sabato 28 febbraio 2009

LA SCUOLA, IL BULLISMO E IL SESSANTOTTO

da Ragionpolitica.it del 28 febbraio 2009

E' comparso in questi giorni su YouTube un video a suo modo shoccante, girato prima di Natale in una scuola di Rho, l'istituto tecnico Cannizzaro, da alcuni studenti dediti a riprendere le loro «imprese» vandaliche all'interno dell'aula durante il cambio d'ora: sedie gettate a terra, bottiglie lanciate dalla finestra, pareti deturpate. Fin qui niente di nuovo rispetto a molti altri filmati a cui, purtroppo, abbiamo quasi fatto il callo, e che dimostrano a quale punto di degrado si sia permesso che la scuola arrivasse, a quale infimo livello di assenza di serietà e autorevolezza, a quale stato di incuria educativa - fermo restando che, per quanto riguarda quest'ultimo punto, responsabilità importanti ricadono anche sulle famiglie.

La poco edificante «novità» del video inserito in rete dagli studenti lombardi è che i protagonisti, per dare un inquietante «tocco di originalità» al loro bullismo, non accontentandosi di emulare le gesta di altri loro colleghi, hanno preso a incendiare il crocifisso appeso alla parete dell'aula. Nel breve filmato si possono osservare i devastatori che, vedendo che il legno stenta ad infiammarsi, incitano il compagno con l'accendino, e non appena la croce iniziare a bruciare esplodono in un tripudio di «gioia»... Poi il video si interrompe.

Come detto, questo filmato, di per sé, non aggiunge nulla di nuovo a quanto già sapevamo circa il fenomeno del bullismo nelle scuole, contro il quale si è impegnata sin dall'inizio del suo mandato, e non senza conseguire risultati, il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini, determinata a dare un sacrosanto e quanto mai necessario giro di vite finalizzato a ripristinare nelle scuole italiane la disciplina, il decoro, la serietà e le nozioni di base dell'educazione civica, anche grazie alla rinnovata importanza restituita al voto in condotta, che è tornato ad essere discrimine per essere promossi o bocciati.

Quello che colpisce, nel video girato nell'istituto rhodense, è la rappresentazione plastica delle ragioni che stanno alla base di quel terribile vuoto che sembra tragicamente cingere d'assedio le vite quotidiane di tanti giovani italiani. Non si tratta soltanto di quella che viene comunemente chiamata «assenza di valori», che è spesso un modo ipocrita con il quale il radicalismo chic prende le distanze da quella che ritiene essere la «feccia» della società. Più in profondità, occorre riconoscere che se siamo arrivati a questo punto è anche perché - e, forse, proprio perché - la cultura dominante negli ultimi decenni, diciamo dal '68 in poi, ha sovvertito non tanto i «valori» nella loro astrattezza, ma la tradizione sulla quale il nostro popolo si era da secoli fondato per organizzare la sua convivenza.

E la scuola è stata drammaticamente al centro di questa destrutturazione (spirituale, culturale e pedagogica) della tradizione italiana, teorizzata e alacremente perseguita dai nuovi guru dell'intellighenzia sessantottina. La parola d'ordine è divenuta il rifiuto dell'autorità, accompagnata dal rigetto di tutto ciò che sapeva di legami con un passato che ci si voleva lasciare alle spalle nel nome di un futuro radioso all'insegna della «vera libertà». Così anche l'educazione non ha più voluto significare il radicamento in una storia, in un'esperienza di popolo, in una cultura che porta con sé il respiro dei secoli, ma è divenuta il momento della «liberazione»: dai tabù, dai poteri costituiti, dai dogmi, dai vincoli, dalla morale ereditata dai nonni...

Questo è ciò che nella scuola (e più in generale nello spazio pubblico) si è respirato per trent'anni, ogni giorno, ed era inevitabile che i risultati fossero quelli che oggi tutti abbiamo sotto gli occhi. Ma il caso di Rho ci ricorda un dato in più: se vi è stata la perdita di autorevolezza, di credibilità, di serietà e, in fondo, di senso della scuola - una perdita di cui le varie e sfaccettate forme di bullismo sono conseguenza - è perché, in fondo, si è deciso di gettare nel dimenticatoio, prima ancora che i valori, l'educazione e il decoro, ciò che per secoli quei valori, quell'educazione e quel decoro ha fondato e reso fertili: il crocifisso che oggi viene dato alle fiamme dagli eredi della cultura anti-tradizionale, sfociata in un nichilismo disarmante.

Gianteo Bordero

giovedì 26 febbraio 2009

NESSUNO SCANDALO SE IL GOVERNO LEGIFERA

da Ragionpolitica.it del 26 febbraio 2009

Ha suscitato allarme e scalpore, in buona parte dei media italiani, una notizia segnalata per primo dal Sole 24 Ore: 44 delle 45 leggi approvate nel corso dell'attuale legislatura sono di provenienza governativa, e, tra queste, 25 sono conversioni di decreti legge. Conclusione scontata e prevedibile: il parlamento sarebbe di fatto esautorato dei suoi poteri e, come ha scritto Beppe Del Colle su Famiglia Cristiana, «ridotto solo a notaio» delle decisioni governative. Ne segue, secondo questa lettura, che il sistema istituzionale italiano starebbe scivolando, giorno dopo giorno, verso una forma di «dittatura dell'esecutivo» a scapito della democrazia rappresentata dal parlamento.

In assenza di altri solidi argomenti da usare per contrastare e criticare l'alleanza di governo e il presidente del Consiglio, questo è ormai diventato un mantra ripetuto a ogni piè sospinto da editorialisti, commentatori e, inevitabilmente, rappresentanti dell'opposizione. Basti pensare al «giuramento sulla Costituzione» compiuto da Dario Franceschini il giorno successivo al suo insediamento alla guida del Pd: un atto simbolico per testimoniare fedeltà ai «sacri principi» che sarebbero messi in discussione dal centrodestra e dal suo leader. E' la solita tesi del Berlusconi eversore dei fondamenti costituzionali della Repubblica, del tiranno che calpesta le regole di base della vita istituzionale, del novello Mussolini che tratta il parlamento come «un'aula sorda e grigia». Così si pensa di riuscire a mobilitare il popolo a una nuova resistenza, a una nuova lotta contro la dittatura, a una nuova stagione di risveglio democratico et similia...

Per fortuna che qualcuno, ogni tanto, si prende la briga di mettere i punti sulle «i» e di smontare con la solida forza della ragione, corroborata dagli esempi della storia, i castelli di sabbia e di rabbia che i pasdaran dell'antiberlusconismo duro e puro costruiscono con tanta dedizione. Merita di essere ripreso, in tal senso, un articolo di Giorgio Oldoini pubblicato su Il Secolo XIX di martedì 24 febbraio. L'autore mette nero su bianco una lucida analisi dei rapporti tra parlamento e governo in un sistema di parlamentarismo moderno, ricorda che «l'esecutivo è l'anima della legislazione e, contrariamente alle vecchie teorie libresche, sotto il parlamentarismo moderno è il governo che "politicamente" legifera». L'esecutivo cioè, in quanto espressione della maggioranza parlamentare, ne esprime oggettivamente gli orientamenti politici trasformandoli in leggi, senza per questo privare le Camere della loro libertà di confronto, discussione, emendamento. Neanche nel caso della decretazione d'urgenza, visto che è poi proprio il parlamento che può, entro sessanta giorni, convertire o meno il decreto in legge.

