sabato 31 ottobre 2009

E RUTELLI SE NE VA

da Ragionpolitica.it del 31 ottobre 2009

E così la Margherita è definitivamente sfogliata: Rutelli soffia sull'ultimo petalo rimasto e la sentenza è inappellabile: «Non m'ama». Sì, il Pd di marca bersaniana non è proprio la casa del bel Francesco, o Cicciobello che dir si voglia. Lui stesso lo dichiara nell'intervista con la quale annuncia, sul Corriere della Sera, il suo addio al «partito mai nato»: «Abbiamo posto tre condizioni, sospendendo l'attività della Margherita: niente approdo nel socialismo europeo; ma siamo finiti lì. Basta collateralismo, basta vecchie cinghie di trasmissione tra politica, corpi sociali, interessi economici; ma le file organizzate di pensionati Cgil, alle primarie, dimostrano che non ne siamo fuori. Pluralismo politico; ma anziché creare un pensiero originale, si oscilla tra babele culturale e voglia di mettere all'angolo chi dissente».


Che Rutelli stesse per abbandonare il Pd era ormai diventato il segreto di Pulcinella della politica italiana, e solo alcune dichiarazioni sibilline degli ultimi giorni avevano lasciato qualche addetto ai lavori ancora col fiato sospeso. Ma la strada era segnata già da tempo, come da tempo era più che evidente il disagio dell'ex sindaco di Roma all'interno di un partito che è diventato tutto ciò che egli voleva non diventasse. Memorabile la sua battuta di qualche tempo fa: «Se il Pd accetta di essere sistematicamente definito "la sinistra", più che bollito è fritto». Del resto, la critica ai socialdemocratici fuori tempo massimo è un cavallo di battaglia di Rutelli almeno dal 2005. Cioè da quando, durante un convegno a Fiesole, fece il gioco della torre è gettò la «socialdemocrazia» tra i rottami della storia. Il suo ragionamento si può riassumere così: la socialdemocrazia appartiene ormai ai tempi andati, è un simbolo di ciò che oggi non c'è più, cioè il Novecento non soltanto in senso cronologico, ma soprattutto culturale e politico. Perciò riproporla ora - come fa Bersani - è un'operazione destinata inevitabilmente a fallire.


E allora Francesco va via. «Subito - dice - anche se con dolore». Perché il Pd «è stato il sogno di molti anni». Evidentemente un sogno incompreso, se è vero che le posizioni espresse da Rutelli da un po' di tempo a questa parte sono state sistematicamente osteggiate dalla maggioranza del partito, sia che si trattasse di questioni politico-strategiche, sia di agende economiche, sia di temi etici. Cicciobello proponeva e il Pd cassava. Senza contare gli attacchi provenienti dalle parti della sinistra massimalista - la stessa con la quale oggi Bersani vuole riallacciare i fili del dialogo - che ha sempre dipinto l'ex segretario della Margherita come una sorta di infiltrato della destra e del Vaticano nel sacro suolo della gauche dura e pura. Tira un giorno, tira l'altro, ecco che la corda s'è spezzata.


Sciolto l'ormeggio, Rutelli riprende ora il suo viaggio nel mare magnum della politica italiana. Un viaggio che, partendo dal Partito Radicale di Marco Pannella, lo ha portato negli anni ad approdare nei Verdi, poi sul Campidoglio, poi nella Margherita e infine nel Pd. Oggi la direzione sembra segnata: il bel Francesco fa vela verso Pierferdinando Casini. Dice al Corriere: «Casini è un interlocutore essenziale. Ed è giusto guardare lontano: con proposte serie, si può puntare a unire molte altre energie. Sino a creare, in alcuni anni, la prima forza del paese». Un obiettivo ambizioso, ma intanto sognare è gratis, e così Rutelli benedice il «Manifesto per il cambiamento e il buongoverno» promosso nei giorni scorsi da Lorenzo Dellai, presidente della Provincia di Trento, a cui si sono aggregati Massimo Cacciari, Linda Lanzillotta, Bruno Tabacci e altri sei navigatori coraggiosi. Ai quali si potrebbe aggiungere anche Gianni Vernetti, ex sottosegretario agli Esteri del governo Prodi. E così sarebbero in 11 a tentare con Francesco, in attesa di Pierferdi, la nuova traversata verso la terra ignota, il mitico luogo «oltre la destra populista e la sinistra socialdemocratica». Vengono in mente le parole di una canzone di Bennato: «Poi la strada la trovi da te, porta all'isola che non c'è». A meno che questo non sia l'ennesimo cavallo di Troia per riproporre sotto mentite spoglie il vecchio e caro centro-sinistra col trattino. Chi vivrà, vedrà...

Gianteo Bordero

giovedì 29 ottobre 2009

DALLA CAMERA IL PRIMO SÌ AL «GIORNO DELLA MEMORIA DEI CADUTI IN MISSIONI INTERNAZIONALI»

da Ragionpolitica.it del 29 ottobre 2009

Martedì è arrivato dalla Camera dei Deputati il primo sì al progetto di legge che istituisce il «Giorno della memoria delle vittime di Nassiriya e di tutti i militari e civili italiani caduti in missioni internazionali». I voti favorevoli sono stati 492, 22 gli astenuti. Il testo votato a Montecitorio fissa quale data per la celebrazione del ricordo il 12 novembre, anniversario della strage di Nassiriya del 2003, nella quale, in seguito all'attentato suicida condotto dai terroristi islamici, persero la vita dodici carabinieri e cinque soldati dell'esercito impegnati nell'Operazione «Antica Babilonia», oltre che due civili di una troupe sul posto per girare un documentario. La legge prevede che, in occasione della ricorrenza, «le amministrazioni pubbliche possono organizzare cerimonie commemorative e celebrative e possono favorire, in particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, la promozione e l'organizzazione di studi, di convegni e di momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione su quanto accaduto e sul valore del sacrificio dei caduti nelle missioni internazionali per la pace».


Quella assunta dalla Camera è una decisione che riveste due importanti significati: il primo è quello che riguarda il dovere della memoria, del necessario ricordo di tutti coloro che, impegnati nelle missioni internazioni di peace-keeping, sono morti sotto i colpi del terrorismo: giovani che hanno servito la nazione fino all'estremo sacrificio della vita; soldati che, oltre ad una elevata professionalità ormai riconosciuta dai maggiori partner internazionali dell'Italia, possedevano un altrettanto elevato senso di umanità che consentiva loro di essere visti dalle popolazioni locali non come nemici e invasori, ma come amici e liberatori. Un dato, quest'ultimo, che ci deve ancora oggi far tenere bene in mente la carica di odio e di disprezzo totale della vita che è insita nel fondamentalismo islamico, in qualsiasi Stato e a qualunque latitudine esso tenti di portare a compimento i suoi disegni di distruzione della civiltà. «Distruggere per distruggere - osservava Gianni Baget Bozzo nel settembre 2003 - è la tecnica politica del nichilismo, e il terrorismo islamico lo manifesta con grande chiarezza».


Il secondo significato insito nel testo approvato a Montecitorio è quello culturale ed educativo: sollecitare l'organizzazione di momenti di studio e approfondimento nelle scuole vuol dire favorire l'affermazione di un rinnovato sentimento di appartenenza alla patria, con tutto ciò che esso comporta in termini di conoscenza della nostra identità, della nostra storia, dei valori che stanno alla base della nostra civiltà. Che ciò avvenga proprio attraverso un Giorno del ricordo dei nostri militari caduti nelle missioni internazionali può rappresentare un punto di svolta dopo i lunghi decenni della demonizzazione della figura del soldato, punta dell'iceberg di una più vasta operazione di delegittimazione del concetto stesso di patria e di contestuale esaltazione di un pacifismo «politicamente corretto» che di certo non ha contribuito a far crescere nei giovani l'amore per la nazione e l'orgoglio dell'essere italiani.


Da questo punto di vista, non è casuale che l'iniziativa legislativa per istituire il Giorno della memoria provenga dalla coalizione di centrodestra e dal governo Berlusconi, ossia da chi, in questi ultimi anni, in particolar modo a partire dall'11 settembre 2001, ha fatto della difesa della civiltà occidentale e della promozione dei valori di libertà e democrazia il cardine della sua politica estera. Una politica dell'impegno al fianco dell'Occidente, contrapposta a quella del disimpegno praticata dai governi della sinistra, in particolare dal governo Prodi. Che la cultura dell'identità italiana e dell'appartenenza alla civiltà occidentale si possa oggi diffondere, anche grazie al Giorno della memoria, nelle scuole della Penisola è un altro contributo importante che il centrodestra dà alla nascita di un nuovo sentimento nazionale, più che mai necessario in tempi difficili come quelli che stiamo attraversando.

