sabato 30 gennaio 2010

BERSANI-DI PIETRO. RITORNO AL PASSATO

da Ragionpolitica.it del 30 gennaio 2010

Gira che ti rigira, alla fine il segretario del Partito Democratico ha deciso di riannodare i legami con l'Italia dei Valori in vista delle elezioni regionali del prossimo marzo. Una scelta per certi versi scontata, se si tiene conto del fatto che senza l'apporto del voto dipietrista il Pd rischia di capitolare in numerose Regioni nelle quali oggi è al governo e che i sondaggi più recenti danno in bilico tra centrosinistra e centrodestra. Così, dopo le liti dei mesi scorsi, dopo le ripetute prese di distanza di molti esponenti democratici dai toni e dai contenuti delle battaglie condotte dall'ex pm, improntate a un antiberlusconismo totale e dogmatico dal quale Bersani aveva annunciato di volersi affrancare, ecco che, come se nulla fosse accaduto, i leader dei due partiti si sono presentati insieme in conferenza stampa per annunciare un nuovo patto politico. Un accordo che - precisano - non riguarderà soltanto la prossima scadenza elettorale, ma anche il prosieguo della legislatura, in vista della creazione di una larga alleanza di centrosinistra capace di contendere al centrodestra la vittoria alle politiche del 2013.


Si tratta non soltanto di una sconfessione in piena regola della strategia annunciata a parole da Bersani nella fase pre-congressuale del Partito Democratico e finalizzata a dare vita ad un nuovo centro-sinistra fondato sull'asse tra Pd e Udc, con un'Italia dei Valori relegata al ruolo di gregario, ma anche di un ritorno al passato senza se e senza ma. In primis un ritorno all'alleanza stipulata da Veltroni con Di Pietro alla vigilia delle elezioni politiche del 2008, che ha avuto come conseguenza quella di regalare all'ex pm una corposa rappresentanza parlamentare e di consentirgli, con l'estrema sinistra rimasta fuori dal Palazzo, di autonominarsi, agli occhi dell'opinione pubblica, rappresentante unico della gauche massimalista. Ma è anche un ritorno de facto all'Unione prodiana, cioè - in sostanza - alla volontà di mettere insieme forze che hanno come solo denominatore comune l'avversione a Berlusconi. Idee, contenuti e proposte passano così in secondo piano, anzi divengono ininfluenti alla luce dell'unico punto programmatico capace di tenere uniti partiti tanto diversi tra loro: abbattere il Cavaliere Nero, costi quel che costi.


A soli quattro mesi dal suo insediamento alla segreteria del Pd, Bersani si trova dunque in un evidente stato confusionale: a parole dice di voler seguire una determinata direzione (quella del riformismo socialdemocratico e del confronto con la maggioranza sui grandi temi dell'agenda di governo) ma poi, nei fatti, sceglie di percorrere quella opposta (l'arroccamento nell'antiberlusconismo ideologico, chiuso ad ogni ipotesi di collaborazione istituzionale tra i due schieramenti). L'impressione è che il leader del Partito Democratico non sappia che pesci prendere e che, temendo una pesante sconfitta alle regionali, potenzialmente devastante per le sorti della sua segreteria, sia alla disperata ricerca di alleati con i quali mettere assieme i numeri necessari per rendere sopportabile e in qualche modo digeribile il risultato delle urne. L'elaborazione di una proposta politica seria e credibile, quindi, lascia nuovamente spazio alla mera aritmetica elettorale, cioè alla volontà di conquista del potere fine a se stessa. Come se non avesse insegnato nulla, ai dirigenti del Pd, l'esperienza degli ultimi sedici anni, a partire dalla bocciatura della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto nel 1994. I postcomunisti sembrano aver dimenticato persino gli insegnamenti del loro maestro di un tempo, quel Karl Marx il quale profeticamente affermò che «la storia si ripete sempre due volte: la prima volta in tragedia, la seconda in farsa». Dopo il fallimento dell'Unione prodiana, giunta al minimo storico dei consensi tra gli stessi elettori di sinistra a causa della sua insostenibilità e assurdità politica, il rischio è proprio quello descritto dall'autore del Capitale: arrivare alle comiche finali della sinistra in Italia.


Bersani, infatti, siglando un nuovo patto di reciproca fedeltà con un partito che in alcun modo, a causa del suo stesso Dna, può essere partecipe di un progetto di modernizzazione del paese, non si rende conto di sacrificare sull'altare della convenienza e del tornaconto immediato del partito quel poco di prospettiva riformista lasciata intravedere al momento della sua elezione a leader del Pd. Siamo alle solite: niente di nuovo sul fronte gauchista. Con l'aggravante che questa volta, considerato il progressivo stato di disgregazione interna del Partito Democratico (si pensi, ad esempio, all'addio di Rutelli, Lanzillotta, Dellai, Carra, Lusetti), i fili che il segretario ha riannodato con Di Pietro rischiano di trasformarsi nel cappio capace di soffocare definitivamente il già affannoso e stentato respiro del Pd. Perché l'ex pm, come un avvoltoio, è pronto a fare caccia grossa nell'elettorato orfano del «grande partito» che fu.