Scrive ancora Oldoini: nel sistema parlamentare moderno «non v'è alcuna differenza, dal punto di vista politico, fra una legge proposta dal ministero e omologata in seguito dal parlamento e una norma legislativa preparata direttamente dal ministero. Entrambe le norme sono basate sul consenso della maggioranza, vale a dire sul suffragio universale». Qui il concetto fondamentale è proprio quello del «consenso della maggioranza», che garantisce in ogni caso la permanenza del principio democratico nel sistema parlamentare, anche quando esso si esprime, come sta accadendo oggi, con iniziative legislative provenienti dal governo o con decreti legge. E' l'idea della «maggioranza che governa», espressa qualche tempo fa da Gianni Baget Bozzo su queste pagine.

Per lungo tempo, in Italia, siamo stati abituati a pensare, anche a causa del timore che l'esperienza fascista potesse nuovamente fare capolino, che scopo del parlamento fosse quello di porre dei freni e dei limiti all'attività del governo, che compito principale delle Camere fosse mettere i bastoni tra le ruote all'esecutivo e, quando necessario, farlo capitolare con il voto di sfiducia. Invece di ritenere il governo espressione sostanziale della maggioranza parlamentare, e quindi dello stesso principio democratico che soprassiede alla composizione delle Camere, si è detto e scritto e trasformato in luogo comune il mantra per cui il parlamento è l'unico custode della democrazia, mentre il governo ne rappresenta una forma spuria. Il frutto di quest'idea lo abbiamo avuto sotto gli occhi per almeno due decenni abbondanti, quando essa è diventata un alibi per trasformare il parlamentarismo in assemblearismo, per mettere nel cassetto dei ricordi il concetto di maggioranza parlamentare a tutto vantaggio dei giochi delle segreterie di partito e delle loro correnti interne, per usare il governo non come strumento al servizio della democrazia ma come camera di compensazione delle beghe partitocratiche. E' a ciò che vogliono tornare, oggi, tutti quelli che gridano al regime e al fascismo perché finalmente esiste in Italia una vera «maggioranza che governa», servendosi degli strumenti che la Costituzione mette a disposizione, tra cui il decreto legge? Sono i governi balneari il loro modello?

Se veramente si vuole aprire un confronto serio e sereno su come migliorare il funzionamento delle nostre istituzioni (come dice a parole di voler fare la minoritaria sinistra riformista, ma non il reggente del Pd che giura sulla Costituzione sacra, inviolabile e immodificabile), occorre prima di tutto che ci si liberi dal pregiudizio sul ruolo del governo in un moderno sistema parlamentarista, comprendendo che quando si tessono le lodi dell'assemblearismo in stile tarda prima Repubblica non si fa un favore alla democrazia, ma se ne limitano le possibilità e se ne incrinano i presupposti, tra cui quello di dare espressione oggettiva alla volontà popolare, la quale si esprime oggi nel voto a partiti che sono anche programmi di governo. Come scrive ancora Oldoini, «l'esecutivo diventa sempre più il centro dell'attività della democrazia parlamentare. Tanto più in questo momento, in cui, per affrontare la crisi, sono necessari provvedimenti rapidi ed energici».


Gianteo Bordero

domenica 22 febbraio 2009

sabato 21 febbraio 2009

IL PUZZLE IMPOSSIBILE DEL PD

da Ragionpolitica.it del 21 febbraio 2009

Pd «balcanizzato»? Magari fosse solo così. Perché a leggere le cronache di questi giorni, che tentano di descrivere i posizionamenti e riposizionamenti delle varie correnti e sottocorrenti in vista del congresso che eleggerà il nuovo segretario, viene il mal di testa. Veltroniani, dalemiani, rutelliani, bindiani, prodiani, lettiani, popolari, radicali... (Peppino Caldarola, su Il Giornale, è arrivato a contarne 12 di queste correnti), tutti in cerca di visibilità, di alleati con i quali fare cordata, di numeri per pesare di più nei futuri assetti del partito. E il toto-segretario che impazza: Franceschini, Bersani, Letta, Bindi, Parisi, Renzi, persino Ignazio Marino. Ognuno avanza il suo nome, quando non la sua candidatura. Ormai il recinto è aperto e i buoi del proverbio sono in libera uscita. Del resto, caduto Walter è venuta meno anche l'orbita gravitazionale che era riuscita a tenere insieme, anche se per poco più di un anno, personaggi e idee tanto diversi tra loro. Ora la galassia Pd è rappresentata dai giornali come un puzzle di difficile ricomposizione, con mille pezzi che è difficile far collimare: puoi metterne insieme due o tre, ma magari al quarto ti accorgi che è tutto da rifare e che il disegno finale è ancora di là da venire.

Del resto, anche la fisica ha le sue leggi, e non è possibile costringere quattro elefanti in una Cinquecento, a meno che non si dia credito alla barzelletta che consiglia di sistemarne due davanti e due dietro. E in fondo è questo quello che è stato fatto con la fondazione del Pd: inserire in un unico contenitore delle tradizioni politiche, dei valori, dei programmi, delle storie, delle idee difficilmente conciliabili. E' l'«amalgama mal riuscito» di cui ha parlato qualche tempo fa Massimo D'Alema. Ma non poteva essere altrimenti: se tu prendi Paola Binetti e provi a farla andare d'accordo con Ignazio Marino non avrai arricchito il tuo partito, ma ne avrai azzerato il dinamismo; se a una forza ne contrapponi un'altra uguale e contraria il risultato non sarà il movimento, ma lo stallo. Lo stesso nel quale si sono arrovellati il Partito Democratico e il suo segretario dimissionario da un anno a questa parte. Se Veltroni dialogava con Berlusconi, ecco arrivare il nostalgico di turno che lo richiamava all'ordine di scuderia dell'antiberlusconismo hard; se Walter picchiava duro sul presidente del Consiglio, ecco arrivare il riformista che gli intimava di adottare una strategia più aperta al confronto. Alla fine, l'esito di questa politica è stato uno soltanto: il nulla. Azioni e iniziative che si azzeravano a vicenda. Il ma-anche del leader dimissionario, tradotto in cifra, è uguale a zero.

E' all'interno di questo trionfo del nullismo politico che bisogna leggere la folle corsa alla leadership che si scatenerà, che si è già scatenata. Tutti sanno che il Pd come progetto di ampio respiro e di medio-lungo termine non decollerà mai, che è destinato a rimanere a terra in quanto a forza politica e a gradimento popolare. Ma è proprio per questa debolezza dell'insieme che le parti possono pensare unicamente alla propria sopravvivenza in quanto tali, cioè in quanto frammenti di un disegno impossibile a realizzarsi. Salvo sorprese, ciò a cui assisteremo nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà il tentativo disperato di ciascun notabile, di ciascun capo corrente, di segnare il territorio di sua pertinenza, per poi, in forza della quantità di terreno e di voti controllati, federarsi con altri «feudatari» per formare una maggioranza in grado di tenere in mano l'involucro del partito.