Gianteo Bordero

martedì 27 ottobre 2009

SEGRETARIO DOPO SEGRETARIO...

da Ragionpolitica.it del 27 ottobre 2009

Dalla nascita della Repubblica alla caduta del Muro di Berlino il Partito Comunista italiano vide avvicendarsi alla sua guida cinque segretari (Togliatti, Longo, Berlinguer, Natta, Occhetto). In media, nove anni per segretario. Dalla dissoluzione del PCI ad oggi i capi del partito postcomunista nelle sue varie denominazioni (Pds, Ds, Pd) sono stati - escluso l'ultimo arrivato Bersani - sei (Occhetto, D'Alema, Veltroni, Fassino, ancora Veltroni, Franceschini). In media, tre anni cadauno. Anche da questi numeri emerge lo stato confusionale nel quale si è trovata dopo il 1989 la sinistra erede del Partito Comunista, che ha consumato uno dopo l'altro, dopo averli osannati e incensati come i nuovi campioni delle «magnifiche sorti e progressive», i suoi leader. Scissioni, liti interne, inimicizie, rancori personali, duelli senza esclusione di colpi si sono moltiplicati stagione dopo stagione, anno dopo anno, lustro dopo lustro. Mentre tutt'attorno il mondo cambiava, come cambiava in tanti paesi la politica della sinistra orfana di Marx, i nipotini di Togliatti si contorcevano, tutti ripiegati su se stessi, in spietate lotte di potere, convinti che significasse ancora qualcosa tenere in mano il glorioso «corpaccione» del Partito, senza rendersi conto che l'anima era andata ormai perduta.


Non che nei decenni precedenti fossero mancate le guerre interne, anzi. Soltanto che esse venivano abilmente mascherate - e tacitate - sotto il velo del centralismo democratico, in nome dell'unità attorno all'ideale supremo, della rivoluzione da compiere, del mondo da rivoltare come un calzino per instaurare la dittatura del proletariato. Crollati i sogni, le utopie, le speranze, venuta meno la «spinta propulsiva», esauritesi la motivazione interiore, la tensione quasi religiosa per adempiere la missione, la fede nel verbo rosso, è dunque rimasta soltanto una snervante e massacrante lotta per il potere fine a se stesso. Il potere per il potere. Mentre un elettorato sempre più disilluso, spaesato e incerto abbandonava, elezione dopo elezione, l'antica casa madre, i dirigenti postcomunisti si concentravano unicamente in un'assurda battaglia autoreferenziale, pestandosi i piedi a vicenda, delegittimandosi l'un con l'altro, trasformando il loro impegno politico in una disperata caccia al Nemico interno.


Così le parole d'ordine di un tempo (la militanza, la vita di sezione, la tessera in tasca), svuotate del loro significato storico e carnale, sono diventate gli strumenti con cui tenere in vita il guscio del partito, senza però curarsi dello stato di salute interiore. Il quale è andato, giorno dopo giorno, peggiorando. E non sono servite le iniezioni «nuoviste» del cambio di nome, non è servito il maquillage per rendere affascinante un volto sfatto e rugoso, non è servita la chirurgia estetica su un corpo ormai flaccido e decadente. Quanto più si è voluto accelerare in questa direzione, senza avere a cuore l'anima politica del partito, tanto più i risultati sono stati disastrosi.


Basti pensare al Partito Democratico, che in due anni appena di vita si ritrova oggi ad avere il suo terzo segretario dopo la lunga guerra civile che ha portato prima all'affossamento di Veltroni e poi del suo epigono Franceschini da parte del sempiterno Massimo D'Alema. Il quale, pilotando Pierluigi Bersani alla guida del Pd, si ritrova oggi ad essere il vero simbolo della continuità col passato. Una continuità che, come abbiamo visto, non riguarda l'ideologia politica - ormai talmente vaga ed incerta da non essere neppure più definibile - ma unicamente la gestione interna del potere, la difesa degli apparati, il controllo delle sedi sul territorio, il mantenimento di una rete di «pacchetti elettorali» tale da garantire la sopravvivenza del partito. E' la solita illusione del postcomunismo italiano: pensare che il buon funzionamento della struttura possa supplire alla mancanza di idee, di progetti di governo, di radicamento nella mente e nel cuore del popolo - l'unica cosa che, in democrazia, conta veramente. Avanti il prossimo.


Gianteo Bordero

sabato 24 ottobre 2009

RIFORMA DELLO STATO. SINISTRA ALLA PROVA

da Ragionpolitica.it del 24 ottobre 2009

Ricevendo giovedì al Quirinale una delegazione dell'ANCI, l'Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rilanciato il tema della riforma delle istituzioni, affermando che essa «è indispensabile». Ed ha aggiunto: «Da troppo tempo queste questioni sono state anche largamente istruite e non si riesce ad arrivare a sbocchi che sono essenziali». A differenza di qualche suo predecessore, in particolare di Oscar Luigi Scalfaro, il quale durante il suo settennato contribuì ad alimentare il mito della Costituzione «sacra ed inviolabile», l'attuale inquilino del Colle ha scelto una linea riformista che può contribuire a creare uno spazio reale di incontro tra le forze politiche interessate a modernizzare l'architettura dello Stato.

Ora, il punto è questo: esiste davvero, tale volontà, nei partiti attualmente rappresentati nel parlamento italiano? Purtroppo dobbiamo prendere atto che, se da un lato la coalizione di centrodestra ha già da tempo formulato proposte di revisione della Costituzione per aggiornarne il testo tenendo conto dei mutamenti materiali di cui esso è stato oggetto da quindi anni a questa parte, dall'altro lato, a sinistra, sembra dominare un conservatorismo miope e fine a se stesso, che risponde con una lunga teoria di «no» ad ogni ipotesi di modifica costituzionale e istituzionale, gridando alla «lesa maestà», al «tentativo di instaurare un regime», al «ritorno del fascismo» sotto le mentite spoglie berlusconiane. E' chiaro che non è possibile portare avanti un discorso serio di riforma dello Stato fino a che a sinistra perdurerà tale atteggiamento di dogmatico arroccamento ideologico.

Eppure - si dirà - aperture al dialogo e al confronto da parte della gauche nostrana c'erano state: in occasione della Bicamerale presieduta da Massimo D'Alema nel 1997; dopo il discorso di Walter Veltroni al Lingotto dieci anni dopo; da ultimo con la «bozza Violante» di cui ancora si discute in parlamento. Peccato soltanto che alle buone intenzioni non siano poi seguiti i fatti e che, quando si è trattato di dire un «sì» chiaro e distinto alla modifica dell'architettura istituzionale abbiano prevalso, nello schieramento di sinistra, i distinguo, i «ma» e i «se», le insanabili contraddizioni tra l'ala riformista e quella ideologicamente intransigente.

Questa schizofrenia dei partiti oggi all'opposizione riguardo al tema della cosiddetta «grande riforma» è emersa in maniera evidente in due frangenti della recente storia politica del paese. Primo: al termine della legislatura 1996-2001, ormai certa della sconfitta alle elezioni, nel disperato tentativo di sedurre la Lega Nord per una improbabile alleanza, la sinistra promosse, a colpi di maggioranza, la sciagurata modifica del titolo V della Costituzione, ampliando i poteri assegnati alle Regioni e creando un confuso sistema di materie concorrenti che comportò un'assurda moltiplicazione dei centri di spesa e una destrutturazione delle funzioni del governo centrale in questioni di rilevanza nazionale, oltre che una pioggia di ricorsi di attribuzione davanti alla Consulta.

Secondo episodio: quando, nella legislatura 2001-2006, vi fu la reale possibilità di un aggiornamento organico del sistema istituzionale grazie alla riforma promossa dal centrodestra, la gauche, cedendo agli animal spirits dell'antiberlusconismo fanatico che erano l'unico collante dell'Unione prodiana, si oppose in tutti i modi possibili e immaginabili, anche in vista delle elezioni politiche del 2006 che essa credeva di stravincere alimentando l'odio preconcetto nei confronti del Cavaliere. Dalle urne la vittoria netta non uscì, ma tanto bastò a far naufragare, col referendum costituzionale del giugno di quell'anno, il testo votato dall'allora Casa delle Libertà. Il dato che deve far riflettere è che uno degli argomenti propagandistici che vennero usati per combattere la riforma della Cdl fu quello secondo cui essa metteva a rischio l'unità nazionale, mentre era vero il contrario: e cioè che il centrodestra aveva tentato di mettere ordine al caos generato dalla già citata modifica del titolo V voluta della sinistra, e quindi di preservare l'unità nazionale messa a rischio dalla riforma gauchista. Se questa menzogna, da un lato, servì all'Unione per serrare i ranghi contro Berlusconi, dall'altro rivelò il modo strumentale di intendere la riforma costituzionale da parte della sinistra: quando torna utile a fini elettorali la Carta si può modificare senza scrupoli e senza remore; quando non si può andare subito all'incasso, invece, essa torna ad essere intoccabile e irreformabile.

