martedì 26 gennaio 2010

IL FANTASMA DI PRODI

da Ragionpolitica.it del 26 gennaio 2010

Lo scorso agosto, in piena stagione balneare, nella penuria di notizie politiche salì agli onori delle cronache un editoriale di Romano Prodi pubblicato dal Messaggero, e intitolato: «Riformisti, il coraggio di parlare controcorrente». Fu un osservatore attento come Piero Sansonetti, direttore de Gli Altri, a sottolineare come l'intervento prodiano avrebbe potuto rappresentare una sorta di manifesto per un nuovo centrosinistra italiano. Perché il Professore, nel suo articolo, non soltanto proponeva come chiave di lettura della crisi della gauche in Europa la tesi dello spostamento a destra dei governi progressisti e laburisti degli ultimi dieci anni, in primis quello di Tony Blair, ma tracciava anche le linee-guida per dare vita ad una nuova politica per la sinistra: «Per vincere - scriveva - i riformisti debbono elaborare nuove idee e nuovi progetti... Ribadendo con forza il ruolo dello Stato come regolatore di un mercato finalmente pulito. Approfondendo i modi e gli strumenti attraverso i quali i cittadini abbiano uguali prospettive di fronte alla vita. Rinnovando il funzionamento del sistema scolastico, della ricerca scientifica e del sistema sanitario. Ripensando al grande processo di superamento del nuovo nazionalismo politico ed economico con una forte adesione agli obiettivi di coesione europea e di solidarietà internazionale. Non avendo paura di denunciare i tanti aspetti riguardo ai quali il capitalismo deve profondamente riformarsi. Non accontentandosi di mostrare un giorno la faccia feroce e il giorno dopo un viso sorridente verso gli immigrati, ma preparando una organica politica di legalità ed accoglienza». A leggere queste parole, e tenendo conto del vuoto di identità e dello stato di grave difficoltà in cui versavano il Pd e gli altri partiti della sinistra nel nostro paese, la domanda sorse in noi spontanea: «E se tornasse Romano?».


Perché è indubitabile che Prodi, nell'immaginario e nel sentimento collettivo di un elettorato gauchista ormai privo di punti di riferimento solidi e credibili, rappresenti ancora - e forse oggi più di prima - il simbolo della vittoria, dell'entusiasmante «stagione dell'Ulivo», della piazza festante del 1996, dell'aprile rosso, della sinistra che entrava nella stanza dei bottoni, dell'inveramento del progetto del compromesso storico tra cattolici e comunisti, dell'affermazione sul Cavaliere Nero, ecc... Di fronte alle macerie del presente, la figura del Professore svetta come l'icona dei fasti del passato. E poco importa, in questo processo psicologico di idealizzazione e di mitizzazione del tempo che fu, che lo stesso Prodi sia stato all'origine della crisi attuale proponendo prima e costruendo poi, come unica forma di governo possibile della sinistra in Italia, la grande alleanza antiberlusconiana, che tenesse insieme, senza alcun progetto politico condiviso, ma soltanto in nome dell'avversione all'uomo di Arcore, i moderati e i massimalisti, i liberisti e gli anticapitalisti, i riformisti e i peggiori conservatori dello status quo, i garantisti e i giustizialisti, i cattolici e i laicisti e via giustapponendo. Non c'è razionalità politica in questa nostalgia per gli anni del prodismo, dell'ulivismo rampante e poi dell'Unione, che semmai dovrebbero essere interpretati, a mente fredda, come i veri colpevoli del declino della gauche nostrana e della pesantissima sconfitta elettorale del 2008.


Ma c'è un dato in più di cui tenere conto oggi: evocare Prodi serve agli avversari interni dell'attuale leadership del Partito Democratico come argomento di lotta e di polemica per dimostrare l'inefficacia e l'inconcludenza della gestione che ha preso il via nello scorso mese di ottobre. Tanto più dopo la straripante vittoria di Nichi Vendola nelle primarie pugliesi per la designazione del candidato del centrosinistra alla guida della Regione: la partita tra Boccia e Vendola è consistita, in sostanza, nella scelta tra il nuovo centro-sinistra (col trattino) fortemente caldeggiato da Bersani e D'Alema, e fondato sull'asse tra il Pd e l'Udc, e il vecchio centrosinistra (senza trattino) capace di inglobare al suo interno tutte le forze di opposizione, estrema sinistra compresa. Buona parte dell'elettorato pugliese del Pd, votando contro le indicazioni della segreteria romana, schierata al fianco di Boccia, ha mostrato di essere ancora legata a quella formula di cui Prodi è stato il supremo rappresentante. Perciò non deve destare scalpore il fatto che il vero grande oppositore interno di Bersani e D'Alema, e cioè il giornale-partito La Repubblica, sia uscito martedì in prima pagina con un'intervista al Professore dal titolo: «Prodi: "Ma chi comanda nel Pd?"». L'ex presidente del Consiglio non pronuncia direttamente quella frase - lui si guarda bene dall'avanzare una critica esplicita a Bersani - ma la mette in bocca ai militanti del partito incontrati mentre era a sciare a Campolongo, «in fila per lo skilift». Ma la sostanza non cambia: il Professore asseconda la strategia di Repubblica, che, dopo aver cannoneggiato lunedì contro il segretario e il suo mentore D'Alema, completa l'opera martedì attraverso il «colloquio» con Prodi. Il messaggio è chiaro: o si torna ai gloriosi tempi dell'Unione antiberlusconiana, oppure per il Pd e per la sinistra la permanenza all'opposizione potrebbe durare sino a data da destinarsi. Lui, Romano, non tornerà: «Abbiamo già dato», dichiara al giornale scalfariano. Ma il suo fantasma continuerà ad aleggiare attorno alla leadership del Pd per molto tempo ancora. Salvo sorprese.


Gianteo Bordero

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