Una confederazione di signorotti finalizzata a salvare il salvabile mentre il vento berlusconiano spira forte su tutta la Penisola. Ecco cosa resta e che cosa resterà del Pd se esso non si dissolverà anzitempo sotto la spinta delle forze centrifughe che si stanno manifestando dopo l'addio di Veltroni. E' veramente poco rispetto alle ambizioni, ai sogni, alla retorica, alla passione e all'entusiasmo dell'inizio. Ma, come si suol dire, oggi il convento non passa altro, se non questa lotta per la sopravvivenza di un ceto politico usurato dalla sua stessa storia e cosciente di essere destinato per molto tempo ancora a masticare amaro inseguendo un centrodestra che macina politica a tutto gas.

Gianteo Bordero

giovedì 19 febbraio 2009

VELTRONI IN FUGA

da Ragionpolitica.it del 19 febbraio 2009

Se Walter Veltroni era il Pd, come si sono affrettati a sottolineare molti esponenti democrat dopo le dimissioni del segretario, che cosa è oggi il Pd senza Veltroni? Potrà il partito sopravvivere all'uscita di scena di colui che è stato, fino a ieri, il punto di equilibrio che teneva insieme anime tanto diverse tra loro, il garante del «patto di sindacato» tra post-comunisti e post-democristiani di sinistra? Sono queste le domande a cui, in queste ore, cercano di dare risposta i dirigenti del Partito Democratico, dopo che lo stesso Veltroni, nella conferenza stampa d'addio tenuta ieri mattina a Roma, in Piazza di Pietra, ha quasi supplicato i presenti di non fare passi indietro, di non lasciare prevalere la nostalgia del passato mandando gambe all'aria la «sua» creatura.

Perché di questo si tratta: il Pd ha assunto, dal momento della sua nascita ad oggi, le fattezze del suo leader. Invocato come unico salvatore della patria nei giorni gloriosi del discorso del Lingotto, incoronato dal voto delle primarie dell'ottobre 2007, osannato come simbolo della sinistra riformista, riconosciuto condottiero dotato di pieni poteri per dare forma nuova alle «magnifiche sorti e progressive», Veltroni ha proiettato sul Partito Democratico tutto se stesso: la nuova stagione, don Milani, Spello, la fine dell'antiberlusconismo viscerale, il dialogo tra gli schieramenti, l'abbandono del giustizialismo, l'ecumenismo irenico del «ma anche», il mito di Obama, l'America tra noi, la speranza, l'Italia da amare, il pop, le candidature delle Madia, dei Colaninno e dei Calearo, eccetera... Che poi questa proiezione si sia più o meno trasformata in realtà è un altro discorso: ciò che conta è che, dal 27 giugno 2007 al 16 febbraio 2009, dire Pd equivaleva dire Veltroni.

Stante questa sovrapposizione (almeno mediatica) tra il partito e il leader, era dunque inevitabile che proprio su quest'ultimo ricadesse tutto il peso delle sconfitte che, mese dopo mese, la nuova creatura di centrosinistra inanellava: le elezioni politiche dell'aprile 2008, le contestuali elezioni amministrative con la bruciante perdita della Roma «veltrona», le regionali abruzzesi del 1° dicembre con il partito sotto la soglia di sopravvivenza del 20%, e infine le regionali sarde con il tracollo di Soru e del Pd (-12% rispetto alle politiche). Nel mezzo: le inchieste della magistratura che hanno fatto calare l'ombra del malaffare su giunte locali da sempre ritenute fiore all'occhiello della buona amministrazione di centrosinistra; le proteste vibranti dei sindaci democrat del nord, pronti a costituirsi in sezione autonoma del partito, disponibili financo a «secedere» dalla casa madre nel caso le loro doglianze non fossero state ascoltate; e poi, ancora, l'imbarazzante e sempre più ingombrante alleanza con Antonio Di Pietro, pronto a divorare i consensi in libera uscita del Pd con il suo antiberlusconismo duro e puro; la fragilità - per usare un eufemismo - del governo ombra e dell'opposizione parlamentare, e chi più ne ha ne metta.

Si dirà: avere tra le mani il bastone del comando comporta onori ed oneri. Ed è vero. Ma l'impressione è che spesso la sovraesposizione di Veltroni come simbolo quasi esclusivo del Partito Democratico sia servita ai suoi oppositori e nemici interni come alibi per mascherare da un lato i piccoli (o grandi) giochetti di potere che avvenivano alle spalle del segretario, dall'altro lato per nascondere una disarmante mancanza di linee politicamente credibili e seriamente alternative a quella proposta dal leader (a meno che si consideri una strategia vincente il ritorno a una mini Unione con i rimasugli della sinistra radicale già sconfitti dalla storia). Identificare Veltroni con il Pd, in sostanza, è servito anche agli avversari interni di Walter per tenersi le mani libere, preparandosi ad ogni evenienza, nessuna esclusa. La loro strategia era chiara: cuocere a fuoco lento il segretario, logorarlo giorno dopo giorno, sconfitta dopo sconfitta, fino alle europee, per poi defenestrarlo e prendere in mano le sorti del partito o di ciò che restava di esso.

Ora la mossa di Veltroni spiazza tutti e taglia, come si suol dire, la testa al toro. Lascia il Partito Democratico solo con i suoi giganteschi problemi, che da oggi non sono più soltanto il proliferare delle correnti, la litigiosità interna, la mancanza di un accordo su temi importanti del dibattito politico e via dicendo, ma anche e soprattutto la messa in discussione della sua stessa esistenza, il dubbio su che cosa il partito sia e rappresenti, l'impressione che, tolto di mezzo il segretario, come ha scritto Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, il Pd si ritrovi «sul baratro del nulla».

Gianteo Bordero

martedì 17 febbraio 2009

CROLLA IL MITO DI SORU

da Ragionpolitica.it del 17 febbraio 2009

Renato Soru aveva più volte elogiato, nel corso della campagna elettorale in vista delle regionali sarde, il «modello prodiano». Aveva benedetto le larghe alleanze a sinistra, raccogliendo attorno a sé il grosso dei partiti dell'ex Unione: il Partito Democratico, l'Italia dei Valori, Rifondazione Comunista, i Comunisti Italiani. E aveva fatto intendere che, in caso di vittoria, la formula sarda avrebbe potuto essere riproposta anche a livello romano, in contrapposizione alla strategia veltroniana della «vocazione maggioritaria». Così il fondatore di Tiscali ha giocato la sua partita contemporaneamente su due terreni: quello locale e quello nazionale. Ha di fatto rappresentato il suo impegno sardista come un trampolino di lancio per un nuovo tipo di leadership del centrosinistra italiano. Ma l'incoronazione non c'è stata e il sogno della campagna elettorale si è trasformato nell'incubo di un risveglio che più duro di così era difficile immaginare.