Vedremo ora, dopo le parole del presidente della Repubblica, se l'attuale opposizione, erede dell'alleanza prodiana, riuscirà a dare un taglio netto con questo passato fatto di doppiogiochismo e di tatticismo fine a se stesso, iniziando a dialogare sul serio con la maggioranza, oppure continuerà a trattare una materia decisiva come quella della riforma dello Stato come strumento di propaganda contro il Nemico.

Gianteo Bordero

giovedì 22 ottobre 2009

QUELLI CHE VOGLIONO UCCIDERE BERLUSCONI

da Ragionpolitica.it del 22 ottobre 2009

Chissà perché gli amministratori di Facebook, solitamente solerti nel cancellare dal social network le pagine che incitano all'odio ideologico, religioso o razziale, non hanno ancora oscurato il gruppo «Uccidiamo Berlusconi», salito in questi giorni agli onori delle cronache nazionali all'interno del dibattito sulla sicurezza del premier. Mistero... Comunque sia, il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, ha annunciato nelle scorse ore di aver dato disposizioni «affinché il sito venga chiuso subito e tutti quelli che sono intervenuti siano denunciati alla magistratura. E' apologia di reato. Anzi peggio». Secondo il responsabile del Viminale, infatti, c'è il rischio che qualcuno possa passare dalle minacce verbali ai fatti, in un clima di odio che «può portare qualche mente malata ad ipotizzare azioni di questo tipo». Mercoledì era stato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ad augurarsi un intervento immediato della magistratura, ribadendo che esiste «un grande tema di sicurezza che riguarda la persona del presidente del Consiglio». L'inchiesta invocata dal Guardasigilli è stata aperta dalla Procura di Roma, che ha dato incarico alla Polizia Postale di chiedere ai gestori di Facebook di oscurare le pagine contenenti le minacce contro Berlusconi. La procura capitolina ha inoltre sollecitato gli amministratori del social network a fornire i dati riguardanti i responsabili delle minacce.

Intanto il gruppo telematico in questione continua a raccogliere adepti: nelle ultime ore sono saliti a 22.000. Uno dei membri, orgoglioso delle continue iscrizioni, commenta: «L'Italia si sta svegliando. Dai ragazzi, rimaniamo uniti». In tanti, dopo aver appreso le dichiarazioni del ministro Maroni citate in precedenza, fanno addirittura i martiri del regime e invocano la libertà di espressione richiamando l'articolo 21 della Carta costituzionale. Dimenticando che libertà d'espressione non significa libertà di insulto, libertà di minaccia e libertà d'istigazione alla violenza. Del resto, basta dare un'occhiata ai post che freneticamente, di minuto in minuto, vengono pubblicati sul social network per rendersi conto che qui non siamo di fronte a una normale manifestazione del pensiero, ma a un'esplosione di odio (per ora solo verbale) al di fuori di qualunque logica civile e democratica. Siamo, appunto, nel campo dei reati puniti dal diritto penale ogni volta che la persona si ritrova ad essere vittima di azioni che calpestino la sua dignità, la sua onorabilità e ne mettano a rischio l'incolumità.

Che i membri del gruppo «Uccidiamo Berlusconi» non se ne rendano conto, che addirittura ci scherzino su e, in tono di sfida nei confronti del ministro Maroni, si «autodenuncino» e scrivano «ci vediamo in tribunale» è la spia di quanto in basso i pasdaran dell'antiberlusconismo abbiano condotto il dibattito pubblico, trasformandolo in un'arena nella quale una moltitudine di fanatici toreri cerca di abbattere la vittima predestinata, costi quel che costi. Perciò non c'è da sorprendersi se in quest'aria polverosa e avvelenata dalla continua demonizzazione e delegittimazione morale ed esistenziale del presidente del Consiglio si moltiplichino i segnali di imbarbarimento come quello di cui ci stiamo occupando. Come ha affermato il portavoce del Popolo della Libertà, Daniele Capezzone, «la dose di odio sta superando la modica quantità e da questa cosa non può venire nulla di buono. E' un avvelenamento del dibattito pubblico».

Sarebbe ora che le forze di opposizione che a parole si dicono «responsabili» e «rispettose delle istituzioni» dimostrassero davvero di esserlo e contribuissero a svelenire un'aria che, giorno dopo giorno, si fa sempre più irrespirabile. Oggi è più che mai necessario, come ha sottolineato mercoledì il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, che tutti collaborino per «fermare questa campagna di odio che può provocare la riproposizione di forme di terrorismo nella nostra società». Infatti «si è diffuso talmente tanto di quel vento che è legittimo il timore che ne possa venire tempesta, in un paese che ha conosciuto per quarant'anni un terrorismo rosso ideologizzato».

Gianteo Bordero

martedì 20 ottobre 2009

NO ALL'ORA DI ISLAM NELLE SCUOLE ITALIANE

da Ragionpolitica.it del 20 ottobre 2009

Meglio non scherzare col fuoco e cercare di capire perché la proposta di introdurre un'ora facoltativa di religione islamica nelle scuole italiane, avanzata sabato dalla fondazione «Farefuturo», non può essere accolta. Innanzitutto occorre ricordare che l'insegnamento della religione cattolica negli istituti scolastici del nostro paese è regolata da un Concordato tra la Chiesa e lo Stato, tra la gerarchia cattolica e i vertici istituzionali italiani. Ora, è del tutto evidente che, stante l'attuale normativa (fondata sull'articolo 8 della Costituzione), anche l'inserimento di un'ora di islam non potrebbe non seguire questa dinamica concordataria ed essere organizzato senza un previo Patto con le massime autorità musulmane, al fine di specificare natura e limiti dell'insegnamento della loro religione nelle scuole italiane e di stabilire il metodo di reclutamento dei docenti. Purtroppo si dà il caso che l'islam non conosca al suo interno una gerarchizzazione come quella che caratterizza la Chiesa cattolica, come neppure conosce la stessa idea di Chiesa come istituzione, che invece è connaturata al cristianesimo. E neanche è possibile paragonare l'imam al sacerdote cattolico che amministra i sacramenti dopo un percorso che lo ha portato all'ordinazione sacra. L'islam non ha un clero che «media» tra l'uomo e Dio: è immediato nel rapporto tra Allah e il «sottomesso» (così la religione musulmana considera il fedele). E' chiaro, rebus sic stantibus, che risulta impossibile addivenire a una qualche forma di Concordato con l'islam simile a quella che regola le relazioni tra Stato italiano e Chiesa cattolica. A meno che non si vogliano considerare rappresentanti di tutta la comunità musulmana presente nel nostro paese gli imam delle moschee, le quali però sono frequentate da una minima percentuale di fedeli, che di solito è la più permeabile a un indottrinamento di stampo fondamentalista. Catapultare nelle aule scolastiche italiane questi imam sarebbe il più grande regalo per quei predicatori del venerdì che fomentano l'odio nei confronti della nostra civiltà, della nostra storia, della nostra società.

Secondo punto. «Farefuturo», nel formulare la sua proposta, parte dal presupposto del «ruolo positivo delle religioni all'interno di uno Stato laico, quale elemento importante nel processo formativo umano e culturale». Ora, anche qui siamo ai ragionamenti un tanto al chilo, se non alla riproposizione di uno dei cliché maggiormente abusati dal «politicamente corretto»: tutte le religioni sono buone in quanto tali. Con l'implicito corollario relativista che ne segue: ogni religione è vera relativamente al proprio credo perché nessuna religione possiede la verità assoluta, che non esiste. Non bisogna andar troppo lontano per sfatare questo mito buonista: chi di noi può ritenere «buona e vera» una religione che, ad esempio, prescrive ai suoi fedeli di uccidere i miscredenti, che considera la donna alla stregua di un oggetto nelle mani dell'uomo, che prevede (negli Stati in cui essa conquista il potere politico) una «imposta di sottomissione» per i seguaci di altre religioni? Inoltre, per quel che riguarda la questione della laicità a cui accenna il documento di «Farefuturo», è evidente che una religione non vale l'altra: il cristianesimo, che con le parole di Gesù («Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio») ha stabilito una netta distinzione tra sfera civile e sfera religiosa, ha al suo stesso interno i semi di una sana laicità e per questo il suo insegnamento in una scuola di Stato non pone problemi. Anzi: è un aiuto oggettivo a comprendere come e quanto un corretto rapporto tra fede religiosa e potere civile possa contribuire a rendere più umana, rispettosa e giusta la società. Altrettanto non si può dire dell'islam, che non conosce nulla di simile all'insegnamento di Gesù in materia di distinzione tra potere spirituale e potere temporale.