Gianteo Bordero

martedì 26 gennaio 2010

IL FANTASMA DI PRODI

da Ragionpolitica.it del 26 gennaio 2010

Lo scorso agosto, in piena stagione balneare, nella penuria di notizie politiche salì agli onori delle cronache un editoriale di Romano Prodi pubblicato dal Messaggero, e intitolato: «Riformisti, il coraggio di parlare controcorrente». Fu un osservatore attento come Piero Sansonetti, direttore de Gli Altri, a sottolineare come l'intervento prodiano avrebbe potuto rappresentare una sorta di manifesto per un nuovo centrosinistra italiano. Perché il Professore, nel suo articolo, non soltanto proponeva come chiave di lettura della crisi della gauche in Europa la tesi dello spostamento a destra dei governi progressisti e laburisti degli ultimi dieci anni, in primis quello di Tony Blair, ma tracciava anche le linee-guida per dare vita ad una nuova politica per la sinistra: «Per vincere - scriveva - i riformisti debbono elaborare nuove idee e nuovi progetti... Ribadendo con forza il ruolo dello Stato come regolatore di un mercato finalmente pulito. Approfondendo i modi e gli strumenti attraverso i quali i cittadini abbiano uguali prospettive di fronte alla vita. Rinnovando il funzionamento del sistema scolastico, della ricerca scientifica e del sistema sanitario. Ripensando al grande processo di superamento del nuovo nazionalismo politico ed economico con una forte adesione agli obiettivi di coesione europea e di solidarietà internazionale. Non avendo paura di denunciare i tanti aspetti riguardo ai quali il capitalismo deve profondamente riformarsi. Non accontentandosi di mostrare un giorno la faccia feroce e il giorno dopo un viso sorridente verso gli immigrati, ma preparando una organica politica di legalità ed accoglienza». A leggere queste parole, e tenendo conto del vuoto di identità e dello stato di grave difficoltà in cui versavano il Pd e gli altri partiti della sinistra nel nostro paese, la domanda sorse in noi spontanea: «E se tornasse Romano?».


Perché è indubitabile che Prodi, nell'immaginario e nel sentimento collettivo di un elettorato gauchista ormai privo di punti di riferimento solidi e credibili, rappresenti ancora - e forse oggi più di prima - il simbolo della vittoria, dell'entusiasmante «stagione dell'Ulivo», della piazza festante del 1996, dell'aprile rosso, della sinistra che entrava nella stanza dei bottoni, dell'inveramento del progetto del compromesso storico tra cattolici e comunisti, dell'affermazione sul Cavaliere Nero, ecc... Di fronte alle macerie del presente, la figura del Professore svetta come l'icona dei fasti del passato. E poco importa, in questo processo psicologico di idealizzazione e di mitizzazione del tempo che fu, che lo stesso Prodi sia stato all'origine della crisi attuale proponendo prima e costruendo poi, come unica forma di governo possibile della sinistra in Italia, la grande alleanza antiberlusconiana, che tenesse insieme, senza alcun progetto politico condiviso, ma soltanto in nome dell'avversione all'uomo di Arcore, i moderati e i massimalisti, i liberisti e gli anticapitalisti, i riformisti e i peggiori conservatori dello status quo, i garantisti e i giustizialisti, i cattolici e i laicisti e via giustapponendo. Non c'è razionalità politica in questa nostalgia per gli anni del prodismo, dell'ulivismo rampante e poi dell'Unione, che semmai dovrebbero essere interpretati, a mente fredda, come i veri colpevoli del declino della gauche nostrana e della pesantissima sconfitta elettorale del 2008.


Ma c'è un dato in più di cui tenere conto oggi: evocare Prodi serve agli avversari interni dell'attuale leadership del Partito Democratico come argomento di lotta e di polemica per dimostrare l'inefficacia e l'inconcludenza della gestione che ha preso il via nello scorso mese di ottobre. Tanto più dopo la straripante vittoria di Nichi Vendola nelle primarie pugliesi per la designazione del candidato del centrosinistra alla guida della Regione: la partita tra Boccia e Vendola è consistita, in sostanza, nella scelta tra il nuovo centro-sinistra (col trattino) fortemente caldeggiato da Bersani e D'Alema, e fondato sull'asse tra il Pd e l'Udc, e il vecchio centrosinistra (senza trattino) capace di inglobare al suo interno tutte le forze di opposizione, estrema sinistra compresa. Buona parte dell'elettorato pugliese del Pd, votando contro le indicazioni della segreteria romana, schierata al fianco di Boccia, ha mostrato di essere ancora legata a quella formula di cui Prodi è stato il supremo rappresentante. Perciò non deve destare scalpore il fatto che il vero grande oppositore interno di Bersani e D'Alema, e cioè il giornale-partito La Repubblica, sia uscito martedì in prima pagina con un'intervista al Professore dal titolo: «Prodi: "Ma chi comanda nel Pd?"». L'ex presidente del Consiglio non pronuncia direttamente quella frase - lui si guarda bene dall'avanzare una critica esplicita a Bersani - ma la mette in bocca ai militanti del partito incontrati mentre era a sciare a Campolongo, «in fila per lo skilift». Ma la sostanza non cambia: il Professore asseconda la strategia di Repubblica, che, dopo aver cannoneggiato lunedì contro il segretario e il suo mentore D'Alema, completa l'opera martedì attraverso il «colloquio» con Prodi. Il messaggio è chiaro: o si torna ai gloriosi tempi dell'Unione antiberlusconiana, oppure per il Pd e per la sinistra la permanenza all'opposizione potrebbe durare sino a data da destinarsi. Lui, Romano, non tornerà: «Abbiamo già dato», dichiara al giornale scalfariano. Ma il suo fantasma continuerà ad aleggiare attorno alla leadership del Pd per molto tempo ancora. Salvo sorprese.


Gianteo Bordero

sabato 23 gennaio 2010

LA POSTA IN PALIO NELLE PRIMARIE PUGLIESI

da Ragionpolitica.it del 23 gennaio 2010

Le primarie pugliesi del centrosinistra, che formalmente sono state presentate come lo strumento per sbrogliare l'intricata matassa della candidatura alla presidenza della Regione, nella sostanza sono il banco di prova per la nuova strategia di alleanze inaugurata dal segretario del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani. In ballo vi è, soprattutto, la possibilità di testare a livello locale una nuova versione del centro-sinistra (rigorosamente col trattino) grazie all'intesa tra il Pd e l'Udc di Pier Ferdinando Casini. Affinché ciò possa avere effettivamente luogo, è necessario che ad uscire vincitore dalle primarie di domenica sia Francesco Boccia, un moderato sponsorizzato da Enrico Letta e gradito all'Unione di Centro. In caso contrario, se dovesse avere la meglio (come già accaduto cinque anni or sono) il governatore uscente Nichi Vendola, esponente di Sinistra, Ecologia e Libertà, partito dell'area massimalista della gauche nostrana, addio Udc e addio nuovo centro-sinistra, almeno per il momento.