La sconfitta di Soru è una sconfitta su tutta la linea, non soltanto perché sono colati a picco i partiti di centrosinistra (in special modo il Pd, che è passato dal 36,2% delle politiche al 24,4%), ma soprattutto perché egli stesso ha subìto una cocente batosta nelle preferenze riguardanti il candidato presidente. Il meccanismo del voto disgiunto, infatti, avrebbe potuto (come del resto era già accaduto in Sardegna) consegnare il governo dell'isola a un presidente e ad una maggioranza consiliare non collegati tra loro. E probabilmente Soru molto puntava su questa possibilità: essa, se da un lato non gli avrebbe consentito di amministrare la sua Regione a causa della coabitazione con una maggioranza di centrodestra, dall'altro gli avrebbe però permesso di giocare agevolmente la sua figura di uomo carismatico, più forte dei partiti che hanno accettato di sostenerlo, ad un livello ben più importante di quello sardo.

Ma neanche questa consolazione è toccata in sorte al presidente uscente: sebbene egli abbia ottenuto 4 punti percentuali in più rispetto alla coalizione di centrosinistra (42,9% come candidato governatore a fronte del 38,6% di voti alle liste dei partiti alleati), ha visto il suo avversario Ugo Cappellacci attestarsi sul 51,9% di preferenze come presidente, mentre il centrodestra ha raggiunto quota 56,7%. Rispetto alle elezioni regionali del 2004 Soru ha perduto il 7% dei consensi (allora si impose con il 50,2% dei voti contro il candidato della Cdl Mauro Pili, fermatosi al 40,5%). Così egli non ha neanche più tra le mani l'unica arma che avrebbe potuto usare per salvare il salvabile, assolvendo se stesso e scaricando sulla crisi dei partiti di centrosinistra tutte le responsabilità della sconfitta. Invece i numeri usciti dalle urne sarde parlano chiaro: c'è un giudizio negativo che riguarda sia Soru come governatore sia i partiti della coalizione in quanto tali. E di certo il presidente uscente non potrà tirarsi su d'animo per il fatto che la debacle più consistente è stata quella del Pd, il partito col quale era entrato in rotta di collisione negli ultimi tempi e che era stato all'origine della sua decisione di dimettersi e tornare al voto anticipatamente rispetto alla scadenza naturale della legislatura regionale.

Tirando le somme, alla fine dal voto sardo escono a pezzi sia Soru che il Partito Democratico: il primo vede andare in fumo sia il mito della sua buona amministrazione all'insegna dell'esaltazione della sardità sia le sue ambizioni di leadership nazionale ricalcata sul modello di Romano Prodi; il secondo si ritrova ancora una volta, dopo quanto accaduto in Abruzzo a inizio dicembre, a dover fare i conti con una crisi che sembra non conoscere termine, nella quale ogni strategia (tanto quella della «vocazione maggioritaria» quanto quella dell'allargamento dell'alleanza a ciò che resta della sinistra massimalista) pare destinata al fallimento, segno che il problema non sta nella scelta dei compagni di viaggio e forse neppure nella leadership veltroniana, ma più a fondo, nelle radici stesse del progetto del Partito Democratico in quanto tale. Un progetto che oggi, dopo il voto in Sardegna, può crollare da un momento all'altro.

Gianteo Bordero

sabato 14 febbraio 2009

NASCEVA 80 ANNI FA LO STATO DELLA CITTA' DEL VATICANO

da Ragionpolitica.it del 14 febbraio 2009

L'11 febbraio di ottant'anni fa, nel Palazzo del Laterano, a Roma, aveva luogo la firma di un Trattato e di un Concordato tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Il cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato vaticano, e Benito Mussolini, capo del governo italiano, sottoscrivevano quelli che oggi vengono comunemente chiamati «Patti lateranensi». Il Concordato, che sarebbe stato poi aggiornato e modificato 55 anni dopo (18 febbraio 1984) dal cardinale Agostino Casaroli e da Bettino Craxi con l'Accordo di Villa Madama, regolava i rapporti tra Stato e Chiesa e definiva le rispettive competenze nelle materie miste; il Trattato, invece, istituiva lo Stato della Città del Vaticano, chiudendo - come si legge nel documento - «la "Questione Romana" sorta nel 1870 con l'annessione di Roma al Regno d'Italia sotto la dinastia di Casa Savoia». L'articolo 3 del Trattato stabiliva quanto segue: «L'Italia riconosce alla Santa Sede la piena proprietà e la esclusiva e assoluta potestà e giurisdizione sovrana sul Vaticano, com'è attualmente costituito, con tutte le sue pertinenze e dotazioni, creandosi per tal modo la Città del Vaticano per gli speciali fini e con le modalità di cui al presente Trattato».

Negli stessi minuti in cui Gasparri e Mussolini si apprestavano ad apporre le loro firme in calce ai Patti, il Papa Pio XI, che fermamente aveva voluto quell'accordo, incontrava i parroci di Roma ed i predicatori del periodo quaresimale. Ad essi il pontefice rivolgeva un discorso che, nella sua parte riguardante il Trattato con l'Italia, merita di essere ripreso, perché contiene una chiara enunciazione delle ragioni che stanno alla base dell'esistenza stessa del Vaticano come Stato. Un'esistenza che, oggi come negli anni passati, è fortemente contestata dai sostenitori delle varie e malintese forme di pauperismo ecclesiastico e non, secondo i quali il fatto che la Chiesa cattolica abbia un suo Stato e un suo territorio rappresenta una violazione degli insegnamenti evangelici, un retaggio dei cosiddetti «secoli bui», un imbarazzante strascico della commistione tra potere temporale e potere spirituale. La lungimiranza del grande Papa Pio XI, invece, seppe andare oltre le mere contingenze, garantendo un presidio statuale e territoriale alla Santa Sede. Un presidio che si rivelò decisivo, nel corso dei restanti decenni del secolo XX, per poter consentire alla Chiesa di continuare a svolgere la sua missione spirituale e materiale senza essere assoggettata ai poteri totalitari.

Ebbene, rivolgendosi ai sacerdoti e ai predicatori, Papa Ratti spiegava che la nascita dello Stato della Città del Vaticano era necessaria perché «non si conosce nel mondo, almeno fino ad oggi, altra forma di sovranità vera e propria se non appunto territoriale». Ma questa sovranità non veniva intesa dal pontefice come uno strumento per avanzare pretese di carattere temporale, per riconquistare quello che era andato perduto dopo la breccia di Porta Pia e la nascita dello Stato italiano. Le preoccupazioni di Pio XI erano tutte rivolte ad assicurare alla Chiesa la possibilità di continuare a camminare libera nella storia: senza libertà non vi sarebbe stata neppure autorevolezza, perché una Chiesa totalmente incamerata in uno Stato avrebbe potuto facilmente subire i ricatti e le angherie del potere politico in carica, divenendo con ciò meno credibile anche dal punto di vista spirituale. Le Chiese di Stato, come mostra chiaramente la storia, non sono mai state presidio di vera e genuina libertà religiosa.