Terzo punto. Hanno ragione coloro i quali dicono che l'Italia ha la sua tradizione e la sua storia, ed è necessario che la scuola pubblica faccia in primis conoscere ai giovani tale tradizione e tale storia. Ciò riguarda tutti, sia gli studenti italiani sia gli studenti stranieri (musulmani in particolare, visto che molti figli d'immigrati provengono da paesi di cultura cristiana quali quelli dell'est europeo) che frequentano gli istituti statali. Considerato che la nostra nazione ha le sue peculiarità culturali e religiose, il primo dovere di chi frequenta la nostra scuola è confrontarsi con queste specificità, con questa ipotesi di lavoro, approfondendone lo studio e prendendo sul serio quanto essa ha trasmesso nel corso dei secoli per arrivare sino a noi, scegliendo infine se aderirvi o meno. Prima di proporre l'ora di islam, meglio sarebbe far bene conoscere le caratteristiche del nostro essere italiani. Altrimenti il rischio è quello di mettere sullo stesso piano tutte le culture e tutte le tradizioni religiose, come se fosse di nessuna importanza il dato storico ed empirico dell'appartenenza dell'Italia ad una in particolare di queste.

In tale direzione sembrano andare le dichiarazioni di coloro che da sinistra, in risposta all'idea lanciata da «Farefuturo», hanno parlato della necessità di introdurre, al posto dell'insegnamento della religione cattolica, una generica e «neutra» storia delle religioni: ora, a parte il fatto che i docenti di religione in ruolo nella scuola italiana già fanno, nelle loro lezioni, una breve storia delle varie esperienze religiose dell'umanità all'interno della quale inquadrare l'avvenimento cristiano, ciò avrebbe pesanti ripercussioni dal punto di vista pedagogico, perché finirebbe col relativizzare ogni punto di vista, trasformando la scuola in un supermarket multiculturale e multireligioso nel quale ognuno sceglie, senza troppo impegno e a livello meramente teorico, il prodotto del momento. E' un modello che ha già fallito in molti paesi europei e che di certo non aiuta l'integrazione: al contrario, favorisce la dis-integrazione delle identità nel nome di un relativismo che nulla costruisce ma tutto, nichilisticamente, distrugge.

Gianteo Bordero

sabato 17 ottobre 2009

SEMINATORI D'ODIO

da Ragionpolitica.it del 17 ottobre 2009

Immaginiamo per un attimo questa scena. A Palazzo Chigi siede un presidente del Consiglio del centrosinistra - mettiamo un redivivo Prodi - e un bel giorno un giovane dirigente del Popolo della Libertà apre la sua pagina su Facebook e scrive le seguenti parole: «Ma santo cielo, possibile che nessuno sia in grado di ficcare una pallottola in testa al Professore?». Che cosa accadrebbe? Come minimo, dopo cinque minuti il giovanotto si ritroverebbe sotto casa la Digos, i Carabinieri, l'Esercito, i militanti dell'Italia dei Valori, i lettori di Repubblica, i compagni al caviale e i reduci della falce e martello pronti a dare la caccia all'eversore, in difesa della democrazia, delle istituzioni e della libertà della nazione. Le penne dell'intellighenzia gauchista scriverebbero sùbito allarmati e concitati appelli alla Corte di Strasburgo, all'ONU e forse persino all'odiata NATO per allertarla sull'imminente pericolo per le sorti del Belpaese. Un dispiegamento di poliziotti, soldati e Caschi Blu farebbe immediatamente un bel girotondo attorno alla sede del governo a protezione del premier. In un batter d'occhio il parlamento sospenderebbe i suoi lavori. La televisione pubblica interromperebbe di colpo le regolari trasmissioni per fare dirette e non stop con inviati sul campo e centinaia di telecamere a seguire l'evolvere della situazione.

Fine del sogno. Torniamo nella realtà e che cosa vediamo? Vediamo il coordinatore dei giovani del Pd di Vignola, provincia di Modena, tal Matteo Mezzadri, che invoca su Facebook una «pallottola in testa per Berlusconi». E vediamo i suoi colleghi di partito che, dopo aver fatto rimuovere la scritta dal social network e aver fatto dimettere l'estensore dal suo incarico, minimizzano, sdrammatizzano, ricorrendo al vecchio adagio del «compagno che sbaglia» tanto caro al Partito Comunista ai tempi delle Brigate Rosse. Poi vediamo i giornali della sinistra (La Repubblica e L'Unità su tutte) che, invece di indignarsi e gridare ai quattro venti la loro preoccupazione democratica, come se niente fosse offuscano la notizia. Chi tace acconsente. E infine vediamo le trasmissioni cult della gauche nostrana, condotte dagli indomiti paladini della libertà d'espressione, che sorvolano, parlano d'altro, continuando tranquillamente nella loro quotidiana opera di delegittimazione totale del presidente del Consiglio. Alla faccia della completezza dell'informazione!

Che dire? Che evidentemente le minacce e le intimidazioni non possono essere definite tali se ad esserne oggetto è Berlusconi; e che il pericolo per la tenuta della democrazia esiste soltanto se sotto attacco finiscono gli uomini della sinistra, mentre quando nel mirino ci sono uomini della destra, e il Cavaliere in particolare, tutto va bene, madama la marchesa! E' davvero un quadro desolante. E preoccupante: non può lasciare tranquilli, infatti, una situazione nella quale le manifestazioni d'odio e d'incitazione alla violenza nei confronti di un capo del governo democraticamente eletto vengono ridotte a burletta o tollerate - quando non alimentate - da partiti presenti in parlamento che si dicono fedeli alle istituzioni, dalla maggioranza della sedicente «libera stampa» del paese e dalla quasi totalità delle principali trasmissioni televisive di approfondimento politico. E' veramente un brutto clima, che Vittorio Feltri, sul Giornale di giovedì, ha paragonato a quello dei primi anni Settanta, «quando si cominciò quasi per scherzo a invocare l'uso delle armi allo scopo di ottenere risultati meno banali di quelli strappati in parlamento dal Pci». Sappiamo tutti che cosa venne fuori da quelle che la sinistra catalogava allora come semplici «ragazzate». Quindi meglio non scherzare col fuoco, tanto più che negli ultimi giorni i segnali di odio e di chiamata alla rivolta in vecchio stile rosso contro Berlusconi si stanno purtroppo moltiplicando (si veda un recente articolo di Toni Negri - ospitato dalla rivista della fondazione dalemiana Italianieuropei - col suo richiamo ai moti contro il governo Tambroni), col risultato di intossicare ulteriormente un clima già saturo di veleni.

Se vi fosse nel nostro paese una sinistra seria e responsabile, essa contribuirebbe a placare i bollenti spiriti e chiamerebbe alla calma il suo popolo. Purtroppo, oggi non esistono più né la sinistra né il suo popolo e lo spazio lasciato vuoto è occupato dagli avvelenatori di pozzi, dagli spacciatori d'odio, dagli strateghi dell'abbattimento del Cavaliere Nero per via non democratica - per usare un eufemismo. La ritirata della sinistra dalla vera politica ha lasciato la scena agli urlatori fedeli al vecchio motto voltairiano aggiornato ai tempi odierni: «Minacciate, maledite, odiate. Qualcosa resterà».

Gianteo Bordero

giovedì 15 ottobre 2009

IL PARTITO DEMOCRATICO NON È LA CASA DEI CATTOLICI

da Ragionpolitica.it del 15 ottobre 2009

Il caso Binetti, scoppiato dopo il voto favorevole della deputata teodem alle pregiudiziali d'incostituzionalità della legge sull'omofobia, è l'ennesima dimostrazione dell'inesistenza di spazio politico reale, nel Pd, per i cattolici che restano fedeli alla dottrina della Chiesa e non intendono abdicare alla pienezza del credo in nome della «ragion di partito». Che la Binetti fosse poco o per nulla tollerata all'interno del centrosinistra è cosa nota da tempo, sin dal momento della sua scelta di candidarsi tra le file della Margherita alle elezioni politiche del 2006. Da allora l'ex presidente dell'associazione «Scienza e Vita» è stata presentata, nel suo stesso partito e nel suo stesso schieramento, come il simbolo del peggior integralismo cattolico, come l'icona del più rigido conservatorismo etico e bioetico, come la campionessa del rigorismo morale pre-sessantottino.