Già il fatto che le primarie abbiano luogo rappresenta un'indubbia vittoria di Vendola, che ha tenuto duro di fronte a tutti i tentativi dei dirigenti del Pd, D'Alema in primis, di farlo recedere dalla candidatura per lasciare spazio a un nome digeribile dall'Unione di Centro. Nonostante gli scandali che in questi ultimi anni hanno investito la sua giunta, soprattutto per quanto concerne la gestione della sanità, a quanto pare il presidente uscente gode ancora di un'ampia fiducia nell'elettorato di centrosinistra, probabilmente grazie al suo stile non immune da un certo populismo di maniera, sapientemente condito, da un po' di mesi a questa parte, con una buona dose di vittimismo: lui, Nichi il puro, il poeta della politica nobile, circondato da un branco di iene e sciacalli pronti ad avventarsi sulla sua carcassa al termine del mandato elettorale. Aver resistito tra scandali, inchieste e accuse di malaffare indirizzate contro di lui e contro la sua squadra di governo è anche questa una vittoria di Vendola, che, rimpasto dopo rimpasto, è riuscito ad arrivare alla meta della scadenza naturale dei cinque anni ed ora si ripresenta al popolo della sinistra chiedendo la fiducia per un altro giro di pista alla guida della Regione.


Così facendo, Nichi ha mandato su tutte le furie la nuova segreteria del Partito Democratico, e soprattutto, come dicevamo, quel Massimo D'Alema che non solo è stato il grande sponsor di Bersani nella corsa per la guida del Pd, ma che proprio in terra pugliese ha uno dei suoi cosiddetti «feudi». Pensando di poter fare, in ragione di ciò, il bello e il cattivo tempo, Baffino ha peccato - come sempre - di superbia. Ha cioè fatto i conti senza l'oste, il quale ora gli ha presentato il salato prezzo da pagare: appunto le primarie - una parola che a D'Alema fa venire l'orticaria al sol sentirla pronunciare. Lo stratega Massimo ha dunque dovuto fare buon viso a cattivo gioco, scendendo in Puglia all'assemblea del partito per spiegare ai suoi, con discorsi in perfetto politichese di vecchio conio, questo semplice concetto: o mangiamo la minestra (le primarie) o saltiamo la finestra (perdiamo la Regione e spacchiamo ulteriormente il partito). E la minestra l'ha dovuta ingollare pure Boccia, che di andare nuovamente alla conta con Vendola non ne voleva proprio sapere, dopo la bruciante sconfitta del 2005.


In questa situazione, a gongolare non è stato soltanto Vendola, com'è ovvio. La vicenda ha ridato fiato anche alla minoranza interna del Partito Democratico - leggi veltroniani e franceschiniani - che, fiutata l'aria, non soltanto si sono schierati dalla parte del governatore uscente, inscenando clamorose proteste nel corso delle assemblee di partito, ma ne hanno anche approfittato per tornare alla carica contro la debolezza e l'inconcludenza del segretario e del suo mentore D'Alema, accusati di voler sacrificare sull'altare dell'alleanza con l'Udc le intese consolidate con gli altri partiti del centrosinistra, portando il Pd verso nuove e clamorose sconfitte.


Stando così le cose, ed essendo così alta la posta in palio anche all'interno del Pd, pensare che domenica i militanti democratici si mobilitino in massa per la causa di Boccia (e quindi di Bersani e D'Alema) è a tutt'oggi un mero esercizio di ottimismo. Visto che le primarie sono aperte a tutti i cittadini pugliesi, il candidato del Pd dovrà sperare nel «soccorso bianco» degli elettori dell'Udc o in quello «viola» dell'Italia dei Valori, ammesso e non concesso che ciò sia sufficiente per rimontare lo svantaggio registrato dai sondaggi on line dei quotidiani pugliesi, che mentre scriviamo danno Vendola al 78% e Boccia al 22%, per un totale di circa ventimila votanti telematici. «Troppo bello per essere vero», commentano dallo staff del governatore uscente. Di certo, un segnale non incoraggiante per Boccia.


Gianteo Bordero

giovedì 21 gennaio 2010

REGIONALI. IL VERO VALORE AGGIUNTO DEL CENTRODESTRA È BERLUSCONI

da Ragionpolitica.it del 21 gennaio 2010

E' stato detto e scritto, nei giorni scorsi, che le alleanze in vista delle prossime elezioni regionali devono essere stipulate sulla base di accordi locali che vadano al di là delle rigide logiche di schieramento nazionale. Questa affermazione, che contiene indubbi elementi di verità, non coglie però tutti i fattori in gioco nella battaglia che i partiti si apprestano a combattere. Innanzitutto è chiaro che i risultati che usciranno dalle urne il prossimo 23 marzo saranno valutati dagli osservatori, dall'opinione pubblica e dagli stessi dirigenti partitici come una cartina di tornasole dei rapporti di forza, a livello nazionale, tra e negli schieramenti: ciò che conterà, alla fine, sarà in primis il numero di amministrazioni regionali che un polo sarà riuscito a strappare all'altro, e poi la formazione politica (e persino, all'interno di essa, la «corrente») a cui appartiene il nuovo governatore. Se dunque l'esito del voto di marzo, come tutti candidamente lasciano intendere, sarà valutato secondo una prospettiva nazionale (le regionali sono considerate come una sorta di elezioni di mid-term per saggiare la tenuta dell'attuale maggioranza di governo) è evidente che anche la fase di definizione delle alleanze non può sfuggire del tutto a questa logica. Tanto più che non ci troviamo di fronte ad elezioni in sperduti Comuni e piccole Province, bensì in Enti che, per poteri esercitati, fondi erogati e «poltrone» disponibili, possono di fatto essere accostati alle Amministrazioni centrali.