In questo senso, c'è un'espressione bellissima usata da Pio XI nella sua allocuzione, tanto più significativa in quanto riprende il Santo che nella vulgata ecclesialmente corretta rappresenta il pauperismo per eccellenza: Francesco D'Assisi. Egli «chiedeva quel tanto di corpo che bastava per tenere unita l'anima». Così il Papa Ratti riteneva opportuno chiedere «quel tanto di territorio materiale che è indispensabile per l'esercizio di un potere spirituale affidato ad uomini in beneficio di uomini». E aggiungeva: «Ci compiacciamo di vedere il materiale terreno ridotto a così minimi termini da potersi e doversi anche esso considerare spiritualizzato dall'immensa, sublime e veramente divina spiritualità che esso è destinato a sorreggere ed a servire». Farebbero bene, tutti coloro che dipingono i Papi pre-conciliari come sovrani retrogradi, assetati di potere temporale, rappresentanti di una Chiesa impresentabile e anti-moderna, a rileggersi queste parole, che fissano in modo indelebile un principio che tutti gli ultimi pontefici hanno ribadito: lo Stato della Città del Vaticano non è il luogo del potere temporale, ma il necessario presidio fisico della libertà della Chiesa. «Un piccolo territorio per una grande missione», come recita il titolo di un convegno organizzato in questi giorni dalla Santa Sede per ricordare gli ottant'anni dalla firma del Trattato.

Gianteo Bordero

martedì 10 febbraio 2009

SENZ'ACQUA E SENZA CAREZZE. LA MORTE DI ELUANA

da Ragionpolitica.it del 10 febbraio 2009

Ogni giorno acqua, luce e carezze. Per 14 degli ultimi 17 anni l'esistenza di Eluana Englaro, anche grazie alla dedizione generosa delle Suore Misericordine (nomen omen) di Lecco, è andata avanti poggiando su questi tre sostegni, ciascuno a suo modo vitale: il nutrimento fisico, il calore della realtà, l'affetto delle persone. Per 14 anni Eluana ha vissuto così: mangiando e bevendo (con l'aiuto del sondino, anche se mai ha perso la capacità di deglutire); uscendo, spinta in carrozzella, per la passeggiata in giardino; ricevendo le attenzioni che una donna nel fiore dei suoi anni meritava di ricevere. Per 14 anni la vita di Eluana è dipesa, nella discrezione accogliente della casa di cura «Beato Luigi Talamoni», da questi quasi impercettibili gesti d'amore, piccoli all'apparenza ma grandi nella loro concreta affermazione della bontà dell'esistenza. Per 14 anni Eluana, in stato vegetativo persistente, è stata amata, accolta, accudita come la più degna delle persone, perché è proprio laddove la vita fisica appare più debole, bisognosa e menomata che emerge potente il suo valore incalcolabile. Per 14 anni è stata celebrata ogni giorno, per Eluana, la festa della vita, perché chi apre gli occhi, respira, mangia, beve, tossisce, dorme, è vivo e come tale va trattato. Per 14 anni la stanza e il letto e il cuscino di Eluana, e tutto ciò che attorno ad essi si è svolto, sono stati la vittoria della vita sulla morte.

Anche quando qualcuno ha pensato che quella non fosse più un'esistenza degna; anche quando qualcuno ha iniziato a dire che la vita di Eluana era finita la sera ormai lontana del 18 gennaio 1992; anche quando qualche avvocato senza scrupoli ha cercato in tutti i modi di infilarsi tra le maglie della legge per arrivare ad ottenere una sentenza di morte; anche quando la donna Eluana è divenuta il «caso Eluana», tanto nelle aule di tribunale quanto nei salotti della tv e nelle pagine dei giornali; anche quando gli avvoltoi dei «nuovi diritti» si sono scagliati su Eluana trasformandola, suo malgrado, nella leva per forzare la porta sbarrata dell'eutanasia; anche quando, per meglio supportare la battaglia per la «dolce morte», su Eluana sono state dette e scritte e ripetute a ogni piè sospinto cose non vere sul suo stato effettivo; anche quando la propaganda potente e strafottente dei dotti, dei sapienti e dei vati del pensiero dominante ha preso campo sul racconto realistico dei fatti; anche quando l'ideologia ha cancellato l'Eluana in carne ed ossa per renderci un'Eluana dipinta ad uso e consumo del nichilismo a la page.

Poi sono venute le sentenze, anzi la sentenza, l'unica che in dieci anni abbia detto sì alla «richiesta» di papà Beppino. L'inizio della fine. La condanna a morte. E poi la ricerca della «struttura», non più una casa dolce, sicura e accogliente, ma un freddo spazio di «attuazione del protocollo». E poi la notte del viaggio che ha portato via Eluana dal suo mondo, cioè dall'acqua, dalla luce e dalle carezze. Da Lecco a Udine. Dalle Misericordine alla «Quiete». Dalla casa della vita alla casa della morte. E poi il professor Amato De Monte, anestesista, che fa il viaggio in ambulanza, rimane sconvolto perché forse capisce che Eluana non è un «sacco di patate», come qualcuno l'aveva descritta, e che soffrirà, eppure davanti alle telecamere, per rassicurare innanzitutto se stesso, dichiara: «E' morta 17 anni fa». E poi il presidente della Repubblica che non firma il decreto sacrosanto e coraggioso del governo per salvare la vita di Eluana. E poi gli ultimi giorni. Niente più acqua né cibo. Niente più sole del giardino. Niente più coccole e tenerezze delle suore. E poi l'ultimo, disperato tentativo del presidente del Consiglio e del ministro Sacconi, la corsa contro il tempo per approvare il disegno di legge.

E poi la notizia che arriva, fredda come una lama. Una riga d'agenzia: Eluana è morta. Se n'è andata prima del previsto, dicono. Al capezzale non c'era papà Beppino, non c'era la mamma Saturna. Non c'erano le Misericordine. Non c'era l'affetto, ma solo l'effetto tragico e crudele del «protocollo» di morte. La sentenza è eseguita. Summus ius, summa iniuria. Più che il diritto di morte, è la morte del diritto.

Così ieri sera, per la prima volta dopo 14 anni, Eluana non si è addormentata tra le carezze piene di bellezza e di verità delle suore. Per tanti di coloro che hanno voluto e cercato e combattuto per arrivare a questo punto, è la fine di tutto (nichilismo chiama nichilismo). Per quelli che hanno tenuto accesa una luce nelle loro case e nelle strade in segno di speranza, piccole fiammelle di un'Italia che ama e rispetta e difende la vita, è l'inizio di un nuovo cammino e di una nuova tenerezza. Come ha detto l'«ateo laico molto imprudente» (così s'è definito lui) Enzo Jannacci al Corriere della Sera qualche giorno fa: «Interrompere una vita è allucinante e bestiale. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza». E' questa carezza che da ieri sera custodisce Eluana. La cinica cattiveria degli uomini ha infierito abbastanza su di lei.

Gianteo Bordero

sabato 7 febbraio 2009

IL PEGGIOR PRESIDENZIALISMO

da Ragionpolitica.it del 7 febbraio 2009

L'Italia è da ieri una Repubblica presidenziale. Non è stata alcuna riforma della Costituzione a sancirlo, e neppure il popolo italiano si è espresso in tal senso con una pubblica consultazione. La trasformazione è avvenuta de facto, materialmente, nel momento in cui Giorgio Napolitano ha dapprima inviato una lettera al governo per scoraggiarlo dal varare il decreto finalizzato a impedire che a Eluana Englaro siano definitivamente sospese la nutrizione e l'idratazione, e poi, una volta che l'esecutivo ha comunque proceduto all'approvazione del decreto, ha fatto mancare la sua controfirma per renderlo operativo e trasmetterlo alle Camere.