A dire il vero, che cosa c'azzeccasse la Binetti con una coalizione schierata pressoché all'unanimità su posizioni di segno opposto alle sue è una domanda che in molti si sono posti, e la risposta più plausibile che è stata data a tale quesito è quella secondo cui Paola la teodem abbia accolto un suggerimento del suo mentore, il cardinale Camillo Ruini, all'epoca presidente dei vescovi italiani, convinto della necessità di inserire qualche elemento di provata fedeltà dottrinale ed ecclesiale in una maggioranza che prometteva sfaceli su materie quali la famiglia, la tutela della vita sin dal suo concepimento, il testamento biologico, eccetera... In effetti, la strategia del «cardinal Sottile» si rivelò ancora una volta vincente, e l'inedita coppia Binetti-Mastella mise in più di una occasione i bastoni tra le ruote ai disegni di legge palesemente orientati a intaccare il tessuto di valori cristiani su cui si regge da secoli la nazione italiana.


Una di queste occasioni, in particolare, dovrebbe essere ricordata da tutti coloro che, nel centrosinistra, oggi si scandalizzano per le posizioni della Nostra in materia di omofobia, rovesciando su di lei ogni genere di improperio e minacciando la sua espulsione dal Partito (poco) Democratico. Correva il mese di dicembre del 2007, e al Senato era in discussione il decreto sicurezza varato in fretta e furia dal governo Prodi - e in seguito decaduto a causa delle troppe divisioni interne all'Unione - sull'onda emotiva suscitata in tutto il paese dall'omicidio della signora Giovanna Reggiani per mano di un rom. Ebbene, quando l'esecutivo decise di porre la questione di fiducia sul decreto, il voto della Binetti fu contrario. Non a motivo delle misure di contrasto alla criminalità urbana, bensì perché il governo aveva furbescamente inserito nel testo del provvedimento, al fine di renderlo «digeribile» dall'ala estrema della coalizione, in particolare da Rifondazione Comunista, un emendamento anti-omofobia che, oltre ad essere palesemente fuori contesto dal punto di vista formale, dal punto di vista sostanziale si presentava sia come una destrutturazione dell'articolo 3 della Costituzione («Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»), sia come un attacco culturale e antropologico al tradizionale principio della differenza sessuale, a favore invece di generiche «tendenze sessuali» delle persone. Sono esattamente gli stessi motivi che hanno spinto martedì l'onorevole teodem a votare insieme alla maggioranza la pregiudiziale di incostituzionalità sollevata dall'Udc.


La Binetti, dunque, è rimasta coerente con se stessa e con le sue più profonde convinzioni. Sarebbe stato preoccupante se avesse fatto il contrario di fronte ad una legge che, sostanzialmente, riproponeva la stessa visione sottesa all'emendamento del 2007. Ciò che invece deve far riflettere è il fatto che il Partito Democratico, che allora muoveva i suoi primi passi con Walter Veltroni alla segreteria, non è stato capace, in due anni, di trovare una sintesi politica in grado di accogliere anche le posizioni dei cattolici integralmente fedeli alla dottrina della Chiesa nelle materie etiche e bioetiche. Ad avere pieno diritto di cittadinanza nel Pd sembrano essere soltanto quelli che un tempo il Pci ribattezzò «cattolici democratici», ora ben rappresentati da Dario Franceschini: trent'anni fa erano i cattolici favorevoli all'aborto, oggi sono i cattolici favorevoli ai Dico e alla teoria dei 5 generi (maschile, femminile, omosessuale maschile, omosessuale femminile, transgender). Intervistata dal Giornale il 10 dicembre 2007, Paola Binetti dichiarava: «Io sono convinta che sarebbe un vantaggio per tutti se il Pd riuscisse ad essere il luogo dove i cattolici possono esprimersi liberamente, affermando i propri valori». E' chiaro, dopo i fatti di questi giorni, che le cose non sono andate nella direzione auspicata dall'ex presidente di «Scienza e Vita». Espulsa o no, è evidente che il Partito Democratico non può essere la casa politica della Binetti e dei cattolici che vogliono obbedire senza compromessi al ribasso all'insegnamento della Chiesa.


Gianteo Bordero

mercoledì 14 ottobre 2009

SESTRI LEVANTE. UN ALTRO EPISODIO DI DEGRADO AMMINISTRATIVO

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE
GRUPPO CONSILIARE

“IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – LEGA NORD – UDC”


COMUNICATO STAMPA DEL 14 OTTOBRE 2009


E’ grave che una Civica Amministrazione, tramite comunicato stampa ufficiale, promuova una iniziativa commerciale di un locale privato, creando tra l’altro, in questo modo, una situazione di privilegio per il locale coinvolto e di ingiusto svantaggio per gli altri esercizi presenti sul territorio. E’ quanto accaduto a Sestri Levante, dove, nella giornata di martedì, il Comune ha diffuso un comunicato nel quale si annuncia che presso uno dei bar ristoranti presenti sulla passeggiata a mare stanno per riprendere i concerti dal vivo, con possibilità per gli spettatori di prenotare il tavolo. Il comunicato riporta anche, a scanso di equivoci, l’indirizzo del locale ed il numero di telefono da utilizzare per le prenotazioni.


E’ un episodio che si commenta da solo e che mostra una volta di più il degrado amministrativo che caratterizza l’attuale Giunta sestrese. In merito a questa incresciosa vicenda abbiamo presentato quest’oggi una interpellanza da discutere nel corso della prossima seduta di Consiglio Comunale, finalizzata a chiedere spiegazioni all’Amministrazione circa l’accaduto, a chiarire le responsabilità e a stigmatizzare un episodio che ha già destato l’indignazione e la riprovazione di molti cittadini.


Gianteo Bordero (capogruppo)

Giuseppe Ianni
Marco Conti
Giancarlo Stagnaro

SESTRI LEVANTE. L'ASSESSORE AL COMMERCIO PUBBLICIZZA UN LOCALE, INTERPELLANZA DEL CENTRODESTRA

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE
GRUPPO CONSILIARE

“IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – LEGA NORD – UDC”


14 OTTOBRE 2009


OGGETTO: INTERPELLANZA


I SOTTOSCRITTI CONSIGLIERI COMUNALI


Gianteo BORDERO, Giuseppe IANNI, Marco CONTI, Giancarlo STAGNARO


Venuti a conoscenza della notizia riportata dal giornale on line Menabò News (http://www.menabonews.it/riviera-ligure/notizie.php?id=12102) il 13 ottobre 2009, secondo la quale «L’assessore al commercio Enrico Pozzo informa mediante comunicato stampa che “Riprendono le serate musicali al Ristorante Bar IL GOURMET, Via Lungomare Descalzo n. 46 Sestri Levante, si inizia venerdì 16 ottobre dalle ore 21.30 con il Jazz Lorenzo Capello Quartet. Ingresso libero info e tavoli 0185-482981”».


INTERPELLANO IL SINDACO E L’ASSESSORE COMPETENTE
PER SAPERE:

  • Se il comunicato in oggetto è stato materialmente redatto dall’Assessore Pozzo oppure da altro da lui incaricato (e, nel caso, da chi);
  • Se il comunicato in oggetto è stato inviato alla stampa utilizzando fax o posta elettronica intestati al Comune di Sestri Levante (se sì, da quale numero di fax o da quale indirizzo di posta elettronica);
  • Se il comunicato in oggetto è stato inviato su carta intestata del Comune di Sestri Levante;
  • In caso di risposta affermativa ai precedenti quesiti, quali sono i motivi che hanno spinto l’Assessore Pozzo o chi per lui a compiere un atto grave quale la promozione pubblica di una iniziativa privata di carattere commerciale – atto che configura una oggettiva situazione di vantaggio per il Ristorante Bar prima citato e di corrispettivo svantaggio per gli altri esercizi presenti in città.
  • Perché proprio il Ristorante Bar prima citato è stato oggetto, da parte della Civica Amministrazione, della concessione di un oggettivo privilegio non accordato ad altri esercizi commerciali presenti in città.

martedì 13 ottobre 2009

IL GOVERNO SCELTO DAL POPOLO

da Ragionpolitica.it del 13 ottobre 2009

Intervenendo il 9 ottobre alla trasmissione Otto e Mezzo, il parlamentare dell'Udc Bruno Tabacci ha annunciato di voler presentare un ricorso presso la Corte Costituzionale finalizzato a eliminare dalla scheda delle elezioni politiche l'indicazione del nome del candidato premier: secondo Tabacci ciò sarebbe in contrasto con la Costituzione italiana, la quale prevede, all'articolo 92, che il presidente del Consiglio dei ministri non sia eletto direttamente dal popolo, ma venga nominato dal presidente della Repubblica. Il deputato dell'Unione di Centro ha affermato che l'Italia è, a tutt'oggi, una Repubblica parlamentare e non presidenziale: da qui la sua iniziativa di fronte alla Consulta per sanare quella che egli ritiene un'inammissibile anomalia.