Ciò che mette in crisi lo schema consolidatosi negli ultimi quindici anni in occasione delle regionali è la presenza sulla scena di un partito, l'Unione di Centro, che ha già manifestato senza giri di parole la sua intenzione di scegliere caso per caso i compagni di viaggio, senza alcun vincolo di schieramento nazionale, ma avendo come fine ultimo da un lato quello di alzare il prezzo dell'accordo laddove essa potrebbe risultare decisiva, dall'altro quello di creare scompiglio nel centrodestra e nel centrosinistra in vista della destrutturazione dell'attuale bipolarismo auspicata da Pier Ferdinando Casini. Così, se per un verso ciò a cui i due poli guardano è la proiezione a livello nazionale del risultato delle regionali, per un altro verso essi sono costretti a ingoiare la minestra della «logica locale» laddove l'Udc è l'ago della bilancia per assegnare all'uno o all'altro la palma del vincitore. Se non fosse in campo il partito di Casini, e se esso non fosse in alcune situazioni decisivo, probabilmente nessuno, soprattutto in un centrodestra che i sondaggi danno ancora largamente maggioritario rispetto al centrosinistra, si sentirebbe in dovere di far ricorso al caro, vecchio argomento dell'«ottica locale». E' un modo garbato per nobilitare una scelta che sarebbe solo ed esclusivamente dettata dalla realpolitik.


Un altro elemento di cui tenere conto è il fatto che il presidente del Consiglio ha già manifestato la sua volontà di imprimere alla campagna elettorale per le regionali una forte caratterizzazione governativa, mostrando i risultati ed i successi ottenuti dall'esecutivo in quasi due anni di attività. Berlusconi vuole partecipare attivamente alla campagna e, come già accaduto in passato, la sua presenza itinerante per lo Stivale può senza dubbio rappresentare quel valore aggiunto in grado sia di mobilitare quella parte di elettorato di centrodestra che tradizionalmente si reca con entusiasmo alle urne solo se in ballo c'è una vera partita politica nazionale, sia di calamitare i molti incerti rilevati in queste settimane dai sondaggi, sia di andare a pescare nell'elettorato centrista laddove l'Udc stringerà accordi con il centrosinistra, che in molti casi verranno percepiti come innaturali rispetto al Dna di principi e valori del partito.


Se da un lato, dunque, per ragioni di realismo politico può essere accettato in alcuni casi il sostegno dell'Unione di Centro ai candidati del centrodestra, soprattutto in quelle Regioni che alla fine dei conti saranno decisive per poter parlare di vittoria o sconfitta sul piano nazionale, dall'altro lato non bisogna dimenticare che spesso, con Berlusconi in campo, ad essere decisive non sono state la somma algebrica dei voti sulla carta e le strategie studiate a tavolino, ma le formidabili campagne politiche del Cavaliere nelle città italiane, il contatto diretto del leader con il suo popolo, la forza attrattiva e imprevedibile di colui al quale gli elettori continuano ad assegnare, da tre lustri a questa parte, un consenso senza pari nella storia della Repubblica.


Gianteo Bordero

mercoledì 20 gennaio 2010

SESTRI LEVANTE. IL SILENZIO DELLA SINISTRA SULLA SORTE DEI LAVORATORI DELLE PISCINE

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE
GRUPPO CONSILIARE “IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – LEGA NORD”


COMUNICATO STAMPA DEL 20 GENNAIO 2010


Torniamo a chiedere all’Amministrazione comunale di Sestri Levante di attivarsi immediatamente per cercare una soluzione al non più tollerabile stato di incertezza nel quale versano i lavoratori delle piscine comunali. E’ incredibile che una Giunta di centrosinistra, che a parole si dice paladina dei lavoratori, in concreto tolleri la presenza, sul territorio comunale, di situazioni come quella che purtroppo si sta da tempo verificando negli impianti natatori sestresi.

Ci riconosciamo nei rilievi critici che sono stati mossi dal segretario territoriale della Cisl, Tiziano Roncone, a proposito della mancata contrattualizzazione di coloro che prestano servizio nelle piscine, così come non possiamo non deplorare, dopo quanto emerso sulla stampa locale nei giorni scorsi, il trattamento sbrigativo riservato ad alcuni di loro. Per questo presenteremo quest’oggi una mozione, da discutere in Consiglio Comunale, nella quale sollecitiamo l’Amministrazione a fare tutto ciò che è nelle sue facoltà e nei suoi poteri per sanare una situazione divenuta ormai insostenibile.

Accanto a ciò, continua a diventare sempre più evidente come tutto il “progetto piscine” sia nato male (a partire dalla scelta di costruire due impianti, di cui quello coperto non idoneo per gare e competizioni ufficiali di nuoto e pallanuoto) e rischi purtroppo di finire peggio (con i lavoratori già prima non “contrattualizzati” e oggi in balia degli eventi legati all’annullamento della gara d’appalto e al passaggio di gestione dal Circolo Nuoto Lucca alla società Mito).

Ricordiamo alla smemorata maggioranza che amministra la città che le piscine sorgono su un’area teatro di tante battaglie da parte dei lavoratori. Sarebbe scandaloso che chi allora metteva in atto clamorose forme di protesta per difendere la fabbrica e gli operai oggi non muovesse un dito per i lavoratori delle piscine. Ma, come è noto, quando si parla al centrosinistra sestrese di aree ex Fit si tocca un nervo scoperto, perché una zona della città che poteva essere rilanciata come volano per lo sviluppo è stata invece destinata a esclusivo spazio di proliferazione di seconde case. E tutti sanno chi porta la responsabilità politica di quella scelta sciagurata.