C'è chi (guarda caso gli stessi che non vogliono vedere intralci nella procedura che condurrà alla morte di Eluana), in queste ore, ripete come un disco incantato che il capo dello Stato si è mosso «all'interno del quadro dei poteri che gli assegna la Carta costituzionale» e che ad aver compiuto atti addirittura «eversivi» della democrazia è stato il governo. E' un'affermazione che non sta in piedi. Innanzitutto l'invio della lettera è quanto meno «irrituale». Come ha detto ieri in conferenza stampa il presidente del Consiglio, «con la lettera si è introdotta una innovazione, quella cioè che il capo dello Stato, in corso d'opera di un Consiglio dei ministri, può intervenire anticipando la decisione del Consiglio circa la sussistenza, per un qualsiasi provvedimento, dei requisiti di necessità ed urgenza».

Ma l'errore più clamoroso compiuto dal presidente della Repubblica è stato il secondo, cioè la scelta di non controfirmare il decreto governativo sottolineando che esso non possiederebbe i caratteri di necessità ed urgenza previsti dalla Costituzione. Eppure è la stessa Costituzione, al secondo comma dell'articolo 77, a sancire in modo chiaro che la valutazione della necessità ed urgenza dei decreti legge spetta allo stesso governo. In questo modo, Napolitano ha di fatto espropriato l'esecutivo di una sua prerogativa, si è fatto egli stesso governo, cioè sede decisionale ultima dell'ordinamento repubblicano. In linguaggio tecnico, tutto ciò si chiama «presidenzialismo», quello che la sinistra descrive come anticamera del «regime», della «dittatura», del ritorno del «fascismo» ogni volta che il centrodestra ne parla e lo propone, ma che evidentemente è il benvenuto quando torna comodo agli eredi del Partito Comunista italiano.

Il capo dello Stato, nella sua lettera al presidente del Consiglio, ha poi affermato che «non è intervenuto nessun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità ed urgenza ai sensi dell'articolo 77 della Costituzione, se non l'impulso pur comprensibilmente suscitato dalla pubblicità e drammaticità di un singolo caso». Qui siamo veramente al paradosso: per Eluana, ieri mattina, è iniziata la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione che la porterà all'atroce morte per fame e per sete. Inoltre la procura di Udine, negli ultimi giorni, ha ricevuto lettere, ricorsi, reclami perché, a detta dei mittenti, non si sarebbero valutati, nel corso del processo, elementi e testimonianze che smentirebbero la presunta volontà di Eluana di non essere tenuta in vita in uno stato vegetativo. Se questi non sono «fatti nuovi», signor presidente della Repubblica, quali dovremmo ritenere tali?

E infine, sempre nella missiva al governo, Napolitano si è richiamato, così come la Corte di Cassazione nella sua sentenza, all'articolo 32 della Costituzione, il quale, al secondo comma, afferma che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Così il presidente della Repubblica si accoda alla vulgata «laicisticamente corretta», quella secondo cui l'idratazione e l'alimentazione sarebbero di fatto equiparabili a cure e terapie. Ha letto, il capo dello Stato, la direttiva emanata a dicembre dal ministro Sacconi, nella quale si stabilisce chiaramente che nutrire una persona gravemente disabile (come Eluana) non costituisce accanimento terapeutico? E poi, se proprio si vuole citare il secondo comma dell'articolo 32, lo si citi per intero; esso infatti così prosegue: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E' evidente, dal combinato disposto delle due frasi, che questa norma costituzionale non autorizza in alcun modo la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione, riconosciute in ogni foro internazionale come diritti inalienabili della persona, di quella disabile in particolare.

Come si vede, l'azione del capo dello Stato in questa vicenda è segnata da diverse forzature. Alla fine, crediamo che sia prevalsa la personale opinione del presidente sopra ogni altra cosa. Ciò sarebbe ammissibile se fossimo in una Repubblica presidenziale. Ma qui non c'è nessun presidente eletto dal popolo ed è invece il governo che può «adottare provvedimenti provvisori con forza di legge», e lo può fare «sotto la sua responsabilità». Da ieri esiste un precedente che rischia di mettere in discussione anche questo potere del governo, forse l'unico che gli consente veramente di svolgere in maniera efficace il suo compito.

Gianteo Bordero

giovedì 5 febbraio 2009

QUANDO PAPA WOJTYLA ESORTO' IL CARDINALE RATZINGER A RICUCIRE CON LEFEBVRE IN NOME DEL CONCILIO

da Ragionpolitica.it del 5 febbraio 2009

La questione lefebvriana si intreccia oggi, come sempre si è intrecciata, con la questione della corretta interpretazione del Vaticano II. Lo dimostrano, da ultimo, i fatti accaduti di recente, nei giorni successivi alla remissione della scomunica a carico dei quattro vescovi ordinati da monsignor Lefebvre nel 1988: chi critica la decisione di Benedetto XVI la fa soprattutto in nome di una «fedeltà al Concilio» che sarebbe stata tradita dal pontefice con la sua scelta. In sostanza, il cammino intrapreso dal Papa per giungere ad una piena ricucitura dello scisma lefebvriano sarebbe, a detta di molti, un passo indietro rispetto al percorso compiuto dalla Chiesa e dai predecessori di Ratzinger sul soglio di Pietro, che non hanno esitato a prendere provvedimenti i più gravi per condannare l'arcivescovo francese fondatore della Fraternità San Pio X.

Questa è di certo una lettura arbitraria della storia, specchio di un'altrettanto arbitraria lettura del Vaticano II e di ciò che esso ha rappresentato nel cammino della Chiesa. In particolare, ci si dimentica di sottolineare il filo della continuità che lega, su questo punto, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Nonostante le apparenze e le facili approssimazioni, Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger sono più vicini di quello che sembra in merito alla questione lefebvriana. Certo: il primo è stato colui che ha scomunicato Lefebvre (anche se, formalmente, il provvedimento a carico del monsignore è scattato in modo «automatico» al momento della consacrazione dei vescovi senza l'autorizzazione papale), mentre il secondo è colui che ha revocato tale scomunica e che si avvia a sanare la ferita dello scisma. Eppure, ci si dimentica di ricordare non soltanto che l'attuale pontefice è stato per più di vent'anni prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede per volontà del suo predecessore (il quale, anche negli ultimi anni di regno, volle mantenere il cardinale tedesco nel suo incarico nonostante i sopraggiunti limiti d'età per la «pensione» episcopale), ma anche che fu per impulso di Giovanni Paolo II che Ratzinger provò in tutti i modi, e fino all'ultimo, a evitare lo scisma.