Tabacci ha però omesso di ricordare (come invece ha fatto il ministro Raffaele Fitto, presente anch'egli alla trasmissione condotta da Lilli Gruber) che a partire dal momento dell'avvento del bipolarismo nel nostro paese, e cioè, in sostanza, dall'ingresso in politica di Silvio Berlusconi nel 1994, vi è stata de facto un'evoluzione in senso presidenziale della cosiddetta «Costituzione materiale» dell'Italia. Detta in altri termini: se vi è stato un cambiamento costituzionale sostanziale nel passaggio dalla Prima Repubblica (quella che Pietro Scoppola aveva chiamato la «Repubblica dei partiti») alla Seconda - un passaggio per certi versi anticipato dai referendum maggioritari del 1993 - esso è consistito proprio nella centralità assunta, nel nuovo sistema, dalla figura dei leader dei due schieramenti in campo, che ha trasformato materialmente il voto ai partiti in un voto alla persona alla guida della coalizione, e quindi in una scelta di fatto diretta del presidente del Consiglio da parte degli elettori. Che tale modifica sostanziale abbia avuto luogo non in seguito ad una revisione costituzionale operata dal parlamento, bensì grazie all'iniziativa politica di Berlusconi, non può essere usato come un argomento per riportare le lancette della storia italiana indietro di tre lustri e ritornare ad un sistema nel quale la scelta del capo del governo è affidata alla mediazione tra partiti e non al corpo elettorale.


Inoltre, è necessario tenere a mente che le drammatiche circostanze che spinsero Berlusconi a un impegno diretto in politica, e cioè la cancellazione dei partiti democratici per mano della magistratura milanese, rischiavano di trasformare la stessa Costituzione formale, che all'articolo 1 stabilisce che «la sovranità appartiene al popolo», in carta straccia, e di consegnare a un potere non eletto le chiavi della legittimità politica e istituzionale della Repubblica. In quest'ottica, l'iniziativa berlusconiana si pose in totale continuità con la prospettiva democratica indicata dalla Carta costituzionale nel già richiamato articolo 1, facendola evolvere in una direzione resasi ormai improcrastinabile in seguito alla crisi di consenso e di rappresentanza delle forze politiche della Prima Repubblica (tale crisi fu precedente a Tangentopoli e fu proprio la debolezza del sistema ad essa conseguente a rendere possibile il fatto che l'azione disgregatrice delle indagini di Mani Pulite non trovasse dinanzi a sé alcun ostacolo).


In un'Italia che chiedeva a gran voce il passaggio a quella che è stata chiamata «democrazia governante», ossia ad un sistema che superasse gli avvitamenti autoreferenziali e assemblearistici della Prima Repubblica, i quali avevano finito col penalizzare la dimensione del buon governo della cosa pubblica privilegiando invece il tornaconto immediato dei partiti e delle loro clientele, la risposta alternativa a quella fornita dal circolo mediatico-giudiziario non poteva essere la riproposizione tout court del vecchio modello: occorreva dare al corpo elettorale la possibilità di esprimere in modo diretto la scelta del presidente del Consiglio, collegando così in modo più stretto il governo ai cittadini. Se non è stato possibile giungere anche ad una formalizzazione costituzionale di tale passaggio epocale nella storia politica italiana, e quindi ad una modifica della Carta per via parlamentare, è perché, come osservava Gianni Baget Bozzo in un articolo pubblicato su La Stampa il 21 agosto 2007, «i partiti del centrosinistra detengono ancora il principio della sacralità della Costituzione come frutto dell'antifascismo e non tengono conto che quella storia è ormai superata per il paese». Tant'è vero che proprio in nome di questa sacralità la sinistra organizzò il referendum costituzionale del 2006 per cancellare la riforma approvata nelle aule parlamentari dalla maggioranza di centrodestra nella legislatura iniziata nel 2001.


Ora, con la bocciatura del lodo Alfano da parte della Consulta si è riaperto il problema, perché è stata rigettata la lettura materiale della Costituzione fatta propria dagli avvocati difensori del lodo, i quali partendo da essa hanno tentato, purtroppo invano, di fondare la definizione del presidente del Consiglio come «primus super pares», che gode cioè di una legittimazione popolare di cui gli altri ministri non godono, in forza del fatto che il suo nome appare sulla scheda elettorale. Anche in ragione di ciò, è dunque evidente che oggi è più che mai necessario addivenire a una modifica anche formale della Costituzione per sancire in via definitiva il legame diretto tra popolo e governo, tra corpo elettorale e presidente del Consiglio, che è il portato più rilevante del «berlusconismo» per ciò che attiene alla forma politica dello Stato italiano. Non è più possibile rimandare sine die la formalizzazione costituzionale di ciò che gli italiani hanno già riformato materialmente da almeno quindici anni. Come ha affermato lo stesso Berlusconi intervenendo domenica alla Festa della Libertà di Benevento, «dobbiamo trovare il modo di riportare il nostro paese sulla strada di una vera e compiuta democrazia, dando ai cittadini la possibilità di scegliere coloro da cui vogliono essere governati».


Gianteo Bordero

sabato 10 ottobre 2009

LA SINISTRA DA PATRIZIA A ROSY

da Ragionpolitica.it del 10 ottobre 2009

E così avremo Santa Rosy martire, simbolo di tutte le donne oltraggiate e maltrattate dal Cavaliere Nero. Maria Rosaria Bindi da Sinalunga, Val di Chiana, allieva di Vittorio Bachelet, già vice presidente dell'Azione Cattolica negli anni Ottanta, pasionaria della Dc di sinistra, segretaria del Partito Popolare di Martinazzoli in Veneto, prodiana della prima ora, ministro in entrambi i governi del Professore, candidata anti-veltroniana alle primarie del 2007, oggi vicepresidente della Camera e sostenitrice di Pierluigi Bersani nella corsa alla segreteria del Partito Democratico. Cattolica integralista da sempre, vergine per scelta, da mercoledì sera (da quando cioè il presidente del Consiglio, durante un intervento telefonico a Porta a Porta, infastidito dalle sue continue interruzioni, l'ha apostrofata riprendendo una storica battuta di Vittorio Sgarbi: «Vedo che lei è sempre più bella che intelligente»), è diventata l'idolo delle femministe d'assalto del Belpaese. Quelle che, in teoria, dovrebbero essere agli antipodi di Rosy per ciò che riguarda la filosofia di vita e la concezione della morale sessuale. Ma tant'è... Nella crociata antiberlusconiana tutto fa brodo.


E così, immancabile, è partito l'ennesimo appello su Repubblica, l'ennesima raccolta di firme dopo quella, grottesca e surreale, in difesa della libertà di stampa. In nome della Bindi, sul quotidiano scalfariano, Michela Marzano, Barbara Spinelli e Nadia Urbinati invocano una mobilitazione di massa, perché «è evidente che il corpo della donna è diventato un'arma politica di capitale importanza, nella mano del presidente del Consiglio». Il quale sarebbe l'icona - sostengono le promotrici - del peggior maschilismo vecchio stile: «La donna come lui la vede e l'anela, in primissimo luogo è completa sottomissione al volere del capo. È lì per cantare con il capo, per fare eco al capo, per mettersi a disposizione del capo...» (seguono altre amenità in perfetto moralistichese che qui omettiamo per non tediare il lettore). Dunque, ben venga Santa Rosy, che ha il coraggio di ribellarsi a cotanto disprezzo per la dignità femminile e, rispondendo in diretta tv al premier, gli dice: «Sono una donna che non è a sua disposizione». Una frase che è già diventata uno slogan che viene stampato sulle magliette e viene usato come titolo di gruppi d'aggregazione su Facebook. Assieme all'altra frase, di maggiore impatto mediatico ma dal contenuto più ambiguo: «Siamo tutte Rosy Bindi». In che senso? - verrebbe da chiedere... Com'è possibile, cioè, che donne che hanno inneggiato tutta la vita alla libertà sessuale, all'affrancamento dalla morale tradizionale, al «rapporto libero» prendano oggi a modello di perfetto femminismo l'illibata e morigeratissima Rosy?