Gianteo Bordero (capogruppo)

Marco Conti
Giancarlo Stagnaro

martedì 19 gennaio 2010

IL PAPA IN SINAGOGA. UNA VISITA ALL'INSEGNA DELLA VERITÀ

da Ragionpolitica.it del 19 gennaio 2010

I tanti cultori del politicamente corretto e del religiosamente corretto che si aspettavano dalla visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma gesti clamorosi e clamorose «aperture» saranno rimasti delusi. Perché la vera notizia che è venuta dall'incontro di domenica è che Papa Ratzinger vuole dare al «dialogo» con gli ebrei quella dimensione ordinaria che dovrebbe contraddistinguere i buoni rapporti tra fratelli. Nessuna concessione alla retorica, dunque, nessun annuncio sensazionale, né tantomeno nessun dietro-front rispetto alle decisioni assunte dall'attuale pontefice riguardo al processo di beatificazione del suo predecessore Pio XII. Al «dialogo» - quello vero, e non quello sbandierato come vessillo ideologico dai paladini dell'ecumenismo un tanto al chilo - serve innanzitutto franchezza, chiarezza delle idee e delle posizioni, coraggio di chiamare i problemi col loro nome, senza nasconderli ipocritamente sotto il tappeto di un indistinto e noioso buonismo.


Questa franchezza ha contraddistinto i giorni che hanno preceduto la visita in Sinagoga, a partire già dallo scorso mese di dicembre, con la decisione di non rimandare a data da destinarsi la firma del decreto che riconosce le virtù eroiche di Papa Pacelli: un gesto che da molti è stato considerato come una pietra d'inciampo nel rapporto con gli ebrei si è rivelato, in realtà, come un utile invito a preparare l'importante appuntamento del 17 gennaio in spirito di verità, senza paura di affrontare le questioni aperte e senza «timori reverenziali», buoni per le chiacchiere di routine ma deleteri quando in ballo c'è qualcosa di grande e importante per milioni di persone. Così anche all'Angelus di domenica mattina, annunciando ai fedeli presenti in piazza San Pietro la visita pomeridiana al Tempio Maggiore sul Lungotevere, Benedetto XVI non ha mancato di ricordare che nel «cammino di concordia e di amicizia» tra cristiani ed ebrei ancora sussistono «problemi e difficoltà». Questi atti e queste parole del Papa hanno evitato che l'incontro in Sinagoga si limitasse a un nostalgico ricordo della prima visita di Giovanni Paolo II, avvenuta nel 1986, oppure si trasformasse in un momento di pura forma senza contenuto alcuno. E infatti l'invito alla franchezza è stato raccolto dai rappresentanti della comunità ebraica che hanno preso la parola, e dal rabbino capo Riccardo Di Segni. Lo stesso Benedetto XVI, nel suo intervento, non ha sorvolato su una questione scottante come quella riguardante Pio XII: pur senza nominarlo esplicitamente, Papa Ratzinger ha ricordato che durante i tragici anni della Shoah «la Sede Apostolica svolse un'azione di soccorso, spesso nascosta e discreta».


Così è apparso chiaramente che il «dialogo» non può fondarsi sull'annacquamento delle proprie posizioni o sulla rinuncia alla propria storia. Affinché esso sia tale è invece necessaria una approfondita conoscenza reciproca, capace di superare i pregiudizi e i luoghi comuni e di andare al cuore delle rispettive identità cogliendone le radici comuni e le verità condivise, a partire dalle quali diviene possibile costruire un'amicizia solida e feconda. E' un lavoro faticoso, che implica, come ha più volte ricordato Papa Ratzinger nel suo discorso, «un cammino» quotidiano, fatto di piccoli passi, e il cui fine non è il progressivo annullamento delle differenze, ma una più convinta risposta di ciascuno «alla chiamata del Signore».


Questo è tanto più vero nel caso del rapporto tra cristiani ed ebrei, che partecipano di una «comune eredità tratta dalla Legge e dai Profeti». Infatti la loro «vicinanza» e la loro «fraternità spirituale» - ha detto Benedetto XVI - «trovano nella Sacra Bibbia il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo». E' su tale fondamento che il «dialogo» tra cristiani ed ebrei può uscire dall'astrattezza e dall'indeterminatezza e divenire impegno condiviso e concreto di fronte al mondo. Ad esempio partendo dal Decalogo, patrimonio comune alle due fedi. Esso può fornire la base per una collaborazione dinanzi alle grandi sfide e ai grandi drammi del tempo attuale: per «risvegliare nella nostra società l'apertura alla dimensione trascendente e testimoniare l'unico Dio», per «testimoniare insieme il valore supremo della vita», per «conservare e promuovere la santità la famiglia come cellula essenziale della società». Non si tratta di semplici affermazioni di principio o mere dichiarazioni d'intenti per una qualche forma di umanitarismo condiviso. Tale collaborazione - spiega Benedetto XVI - ha origini più solide: «È scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola». Sembrerà poco a chi si attendeva dalla visita del Papa in Sinagoga l'annuncio di grandi passi in avanti. In realtà, senza annunci reboanti, questo è stato il modo migliore per fare insieme qualche piccolo passo verso un rapporto all'insegna della verità.


Gianteo Bordero

giovedì 14 gennaio 2010

IL CORAGGIO CHE MANCA AL PD

da Ragionpolitica.it del 14 gennaio 2010

Le attuali difficoltà del Partito Democratico nella definizione delle alleanze e delle candidature per le prossime elezioni regionali sono lo specchio di una crisi più profonda, che rischia di spegnere sul nascere i buoni propositi espressi dal nuovo segretario Pier Luigi Bersani all'indomani della sua elezione e poi, più di recente, dopo l'aggressione subìta a Milano dal presidente del Consiglio. Se la carta vincente con cui l'ex ministro dello Sviluppo del governo Prodi aveva conquistato la guida del partito era stata la proposta di dotare il Pd di una chiara e distinta identità riformista, oggi questo punto centrale della mozione Bersani è messo in discussione da una serie di fattori che obbligano il segretario a navigare a vista e a rinunciare ad ogni coraggioso slancio in avanti.


