanti di ogni ordine e grado attanaglia il capo del governo, bensì quella che ormai da lunga pezza ha preso dimora nelle menti dell'intellighenzia antiberlusconiana. E' infatti dal 1994, cioè dalla fondazione di Forza Italia e dalla vittoria elettorale sulla «gioiosa macchina da guerra» capitanata da Achille Occhetto, che si è diffusa nel nostro Paese, soprattutto tra i rappresentanti della cultura radical-chic e politicamente corretta, dominante nelle «alte sfere» della società e tra i cosiddetti «poteri forti», un'ossessione monomaniacale nei confronti dell'uomo di Arcore.


Per tutti coloro che sedici anni fa, avendo cavalcato l'onda giustizialista e ipocritamente moralista di Mani Pulite, si ritenevano titolati ad assumere sulle proprie spalle anche il potere politico e la guida del governo, Berlusconi ha rappresentato e rappresenta l'incubo che diventa realtà quando meno te lo aspetti, l'odioso imprevisto che ti taglia il fiato a un metro dal traguardo, la sciagura che fa affondare la nave che sta per approdare in porto. La iattura delle iatture. Intollerabile come tutte le disavventure che ti colpiscono sul più bello, quando sei lì che pregusti quella vittoria finale che niente e nessuno ti potranno mai togliere dalle mani. E invece... E invece succede, e la vittoria si trasforma in sconfitta, la realtà evapora tra le nebbie dei sogni, la meta sicura diventa di colpo un miraggio.


Quando si parla dei motivi per i quali la sinistra italiana e i suoi sostenitori nel mondo della cultura, dell'informazione, della scuola e della magistratura non sono riusciti a comprendere, salvo qualche rarissima eccezione, gli elementi politici del successo elettorale di Berlusconi, occorre tenere presente questa dimensione metapolitica e - in questo caso sì - psicologica che pesa come un macigno nel determinare ancora oggi l'atteggiamento di tanti oppositori nei confronti del presidente del Consiglio. Se la sinistra con i suoi addentellati, infatti, considerasse il Cavaliere un avversario politico, lo combatterebbe con mezzi politici, lo contrasterebbe sul piano dei programmi, delle proposte, dell'azione di governo, delle riforme. Il fatto che invece lo assalti un giorno sì e l'altro pure sul piano personale, andando a rovistare quasi voyeuristicamente nella sua vita privata, mettendo in scena processi mediatici al suo «stile di vita» e via degradando senza soluzione di continuità, conferma che il campo in cui essa si muove è un altro, che la rappresentazione di Berlusconi che essa propone agli italiani nasce da qualcosa di diverso dall'avversione politica e persino dall'odio politico.


E' appunto un'ossessione, è quello che la Treccani definisce come «fenomeno patologico che si manifesta con la presenza, persistente o periodica, di una rappresentazione mentale, un impulso, un affetto, che la volontà non riesce a eliminare, e che risulta accompagnata da un sentimento sgradevole di ansia, paragonabile a quello di una minaccia incombente». Come spiegare altrimenti le quotidiane montagne di carta dedicate prima al caso Noemi, poi alla vicenda D'Addario e oggi alla storia della giovane «Ruby Rubacuori»? Come trovare altrimenti giustificazione ai numeri monotematici de La Repubblica, alle puntate di Annozero in versione gossip, alle dichiarazioni moraleggianti dell'onorevole Di Pietro? Questa è infine l'opposizione oggi: non un'alternativa politica, ma una congerie di gruppi, centri di potere, circoli intellettuali tenuti insieme non da una «certa idea del Paese», non dalla comune volontà di realizzare un programma di riforme, bensì, ancora e sempre, da un antiberlusconismo psicologico e patologico che la fa rimanere lontana anni luce dalla realtà profonda dell'Italia e degli italiani.

Gianteo Bordero

lunedì 1 novembre 2010

SARÀ PER TE