da Ragionpolitica.it del 19 febbraio 2009
Se Walter Veltroni era il Pd, come si sono affrettati a sottolineare molti esponenti democrat dopo le dimissioni del segretario, che cosa è oggi il Pd senza Veltroni? Potrà il partito sopravvivere all'uscita di scena di colui che è stato, fino a ieri, il punto di equilibrio che teneva insieme anime tanto diverse tra loro, il garante del «patto di sindacato» tra post-comunisti e post-democristiani di sinistra? Sono queste le domande a cui, in queste ore, cercano di dare risposta i dirigenti del Partito Democratico, dopo che lo stesso Veltroni, nella conferenza stampa d'addio tenuta ieri mattina a Roma, in Piazza di Pietra, ha quasi supplicato i presenti di non fare passi indietro, di non lasciare prevalere la nostalgia del passato mandando gambe all'aria la «sua» creatura.
Perché di questo si tratta: il Pd ha assunto, dal momento della sua nascita ad oggi, le fattezze del suo leader. Invocato come unico salvatore della patria nei giorni gloriosi del discorso del Lingotto, incoronato dal voto delle primarie dell'ottobre 2007, osannato come simbolo della sinistra riformista, riconosciuto condottiero dotato di pieni poteri per dare forma nuova alle «magnifiche sorti e progressive», Veltroni ha proiettato sul Partito Democratico tutto se stesso: la nuova stagione, don Milani, Spello, la fine dell'antiberlusconismo viscerale, il dialogo tra gli schieramenti, l'abbandono del giustizialismo, l'ecumenismo irenico del «ma anche», il mito di Obama, l'America tra noi, la speranza, l'Italia da amare, il pop, le candidature delle Madia, dei Colaninno e dei Calearo, eccetera... Che poi questa proiezione si sia più o meno trasformata in realtà è un altro discorso: ciò che conta è che, dal 27 giugno 2007 al 16 febbraio 2009, dire Pd equivaleva dire Veltroni.
Stante questa sovrapposizione (almeno mediatica) tra il partito e il leader, era dunque inevitabile che proprio su quest'ultimo ricadesse tutto il peso delle sconfitte che, mese dopo mese, la nuova creatura di centrosinistra inanellava: le elezioni politiche dell'aprile 2008, le contestuali elezioni amministrative con la bruciante perdita della Roma «veltrona», le regionali abruzzesi del 1° dicembre con il partito sotto la soglia di sopravvivenza del 20%, e infine le regionali sarde con il tracollo di Soru e del Pd (-12% rispetto alle politiche). Nel mezzo: le inchieste della magistratura che hanno fatto calare l'ombra del malaffare su giunte locali da sempre ritenute fiore all'occhiello della buona amministrazione di centrosinistra; le proteste vibranti dei sindaci democrat del nord, pronti a costituirsi in sezione autonoma del partito, disponibili financo a «secedere» dalla casa madre nel caso le loro doglianze non fossero state ascoltate; e poi, ancora, l'imbarazzante e sempre più ingombrante alleanza con Antonio Di Pietro, pronto a divorare i consensi in libera uscita del Pd con il suo antiberlusconismo duro e puro; la fragilità - per usare un eufemismo - del governo ombra e dell'opposizione parlamentare, e chi più ne ha ne metta.
Si dirà: avere tra le mani il bastone del comando comporta onori ed oneri. Ed è vero. Ma l'impressione è che spesso la sovraesposizione di Veltroni come simbolo quasi esclusivo del Partito Democratico sia servita ai suoi oppositori e nemici interni come alibi per mascherare da un lato i piccoli (o grandi) giochetti di potere che avvenivano alle spalle del segretario, dall'altro lato per nascondere una disarmante mancanza di linee politicamente credibili e seriamente alternative a quella proposta dal leader (a meno che si consideri una strategia vincente il ritorno a una mini Unione con i rimasugli della sinistra radicale già sconfitti dalla storia). Identificare Veltroni con il Pd, in sostanza, è servito anche agli avversari interni di Walter per tenersi le mani libere, preparandosi ad ogni evenienza, nessuna esclusa. La loro strategia era chiara: cuocere a fuoco lento il segretario, logorarlo giorno dopo giorno, sconfitta dopo sconfitta, fino alle europee, per poi defenestrarlo e prendere in mano le sorti del partito o di ciò che restava di esso.
Ora la mossa di Veltroni spiazza tutti e taglia, come si suol dire, la testa al toro. Lascia il Partito Democratico solo con i suoi giganteschi problemi, che da oggi non sono più soltanto il proliferare delle correnti, la litigiosità interna, la mancanza di un accordo su temi importanti del dibattito politico e via dicendo, ma anche e soprattutto la messa in discussione della sua stessa esistenza, il dubbio su che cosa il partito sia e rappresenti, l'impressione che, tolto di mezzo il segretario, come ha scritto Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, il Pd si ritrovi «sul baratro del nulla».
Gianteo Bordero
giovedì 19 febbraio 2009
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