Innanzitutto Bersani deve fare i conti con un'opposizione interna (rappresentata in larga parte dai seguaci di Veltroni e Franceschini) che sembra intenta più a perseguire la propria rivincita sul nuovo segretario che a costruire insieme a lui un partito in grado di contendere al Popolo della Libertà e al centrodestra il governo del paese. Prevalgono cioè, ancora una volta, i personalismi, i desideri di vendetta contro il leader di turno, i rancori e le mai sopite lotte intestine. Invece che collaborare - ancorché criticamente - con il segretario, si pensa soltanto al modo per indebolirne l'autorevolezza oggi e per metterne in discussione il ruolo domani, quando dalle urne delle elezioni regionali potrebbe uscire un quadro desolante per il Pd. Se non prenderà le adeguate contromisure mostrando un piglio decisionista e determinato con gli avversari interni, Bersani potrebbe ritrovarsi in men che si dica nelle condizioni dei suoi predecessori. E non sarebbe un bello spettacolo.


In secondo luogo, il segretario del Partito Democratico si trova a dover fronteggiare l'eterna questione dei rapporti con Antonio Di Pietro, che, come ha scritto Giampaolo Pansa su Libero del 13 gennaio, «non è un alleato, bensì l'amico del giaguaro, un cannibale politico con un unico programma: mangiarsi l'elettorato del Pd, boccone dopo boccone». Tant'è vero che, ogni volta che Bersani lascia trasparire dalle sue dichiarazioni la pur minima intenzione di volersi confrontare con la maggioranza sulle questioni di interesse generale del paese, ecco che l'ex pm parte alla carica accusando il Pd di intelligenza con il nemico, di berlusconismo, di complicità col Cavaliere Nero. Tutto ciò costringe il segretario a dare un colpo al cerchio del dialogo e un colpo alla botte dell'antiberlusconismo, col risultato di apparire indeciso e ondivago sul da farsi. L'alternativa sarebbe la rottura netta col leader dell'Idv, ma ciò, se da un lato contribuirebbe a una maggiore libertà d'azione per il Pd, dall'altro comprometterebbe il progetto bersaniano di dare vita ad una coalizione abbastanza larga da poter competere con il centrodestra.


Tutto ciò conduce alla terza considerazione, che riguarda la stessa definizione di partito «riformista». Nelle grandi democrazie occidentali, chi si definisce tale non perde occasione per dimostrarlo anche con i fatti. Il che comporta, per un partito d'opposizione, una continua disponibilità al confronto con chi le riforme le propone - cioè i governi -, e una capacità di proposta e di emendamento a partire da un programma chiaro riguardo ai problemi del paese. Nel caso del Pd, invece, l'impressione è che la disponibilità al confronto esista a giorni alterni e secondo l'opportunità tattica del momento, e che la capacità di formulare proposte alternative sia ancora di là da venire. La conseguenza è che il Partito Democratico - si pensi alle recenti dichiarazioni di Bersani contro le proposte di riforma su fisco e giustizia avanzate dalla maggioranza - appare come un altro dei tanti «partiti del no» che hanno caratterizzato la storia recente della sinistra italiana, conducendola in quello stato di marginalità politica che è oggi sotto gli occhi di tutti.


La verità, in conclusione, è che non esiste riformismo se ad esso non s'accompagna una buona dose di coraggio: coraggio di rompere con le abitudini consolidate, coraggio di lasciarsi alle spalle gli schemi del passato, coraggio di tagliare i ponti con chi si oppone alla modernizzazione di un partito, coraggio di assumere posizioni scomode all'interno del proprio schieramento. In una parola: coraggio di cambiare. Per il Pd e per Bersani questo significa chiudere definitivamente la stagione dell'antiberlusconismo, staccarsi dall'estremismo giustizialista di Di Pietro, concentrarsi sull'elaborazione di un programma credibile di governo, aprire in modo stabile al confronto con il centrodestra sulle riforme di sistema, saper dire dei «sì» quando ci si trova di fronte a provvedimenti utili ai cittadini. E' su questo terreno che si gioca il futuro del Partito Democratico e del suo attuale segretario. L'alternativa è la disgregazione finale di ciò che resta della sinistra in Italia.


Gianteo Bordero

martedì 12 gennaio 2010

LA DEBOLE STRATEGIA DELL'UDC

da Ragionpolitica.it del 12 gennaio 2010

Il coordinatore nazionale del Pdl e ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, ha descritto con precisione, in un intervento pubblicato dalla Stampa il 9 gennaio, l'attuale strategia portata avanti dall'Udc di Pier Ferdinando Casini. Ha osservato Bondi: «Dal momento in cui ha scelto di non aderire al Pdl e di correre - con coraggio, va detto - un'avventura politica autonoma, l'ex esponente della Democrazia Cristiana ha fondato la sua politica unicamente sulla previsione dello sfaldamento, della disgregazione e della dissoluzione dell'attuale sistema politico. L'Udc scommette ancora una volta sul dopo Berlusconi, nella convinzione che solo Berlusconi mantiene in vita sia il Pd che il Pdl». Secondo il coordinatore del Popolo della Libertà, «si tratta in realtà di un'analisi grossolana e semplicistica dei cambiamenti avvenuti nel corso di questi ultimi vent'anni, sulla base di una certa superbia della politica, che alla fine si rivela soltanto velleitaria e inconcludente».


Per comprendere quanto l'analisi del ministro colga nel segno basta osservare le ultime mosse dell'Udc in vista della definizione delle alleanze per le elezioni regionali del marzo prossimo. Alleanze, come si suol dire, «a macchia di leopardo», che rispondono alla vecchia politica dei due forni, un po' di qua e un po' di là, con il fine - esplicitamente dichiarato dallo stesso Casini - di destrutturare l'attuale quadro bipolare. Così, se nel Lazio e in Calabria, ad esempio, l'Udc si dice pronta a sostenere i candidati governatori indicati dal centrodestra (Renata Polverini e Giuseppe Scopelliti), in Puglia e in Piemonte il partito centrista appoggerà i candidati del centrosinistra (Francesco Boccia - in verità ancora incerto - e Mercedes Bresso). In tutti i casi si tratta di scelte che puntano a portare scompiglio nei due schieramenti. Per quanto riguarda il centrodestra, infatti, Pier Ferdinando afferma di voler sostenere Polverini e Scoppeliti non in forza di un accordo politico con i partiti che compongono la coalizione, bensì in ragione della sola credibilità e autorevolezza dei candidati; detta fuor di politichese: il leader dell'Unione di Centro pensa che appoggiando due esponenti di spicco della cosiddetta «area finiana» del Pdl potrà smuovere le acque nel partito di maggioranza ed alterarne gli equilibri interni in direzione antiberlusconiana. Per quanto riguarda il centrosinistra, prendendo in esame soprattutto l'alleanza che si profila in Puglia, Casini mira a separare in maniera definitiva il Partito Democratico dalla sinistra radicale, spingendolo verso una nuova aggregazione che tagli fuori le estreme e si candidi a governare il paese dal centro, come la Democrazia Cristiana ai tempi della Prima Repubblica: sarebbe una nuova edizione del centro-sinistra (col trattino) alla quale, secondo il capo dell'Udc, potrebbero aggregarsi ampi settori del Popolo della Libertà dopo l'uscita di scena di Berlusconi.