E' l'ulteriore dimostrazione che la sinistra italiana e la sua cosiddetta «intellighenzia» hanno ormai smarrito, oltre che il senso della realtà (vedi il caso della libertà d'informazione), anche il senso della misura. Per mesi hanno elevato agli onori della cronaca e degli altari la meretrice d'alto bordo Patrizia D'Addario, con tanto di glorificazione finale sugli schermi della televisione pubblica celebrata da Michele Santoro, culminata con le strepitose lamentele della stessa signorina contro la «mercificazione del corpo della donna» che impazzerebbe in Italia a causa della tv commerciale di marca berlusconiana. Esaurito il filone «escort», con gli italiani ormai nauseati dalla svolta puttanesca delle gazzette gauchiste, ecco che, passando senza pudore da un estremo all'altro, la sinistra santifica ora sui suoi giornali e sui suoi fogli telematici la casta Rosy, la pulzella della Val di Chiana, la Giovanna D'Arco «de noantri», chiamata a risollevare le magnifiche sorti e progressive dello schieramento avverso a Berlusconi.


Questa svolta virginale della sinistra, questa conversione sulla via di Damasco alla castità e alla rettitudine sessuale dopo decenni di distruzione sistematica di tutta la morale tradizionale rappresentata dalla Chiesa cattolica la dice davvero lunga sullo stato di decadenza politica e culturale dei fautori e degli eredi del Sessantotto. Che si tratti di pura ipocrisia, dell'ennesimo espediente per cercare di raccattare qualche consenso in più, è documentato dal fatto che la richiesta di ortodossia sessuale non viene rivolta a tutti, come invece dovrebbe essere qualora fosse mossa da buona fede, bensì solo a uno, ad personam, al solito Berlusconi. E' come se Dio avesse consegnato le Tavole della Legge a Mosè ammonendolo di farle osservare solo ed esclusivamente al Faraone. Qui siamo veramente oltre il ridicolo, ed entriamo nel vuoto pneumatico nel quale si trova la gauche nostrana, nel terreno dell'assurdo elevato a criterio unico di propaganda politica. Del resto, è solo nel regno dell'assurdo che sarebbe stato possibile immaginare Rosy e Patrizia, così distinte e distanti, così diverse in tutto, così lontane per cultura e storia, unite nel Pantheon degli eroi antiberlusconiani della sinistra italiana. Non osi separare Silvio ciò che La Repubblica unisce...


Gianteo Bordero

giovedì 8 ottobre 2009

IL POPOLO È CON BERLUSCONI

da Ragionpolitica.it dell'8 ottobre 2009

Tutti coloro che, gaudenti e festanti, credono di aver assestato il colpo di grazia a Berlusconi attraverso la sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano, dovranno presto riporre le loro speranze nel cassetto: la pronuncia della Consulta non sposterà gli equilibri politici sanciti dal voto del 13 e 14 aprile 2008. Gli italiani, che al contrario di quanto pensano i sapientoni della sinistra non sono un popolo bue, hanno da tempo compreso che il Cavaliere è oggetto di un forsennato attacco concentrico da parte di poteri non eletti, i quali tentano in tutti i modi di sostituirsi alla sovranità popolare e di instaurare un governo tecnocratico non sostenuto dalla legittimazione elettorale - cioè, in sostanza, un governo anticostituzionale e non democratico. Mentre tutti i vecchi apparati, le élites parassitarie, la quasi totalità della stampa nazionale, la magistratura ideologizzata provano con ogni mezzo a loro disposizione a far fuori dalla scena politica il presidente del Consiglio, il popolo è e rimane convintamente schierato al suo fianco. E' e rimane fermamente aggrappato alla possibilità che il voto espresso nell'urna elettorale conti ancora qualcosa e non diventi carta straccia sotto i colpi dei veri nemici della prima, grande, autentica libertà di espressione: quella croce sulla scheda con la quale si affida a un uomo e ad un partito la guida della nazione.


Come è stato ricordato in questi giorni, non era mai accaduto, nel nostro paese, che dopo un anno e mezzo di attività un governo e un premier godessero dello stesso consenso popolare del quale oggi godono il Berlusconi IV e il presidente del Consiglio in carica. Fatto tanto più straordinario quanto più si pensa alle circostanze nelle quali tale consenso è maturato: quanto più, cioè, si tengono a mente non soltanto le grandi emergenze come la crisi economica e il terremoto in Abruzzo, efficacemente affrontate dal governo, ma anche il contesto di delegittimazione mediatica del Cavaliere portata avanti attraverso una ossessiva campagna di stampa fondata unicamente sul pettegolezzo pruriginoso. Una campagna che, come tutti i più recenti sondaggi mostrano, non è riuscita a interrompere la «luna di miele» tra il premier e il popolo italiano.


E sarà così anche per quanto riguarda l'abnorme sentenza civile sul lodo Mondadori e, da ultimo, la sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano. Chi ha detto e scritto, negli ultimi giorni, che ormai per il presidente del Consiglio «tutti i lodi vengono al pettine», lasciando con ciò intendere che siamo di fronte alla fine della sua epopea politica, capirà ben presto che si tratta di una pia illusione, di un miraggio nel deserto politico della sinistra, di un sogno alimentato dal peggior fanatismo ideologico antiberlusconiano. Si mettano il cuore in pace: il 7 ottobre 2009 non è e non sarà un nuovo 25 aprile con il Duce appeso a testa in giù. Non soltanto perché in questo caso non vi è nessun dittatore in campo - prova ne sia il fatto che la Consulta ha potuto pronunciare in tutta libertà il suo verdetto di bocciatura della legge - ma anche e soprattutto perché qui non vi è nessuna folla inferocita pronta a massacrare l'uomo nel quale, per tanti anni, si era - piaccia o no alla sinistra antifascista del giorno dopo - identificata. E non sarà neppure un nuovo 1993, non sarà una nuova Tangentopoli che fa tabula rasa dei partiti democratici e dei loro leader; non sarà cioè un nuovo 30 aprile, il giorno nel quale una canaglia fomentata dal bombardamento antipolitico organizzato dal circolo mediatico-giudiziario, all'uscita di un hotel romano condannava di fatto a morte Bettino Craxi e la Prima Repubblica. Perché alla favola giustizialista ormai credono soltanto Di Pietro, De Magistris, Travaglio e le loro gazzette urlatrici, Beppe Grillo e i suoi meetup, insomma gli autoproclamati detentori unici della pubblica moralità. E perché il mito delle manette facili, allora assai in voga, è stato smascherato per quello che effettivamente era: l'anticamera dell'affermazione di un regime non democratico, non liberale e antipopolare.


Il miglior antidoto al ripetersi di tutto ciò è proprio il consenso di cui oggi Silvio Berlusconi continua a godere presso gli italiani. Un consenso robusto, sentito, politicamente motivato. E reso ancora più forte e radicato dagli attacchi di cui il Cavaliere è oggetto da quindici anni a questa parte. Attacchi che si ripetono ancora oggi, con ancora maggiore intensità e in modo sempre più concentrico, da parte dei soliti noti che non hanno mai digerito il fatto che nel 1994 un imprenditore brianzolo mandasse all'aria il disegno di commissariare la democrazia italiana e di asservirla a interessi opposti all'interesse nazionale e al bene comune. La stragrande maggioranza degli italiani, di chi ama davvero l'Italia, ha ormai ben compreso tutto questo. E ha compreso che votare Berlusconi significa votare per chi ha difeso - e difende - il principio costituzionale della sovranità popolare e il principio meta-costituzionale della libertà politica. Quella libertà a cui gli italiani non vogliono di certo rinunciare a causa di una sentenza della magistratura.

Gianteo Bordero

mercoledì 7 ottobre 2009

SESTRI LEVANTE. CENTRODESTRA DELUSO DALLA MANCATA PARTECIPAZIONE DEL SINDACO AL CONVEGNO DI CASARZA

CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE
GRUPPO CONSILIARE

“IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – LEGA NORD – UDC”


COMUNICATO STAMPA DEL 7 OTTOBRE 2009


Se il sindaco Lavarello avesse partecipato, martedì mattina, al Convegno di Casarza sullo sviluppo del Tigullio orientale, si sarebbe reso conto che non si trattava, come egli ha affermato, di una iniziativa “propagandistica”, bensì di una occasione importante per riflettere sui grandi temi amministrativi che coinvolgono il nostro territorio: il lavoro, il turismo, le infrastrutture, solo per citarne alcuni.