A testimonianza di questa sintonia tra il pontefice polacco e l'allora prefetto dell'ex Sant'Uffizio vi è, tra le altre cose, una lettera inviata dal primo al secondo l'8 aprile del 1988, cioè proprio nei mesi precedenti la rottura definitiva tra Roma ed Ecône. In quel momento, gli sforzi del Vaticano per scongiurare il peggio erano molto intensi. La trattativa fu affidata in prima persona al cardinal Ratzinger. Essa porterà, il 5 maggio di quell'anno, alla sottoscrizione di un protocollo d'accordo siglato dallo stesso porporato tedesco e dall'arcivescovo francese: quest'ultimo si impegnava a garantire fedeltà al Papa, accoglieva la dottrina conciliare sulla Chiesa e sul magistero pontificio, riconosceva la validità del Messale riformato da Paolo VI; in cambio, sarebbe stata rimossa la sospensione a divinis del monsignore e la Fraternità San Pio X sarebbe divenuta una Società di vita apostolica, retta da un vescovo nominato dal Papa su indicazione di Lefebvre. L'accordo venne ripudiato il giorno successivo dallo stesso Lefebvre, il quale sostenne di esser stato ingannato. Quel ripudio fu l'inizio della fine.

Ma la citata lettera di Giovanni Paolo II al cardinal Ratzinger rimane molto significativa, perché essa, oltre a rinnovare l'invito al prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede a proseguire negli sforzi per ricucire con il monsignore francese, affinché «si compiano anche in questo caso le parole dette dal Signore nella preghiera sacerdotale per l'unità di tutti i suoi discepoli e seguaci», contiene, in nuce, l'interpretazione del Vaticano II che è stata poi esplicitata da Benedetto XVI nel suo ormai celebre discorso alla Curia romana del dicembre 2005. Dopo aver sottolineato il carattere di rinnovamento nella continuità operato dal Concilio, Giovanni Paolo II scrive: «Si sono fatte vive delle tendenze che sulla via della realizzazione del Concilio creano una certa difficoltà. Una di queste tendenze è caratterizzata dal desiderio di cambiamenti che non sempre sono in sintonia con l'insegnamento e con lo spirito del Vaticano II, anche se cercano di fare riferimento al Concilio. Questi cambiamenti vorrebbero esprimere un progresso, e perciò questa tendenza è designata con il nome di "progressismo". Il progresso, in questo caso, è una aspirazione verso il futuro, che rompe con il passato, non tenendo conto della funzione della Tradizione che è fondamentale alla missione della Chiesa, perché essa possa perdurare nella Verità ad essa trasmessa da Cristo Signore e dagli Apostoli, e custodita con diligenza dal Magistero». D'altro lato, vi è pure la tendenza opposta, il «conservatorismo», che «vede il giusto soltanto in ciò che è "antico" ritenendolo sinonimo della Tradizione».

Tutte queste tendenze, concludeva Papa Wojtyla, non colgono il punto focale della questione. Perché «non è l'"antico" in quanto tale, né il "nuovo" per se stesso che corrispondono al concetto giusto della Tradizione nella vita della Chiesa. Tale concetto infatti significa la fedele permanenza della Chiesa nella verità ricevuta da Dio, attraverso le mutevoli vicende della storia. La Chiesa, come quel padrone di casa del Vangelo, estrae con sagacia "dal suo tesoro cose nuove e cose antiche" rimanendo assolutamente obbediente allo Spirito di verità che Cristo ha dato alla Chiesa come Guida divina». Espressioni, queste, identiche nella sostanza a quelle pronunciate da Benedetto XVI alla Curia romana, con la distinzione tra la corretta ermeneutica del Vaticano II (il Concilio come «riforma») e quella non corrispondente a verità (il Concilio come «discontinuità e rottura»).

Tutto questo per dire che sbagliano coloro che vedono nelle recenti decisioni di Papa Ratzinger una rivoluzione rispetto all'operato dei suoi predecessori, uno sterile ritorno al passato mosso dalla volontà di cancellare i frutti del Vaticano II: in realtà, come emerge dalla lettera qui riportata, egli si muove - seppur con accento e stile diversi - su una linea che tutti i Papi del post-Concilio, a partire dallo stesso Paolo VI, hanno cercato di promuovere nel momento in cui si sono resi conto che la mitizzazione, la semplificazione ideologica, la de-contestualizzazione del Vaticano II non avrebbero portato nulla di buono per la Chiesa e per i cattolici. Se lo scisma lefebvriano, con tutte le difficoltà che ancora ieri sono emerse, sarà sanato, sarà questa linea portata avanti dal papato a vincere, non un passatismo che appare tale soltanto agli occhi di chi, in buona o cattiva fede, aveva interpretato (e tuttora interpreta) il Vaticano II come una grande sbianchettatura di duemila anni di storia.

Gianteo Bordero

martedì 3 febbraio 2009

COSI' IL CARDINAL SIRI TENTO' DI EVITARE LO SCISMA LEFEBVRIANO

da Ragionpolitica.it del 3 febbraio 2009

Un tentativo audace e coraggioso, mosso da un genuino spirito cattolico, volto a preservare l'unità della Chiesa. Questo fu ciò che decise di compiere il cardinal Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova dal 1946 al 1987, nei confronti di monsignor Marcel Lefebvre prima che su quest'ultimo cadesse la scomunica latae sententiae a seguito dell'ordinazione di quattro vescovi fatta senza la necessaria autorizzazione papale nel 1988.

Il rapporto tra Siri e Lefebvre datava agli anni del Vaticano II, quando attorno all'arcivescovo del capoluogo ligure, allora presidente della Cei, si raccolse gran parte dell'episcopato contrario alla trasformazione delle assise conciliari in un'occasione di rottura radicale con la tradizione della Chiesa. La sera del 22 ottobre del 1963, proprio nel bel mezzo della discussione riguardo al documento conciliare sulla Chiesa (quello attorno al quale si sarebbe poi verificata la clamorosa presa di posizione del Papa Paolo VI con la Nota Praevia del 16 novembre 1964 sul significato della parola «collegialità») i due si incontrarono alla prima riunione di quello che sarebbe poi divenuto il Coetus Internationalis Patrum, un gruppo che inizialmente raccoglieva una trentina di padri conciliari «preoccupati e insoddisfatti dei lavori in aula» (Benny Lai, Il Papa non eletto, Laterza 1993), coordinati dal vescovo brasiliano Gerardo de Proenca Sigaud e dallo stesso monsignor Lefebvre.

Nei mesi immediatamente successivi, durante una pausa dei lavori conciliari, Lefebvre decise di inviare a Genova padre Cristiano Charlot, allora seminarista e suo aiutante, per incontrare il cardinal Siri e proporgli la creazione di un seminario internazionale nel quale i giovani destinati al sacerdozio potessero ricevere una formazione nel solco della tradizione cattolica, in opposizione alla deriva progressista di buona parte della teologia. Racconta Charlot, poi divenuto sacerdote della «Fraternità di Maria» e in seguito fidato collaboratore dello stesso Siri, intervistato da padre Raimondo Spiazzi nel libro Il cardinale Giuseppe Siri (Edizioni Studio Domenicano, 1990): «Sulla faccenda del seminario di Lefebvre mi disse: "E' un'ottima cosa, bisogna farla bene, sempre però nello spirito della Chiesa, in obbedienza"». E sul Coetus Internationalis Patrum: «Siri diceva che non bisognava distruggere con le nostre riunioni quello che la Chiesa ha istituito. Non voleva che ci fosse un sindacato dei padri del Concilio, a prescindere dal ruolo, per fare pressione. Se la Chiesa lo aveva voluto cardinale un motivo c'era: i cardinali dovevano avere un occhio largo sulla Chiesa universale e aiutare in questo il Papa».