Come si vede, il punto a cui tendono le variegate alleanze dell'Udc è sempre lo stesso (il «dopo-Berlusconi»), perché identico è il punto da cui esse si dipartono: l'idea che l'attuale bipolarismo sia una forma politica fittizia, che si regge soltanto sulla presenza del Cavaliere sulla scena e che è destinata a lasciare il posto al ritorno del bel tempo che fu. In sostanza, Casini è convinto che dopo Berlusconi il sistema fondato sul rapporto diretto tra leader degli schieramenti e popolo si sfalderà e tornerà in auge il primato dei partiti nel decidere le sorti della Repubblica e delle sue istituzioni - da qui la preferenza dell'Udc per un sistema elettorale di stampo tedesco, che faccia piazza pulita di ogni tendenza presidenzialista. Tirando le somme, Pier Ferdinando ritiene che quella che ha avuto inizio nel 1994 sia soltanto una (triste) parentesi per la storia politica italiana, che egli vede caratterizzata ontologicamente dalla centralità dei partiti e che ad essa deve sempre fare ritorno. Da qui la sua strategia volta a scomporre gli schieramenti e a seminare zizzania all'interno di essi.


Come Casini pensi di realizzare l'obiettivo finale di tale strategia è difficile a dirsi. Non soltanto perché i numeri vanno in direzione opposta da quella da lui indicata, con il 70% dei voti degli italiani che si concentra su due partiti alternativi in una logica tipica delle grandi democrazie, ma anche e soprattutto perché, come afferma Bondi, il leader dell'Udc non vede - o finge di non vedere - come negli ultimi sedici anni il paese sia cambiato e come gli elettori abbiano ormai abbracciato senza indugi la chiarezza insita in un moderno sistema bipolare, nel quale si contrappongono due grandi schieramenti diversi per programmi, storia e valori. Tutto il resto è caos.


Gianteo Bordero

sabato 9 gennaio 2010

VERSO LA BEATIFICAZIONE DI GIOVANNI PAOLO II

da Ragionpolitica.it del 9 gennaio 2010

Tra i decreti della Congregazione delle Cause dei Santi promulgati da Benedetto XVI il 19 dicembre scorso vi era anche quello riguardante il riconoscimento delle virtù eroiche di Papa Giovanni Paolo II. La firma di Ratzinger ha aperto così la strada alla beatificazione del pontefice polacco, che potrebbe avere luogo già nel 2010, a soli cinque anni di distanza dalla sua morte, avvenuta il 2 aprile del 2005. Acclamato «santo» a furor di popolo già durante i suoi funerali, secondo modalità tipiche dei secoli antichi della Chiesa cattolica, Papa Wojtyla è stato sin dal giorno del suo decesso oggetto di una venerazione che in questo lustro non ha avuto soluzione di continuità. A pregare e a chiedere grazie sulla sua tomba in San Pietro si sono recate e si recano quotidianamente migliaia di persone, per le quali la figura, gli atti e il magistero di Giovanni Paolo II hanno rappresentato l'occasione per una riscoperta del fatto cristiano nella sua integralità, senza «aggiustamenti» di sorta e senza le fumose astrazioni tipiche di una certa teologia post-conciliare. Detta in altri termini: attraverso il Papa polacco i cattolici hanno potuto toccare con mano che cosa significhi l'immedesimazione con Cristo, il mistero della persona umana trasformata e innalzata dall'incontro con Gesù di Nazareth.


Potremmo chiamarla «dimensione mistica» del cristianesimo. Esso infatti - per usare le parole dell'allora cardinale Ratzinger - prima ancora di essere una «religione», una «dottrina», un «seguito di leggi morali», un «complesso di riti», è «un fatto, un avvenimento». Cioè l'incontro col Dio che si è fatto uomo e che ha donato tutto se stesso affinché «l'uomo diventasse Dio», secondo l'espressione di Sant'Ireneo. Questa «dimensione mistica» è stata propria dell'uomo Karol Wojtyla prima e del Papa Giovanni Paolo II poi, ed è stata ben sottolineata nel corso di una recente puntata della trasmissione Porta a Porta. La «mistica wojtyliana» è stata descritta dallo scrittore e giornalista cattolico Vittorio Messori e dall'arcivescovo di Bologna, cardinale Carlo Caffarra, attraverso l'immagine di uomo che, in qualunque momento lo si incontrasse, dava l'impressione di essere in preghiera, cioè di vivere una intima e particolare relazione con Cristo, di essere in perenne dialogo con Lui.


Questo aspetto dell'esperienza spirituale di Giovanni Paolo II è apparso con maggiore forza ed evidenza negli ultimi anni del suo pontificato, gli anni della malattia, dell'infermità e del dolore, fino agli ultimi drammatici giorni dell'agonia. Ma esso è sempre stato presente nell'opera del grande Papa polacco, nelle pieghe di ogni sua scelta, di ogni sua iniziativa, di ogni suo gesto. Anche in quelli apparentemente più «politici», come, ad esempio, il contributo dato alla disgregazione del sistema sovietico, nel quale egli vedeva non soltanto un fenomeno storico ed economico, ma anche e soprattutto una minaccia spirituale per gli uomini, finalizzata ad estirpare dal cuore dei popoli europei - e non solo - il legame col cristianesimo e, assieme ad esso, il rapporto con Dio, con la fonte sorgiva dell'essere e della persona.


Ed è proprio questo termine, «persona», che in Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II lega dimensione mistica, dimensione culturale, dimensione politica. Perché se l'avvenimento cristiano è innanzitutto il rapporto totalizzante con la Persona di Gesù, allora anche la persona umana e la sua esperienza storica, alla luce dell'incontro con Cristo, assumono un valore incommensurabile prima sconosciuto. Ciò rende possibile il superamento della frammentazione dell'esistenza in una molteplicità di aspetti tra loro non comunicanti e, sopratutto, pone fine alla dicotomia tra fede e vita - rischio sempre presente in un'idea di cristianesimo disincarnata dall'esperienza concreta dei singoli e delle comunità. Quanto più è intenso il rapporto tra la persona umana e la Persona di Cristo, tanto più la vita dell'uomo assume un volto unitario, a immagine e somiglianza di quello di Gesù. E' questo il cuore dell'esperienza e dell'annuncio di Giovanni Paolo II, che gli ha permesso di rendere Cristo così tangibile e così vicino agli uomini del suo tempo.


Gianteo Bordero

giovedì 7 gennaio 2010

NÉ OROSCOPI NÉ PREVISIONI ECONOMICHE. LA LIBERTÀ VIENE PRIMA

da Ragionpolitica.it del 5 gennaio 2010

Benedetto XVI ha fatto dell'Angelus domenicale un'occasione per proporre e riproporre in poche parole - cinque minuti soltanto di discorso - le verità fondamentali del cristianesimo presentate dalle letture e dalla liturgia del giorno. E' il modello perfetto dell'omelia, che va al cuore dell'annuncio cristiano e lo offre con gioia e semplicità, ma senza edulcorazione alcuna, all'uomo del nostro tempo. Così la scorsa domenica, prima del 2010, il Papa ha parlato del procedere del tempo storico (un nuovo anno che incomincia, con le attese e le speranze che l'accompagnano) alla luce della scansione del tempo liturgico (il tempo di Natale che per la Chiesa si conclude con la memoria del battesimo di Gesù). E ha mostrato come quest'ultimo sia in grado di illuminare e riempire di significato il primo. In altre parole: il mistero cristiano dell'incarnazione, del «Verbo che si è fatto carne», svela il senso del cammino storico dell'umanità e di ogni singola persona. La storia di Dio entra nella storia dell'uomo, il tempo divino entra nella dinamica del tempo umano, e quindi dell'esistenza degli individui e dei popoli, non per cancellarne la drammaticità, bensì per accompagnarla con discrezione verso il suo fine ultimo.


Il cristianesimo, così, supera da un lato la «generica religiosità» e, dall'altro, il «fatalismo». Perché qui non siamo di fronte a un Dio ignoto e senza volto, e neppure a un Destino oscuro che prestabilisce e predetermina ogni passo della storia umana e della vita della persona. Per l'annuncio cristiano, infatti - ricorda Benedetto XVI richiamandosi alle tre letture bibliche del 3 gennaio - «Dio non è soltanto creatore dell'universo - aspetto comune anche ad altre religioni - ma è Padre, che "ci ha scelti prima della creazione del mondo, predestinandoci ad essere per lui figli adottivi"». E' per questo che Egli «è arrivato fino al punto inconcepibile di farsi uomo». Da qui sgorga la vera speranza dell'umanità: «La storia ha un senso, perché è abitata dalla Sapienza di Dio».


Ma ciò non comporta in alcun modo una riduzione o una contrazione della libertà dell'uomo: non sono tolte, come per magia, le asperità del cammino, la fatica del vivere e dello scegliere; non è spazzata via la possibilità di un rifiuto, il voltare le spalle all'incontro con il Nazareno. Né è fatta fuori la responsabilità, cioè il dovere di rispondere alla chiamata di Cristo. Allo stesso modo, non è cancellata la gioia che nasce dal dire «sì», dall'aderire al mistero d'amore di un Dio che dona tutto se stesso per la salvezza dell'uomo, per la sua felicità. In sostanza: «Il disegno divino - dice il Papa - non si compie automaticamente, perché è un progetto d'amore, e l'amore genera libertà e chiede libertà. Il Regno di Dio viene certamente, anzi, è già presente nella storia e, grazie alla venuta di Cristo, ha già vinto la forza negativa del maligno. Ma ogni uomo e donna è responsabile di accoglierlo nella propria vita, giorno per giorno».


Ed è qui, sul terreno della libertà, che si incontrano infine il tempo storico e il tempo liturgico, l'inizio del 2010 e il Natale di Gesù. Circondati dagli oroscopi e dai vaticini di maghi ed astrologi, sommersi dalle previsioni degli economisti, sembra che il percorso del nuovo anno sia già segnato in partenza e che sia in balìa di un Fato tanto rigido quanto lontano da ogni possibilità di modifica da parte del singolo e delle comunità. Certo - afferma Benedetto XVI - «i problemi non mancano, nella Chiesa e nel mondo, come pure nella vita quotidiana delle famiglie. Ma, grazie a Dio, la nostra speranza non fa conto su improbabili pronostici e nemmeno sulle previsioni economiche, pur importanti. La nostra speranza è in Dio». Queste e le precedenti parole del Papa non sono soltanto la riaffermazione di una secolare verità di fede, ma anche la riproposizione del confortante principio laico - e se vogliamo illuminista - secondo cui alla libera iniziativa, alla responsabilità, alla creatività dell'uomo, e non alla superstizione e al Destino «cinico e baro», sono in buona parte affidate le sorti della società e del mondo. Nessuna crisi è mai veramente definitiva, se l'uomo non perde se stesso e non taglia le sue radici.

Gianteo Bordero