Da questo episodio circostanziato emerge, tra l'altro, la grande differenza d'approccio al Concilio (e alla Chiesa) da parte di Siri e di Lefevbre: se il primo, pur con tutte le personali riserve in merito allo svolgimento e alla piega che andava prendendo il Vaticano II, metteva sempre al primo posto l'obbedienza al Papa e il dovere di collaborare con lui al fine del raggiungimento del bene generale della Chiesa, il secondo tendeva già allora a far prevalere il proprio particolare punto di vista, declinandolo in modo ideologico, e quindi potenzialmente «violento», nei confronti del dettato conciliare. Il seguito della storia prova che questa prima differenza iniziale tra Siri e Lefebvre sarebbe poi stata all'origine della divaricazione delle loro strade: la prima produsse un impegno fruttuoso dentro il corpo ecclesiale, nella fedeltà al Papa, per leggere il Concilio in continuità con la storia della Chiesa, dando voce e parole a coloro che, pur critici nei confronti del Vaticano II, non volevano perdere il senso e la ricchezza della loro esperienza cattolica; la seconda ebbe come esito la «fuga» ad Ecône, la rottura con il papato, l'ordinazione episcopale senza mandato pontificio, la scomunica e lo scisma, in rivolta contro lo stesso magistero che si voleva a spada tratta difendere (come sottolineò allora un comunicato stampa di Comunione e Liberazione, «quanto accaduto a Ecône è una gravissima ferita all'unità del corpo di Cristo, di fronte alla quale impallidiscono tutte le ragioni addotte per spiegarlo. La conseguenza più grave di questo atto di ribellione compiuto per difendere i valori della tradizione è proprio quella di favorire gli avversari della vera tradizione»).

Fu proprio in forza del suo amore alla Chiesa cattolica e alla sua unità che il cardinal Siri, negli anni che precedettero la scomunica, tentò in tutti i modi di prevenire quello che già allora appariva come un possibile, doloroso scisma all'interno della Chiesa. Con padre Charlot, che nel frattempo era entrato a far parte della «Fraternità della Santissima Vergine Maria», rispose positivamente all'invito di monsignor Lefebvre per una collaborazione con il suo seminario. Racconta Charlot: «Gli dicemmo di sì, purché accettasse il nostro spirito: bisognava entrare positivamente in una visione più mistica della Chiesa, bisognava apprendere le riforme conciliari e cercare di vivificarle con lo spirito della Chiesa eterna. Non era chiuso, Lefebvre. Ma intorno aveva gente... che non voleva sentir parlare che della Messa, che delle forme. Lo avrebbero abbandonato se avesse accettato il punto di vista di Siri. Qui finì la stima di Siri per Lefebvre».

Nonostante ciò, l'impegno del cardinale genovese per ricucire i rapporti tra Roma ed Ecône rimase vivo e fu massimo anche negli anni successivi, dopo la sospensione a divinis di monsignor Lefebvre avvenuta nel 1976 a causa dell'ordinazione di sacerdoti stante il divieto impostogli dal Vaticano. Siri fu molto attivo in tal senso nel 1977-1978. Negli ultimi mesi di quell'anno, anche in seguito ad alcuni ripensamenti di Lefebvre e alle pubbliche parole di apprezzamento da questi riservate al cardinale in occasione del secondo conclave di quell'anno, invitò il monsignore a Genova, proponendogli uno schema di accordo: «Piena sottomissione all'autorità del Papa e altrettanta piena adesione alle norme del Concilio. L'unica richiesta di Lefebvre riguardava il permesso di celebrare la messa in latino secondo il rito di San Pio V» (B. Lai, Il Papa non eletto). Il cardinale fu ricevuto in udienza da Giovanni Paolo II il 13 novembre del 1978 e lì sottopose al pontefice la bozza di accordo che Lefebvre sembrava disposto ad accettare. Papa Wojtyla diede il suo assenso e decise di ricevere il fondatore della San Pio X in Vaticano il giorno 18 novembre. Siri aveva consigliato a Giovanni Paolo II di informare della visita di Lefebvre soltanto, a titolo personale, il cardinale Franjo Seper, presidente del Sant'Uffizio. E gli aveva suggerito di far pubblicare solo a cose fatte, sull'Osservatore Romano, un breve comunicato nel quale si annunciava che il monsignore aveva «regolato le sue questioni con la Santa Sede».

Ma qualcosa non andò per il verso giusto, e all'incontro tra il Papa e Lefebvre non seguì alcun annuncio della pace fatta tra la Santa Sede e la San Pio X. Scrive Lai: «L'udienza portò nei primi giorni del 1979 ad un colloquio di Seper con il vescovo "ribelle", da questi bruscamente interrotto. Il vescovo francese, il quale pensava di aver risolto la questione con il pontefice, si trovò sottoposto alla normale procedura del Sant'Uffizio riguardante le imputazioni dottrinali e disciplinari». Inoltre «apprese da un comunicato della sala stampa della Santa Sede che sarebbe stato soggetto al giudizio di un tribunale composto da cinque cardinali, alcuni dei quali, a suo avviso, lo avevano già condannato». Così fallì il tentativo di Siri. Se esso fosse andato a buon fine, quasi certamente non avrebbe poi avuto luogo la definitiva rottura del 1988, culminata con la scomunica e lo scisma. Il 22 giugno di quell'anno, quando Lefebvre annunciò la sua intenzione di ordinare quattro vescovi, il porporato genovese così scriveva al monsignore francese: «Monsignore, vi prego in ginocchio di non distaccarvi dalla Chiesa! Voi siete stato un apostolo, un grande vescovo; voi dovete restare al vostro posto. Alla nostra età noi siamo davanti alla porta dell'eternità. Riflettiamo! Io vi attendo sempre, qui nella Chiesa e poi in Paradiso». Era l'ennesima, dolorosa testimonianza di ciò che per Siri era essenziale: l'amore alla Chiesa e all'unità delle sue membra prima di tutto.

In conclusione, riallacciando il filo del discorso con l'attualità, è importante notare come la proposta di mediazione del porporato genovese del 1978 sia stata poi ripresa, sostanzialmente nei termini prima esposti, ma purtroppo senza fortuna, in primo luogo dal successore del cardinal Seper alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede: quel cardinale Joseph Ratzinger che si avvia oggi, da Papa, con tutta l'autorità che da ciò discende, a dare compimento definitivo, dopo trent'anni, agli sforzi di Giuseppe Siri, il cui impegno, come si vede, non è stato vano. Anche se ha dovuto fare i conti con tutte le difficoltà che sempre incontrano i profeti e i precursori.



Gianteo Bordero