Capiamo che il sindaco di Sestri si trovi a disagio nella nuova situazione politica venutasi a creare nei Comuni della Val Petronio dopo le elezioni dello scorso giugno; capiamo che tanti anni di monopolio amministrativo del suo partito nelle nostre zone lo abbiamo disabituato al confronto con posizioni politiche di segno diverso; capiamo che d’ora in poi non sarà più possibile portare a termine, a solo scopo elettoralistico, operazioni come quella che ha impedito alla nuova strada di Casarza di proseguire il suo percorso “naturale” verso via Bruno Primi ed ha portato all’assurda realizzazione, con danaro pubblico, della rotonda in prossimità del quartiere di Francolano.


In forza di tutto ciò, quello che non capiamo è come possa il sindaco Lavarello affermare che i nuovi amministratori dei Comuni della Val Petronio non vogliano “continuare le collaborazioni con noi”. Semmai è vero il contrario, e cioè che è il primo cittadino di Sestri Levante che deve ora aprirsi a un nuovo tipo di collaborazione con i suoi colleghi, evitando di isolare il nostro Comune dal resto del Tigullio orientale, condannandolo ad una ulteriore perdita di competitività.


Anche noi, come Lavarello, ci auguriamo che Sestri Levante possa mantenere il ruolo di “Comune capofila” della nostra zona. Ma il sindaco deve capire che tale ruolo lo si conquista sul campo con la buona politica: non è un diritto acquisito, ma il frutto della buona amministrazione quotidiana. Cioè di quello che oggi, purtroppo, manca alla nostra città.

Gianteo Bordero (capogruppo)
Giuseppe Ianni

Marco Conti

Giancarlo Stagnaro

sabato 3 ottobre 2009

LEGGE 194 E PILLOLA RU486

da Ragionpolitica.it del 3 ottobre 2009

Hanno preso il via il 1° ottobre, presso la Commissione Sanità del Senato, le audizioni nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla pillola abortiva RU486. Era stata la stessa Commissione, il 22 settembre, a dare il via libera all'indagine, in seguito alla decisione dell'AIFA (Agenzia italiana del farmaco) di acconsentire, nella seduta del 31 luglio, alla commercializzazione della pillola, anche se limitata alla sola somministrazione nelle strutture pubbliche. Le audizioni sono finalizzate a raccogliere informazioni circa «la procedura di aborto farmacologico mediante la RU486», per giungere ad una «valutazione della coerenza delle procedure proposte con la legislazione vigente», ossia con la legge 194 del 1978 recante norme «per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza». L'indagine avrà per oggetto anche l'«organizzazione dei percorsi clinici» e la «valutazione dei dati epidemiologici anche in relazione agli studi internazionali sul rapporto rischio/benefici».


Il primo ad essere ascoltato, giovedì, è stato il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. Nel suo intervento, egli ha rilavato come il punto centrale, il vero nodo politico di tutta la questione, sia proprio quello riguardante la compatibilità della RU486 con la legge 194. Tale legge, infatti, secondo il ministro, «esprime una precisa ratio», che è quella della «tutela sociale della maternità»: il quadro normativo che emerge dalla 194, nel suo complesso, è «contrario all'aborto». Questo, infatti, giuridicamente «è considerato un illecito penale - e non un diritto individuale - a cui vengono poste delle precise eccezioni». Come recita il primo articolo della legge, «lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio... L'interruzione volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le Regioni e gli Enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite». Insomma, lungi dal legittimare l'interruzione di gravidanza come una sorta di diritto naturale, la legge del 1978 mostra in modo chiaro che l'aborto è una eccezione che può avere luogo soltanto quando vi siano seri pericoli per la salute della donna. Tant'è vero che la 194 - ha spiegato il ministro - prevede che gli interventi abortivi abbiano luogo soltanto nelle strutture pubbliche, o comunque presso strutture autorizzate dallo Stato. Questa impostazione di fondo della legge ha fatto sì che, anno dopo anno, il numero degli aborti in Italia diminuisse in maniera non irrilevante. Si tratta di una tendenza - ha affermato Sacconi - «che vogliamo mantenere, e se possibile accentuare, o comunque non invertire».


Se il quadro relativo alla legge 194 è dunque chiaro, come chiare sono le condizioni e le regole all'interno delle quali può avere luogo l'interruzione volontaria di gravidanza, altrettanto non si può dire riguardo alla RU486. Il ministro ha infatti ricordato, nel corso dell'audizione, i casi di sperimentazione avviati in Italia, sulla base di protocolli regionali, a partire dal 2005. In particolare, il responsabile del Welfare ha citato quello iniziato il 1° settembre di quell'anno presso l'ospedale Sant'Anna di Torino. E ha ricordato che tre settimane dopo, il 21 settembre, l'allora ministro della Salute, Francesco Storace, sospese la sperimentazione su indicazione degli ispettori dell'AIFA, i quali avevano accertato delle irregolarità: «Gli ispettori avevano verificato - ha affermato Sacconi - che le donne tornavano a casa dopo l'assunzione della prima pillola per poi tornare in ospedale per la somministrazione del secondo farmaco. Con queste modalità non si poteva garantire, secondo il parere espresso dal Consiglio Superiore di Sanità, che le condizioni di sicurezza per le pazienti fossero equivalenti a quelle fornite con il metodo tradizionale». La sperimentazione, al Sant'Anna, riprese in seguito alla revisione del protocollo secondo le indicazioni del ministero e del Consiglio Superiore di Sanità, per poi essere definitivamente sospesa il 28 settembre 2006, dopo aver accertato che ben 269 donne su 329 non avevano rispettato il protocollo.


La necessità del ricovero in strutture ospedaliere per l'aborto farmacologico si basa su due precisi pareri forniti dal Consiglio Superiore di Sanità. Il primo è quello del 18 marzo 2004, secondo cui «alla luce delle conoscenze disponibili, i rischi per l'interruzione farmacologica della gravidanza si possono considerare equivalenti ai rischi dell'interruzione chirurgica solo se l'interruzione di gravidanza avviene totalmente in ambiente ospedaliero». Tra le motivazioni addotte dal Consiglio vi era la «non prevedibilità del momento in cui avviene l'aborto». Il secondo parere è del 20 dicembre 2005: esso ribadisce con ancora maggiore chiarezza che l'aborto farmacologico deve avvenire «in un ospedale pubblico o in altra struttura prevista dalla legge, e la donna deve essere ivi trattenuta fino ad aborto avvenuto».


Purtroppo - ha detto Sacconi - «l'aborto farmacologico, in tutti i paesi in cui è stato introdotto, presenta uno scarto tra l'uso stabilito nei protocolli e l'uso reale, la prassi medica concreta». Per questo sarà necessario, oltre alla verifica dei parametri di sicurezza del metodo farmacologico rispetto a quanto prevede la legge 194 (in particolare, secondo il ministro, «il rispetto della settimana di riflessione, l'effettiva possibilità che l'espulsione non avvenga in ambito ospedaliero, la maggiore o minore efficacia del metodo»), anche un attento, serrato monitoraggio che consenta di verificare il grado di effettività del rispetto della legge stessa. «Qualora questa effettività non si realizzasse - ha concluso Sacconi - si porrebbe la necessità di interventi finalizzati al rispetto di una normativa internazionalmente apprezzata... Le istituzioni non potrebbero assistere passive ad una eventuale, diffusa violazione o elusione del contenuto sostanziale di una legge dello Stato».


Gianteo Bordero

giovedì 1 ottobre 2009

IL GOSSIP PASSA, IL BUONGOVERNO RESTA

da Ragionpolitica.it del 1° ottobre 2009

Il gossip passa, il buongoverno e la buona politica restano. Potremmo sintetizzare così i risultati di un sondaggio condotto dall'IPSOS per la trasmissione Ballarò, illustrati nel corso dell'ultima puntata del programma di Giovanni Floris dal direttore dell'istituto demoscopico, Nando Pagnoncelli. Due domande rivolte ai cittadini, in particolare, hanno mostrato come cinque mesi di ossessiva campagna mediatica antiberlusconiana, tesa a screditare il presidente del Consiglio spiando la sua vita privata dal buco della serratura, non abbiano modificato il quadro politico nazionale, come invece speravano i promotori della suddetta campagna.


Ma andiamo con ordine. Alla domanda: «Se si andasse ad elezioni domani, lei per che partito voterebbe?», la risposta è stata: per il Pdl il 37,5%, per il Pd il 29,3%, per la Lega Nord il 10,1%, per l'Idv l'8,1%, per l'Udc il 6,7%. Si tratta sostanzialmente, per quasi tutti i partiti, del medesimo risultato uscito dalle urne dopo le elezioni europee dello scorso giugno. Con la differenza, di non poco conto per quanto concerne il nostro discorso, che il Popolo della Libertà ha aumentato i suoi consensi di 2,3 punti percentuali. Ma ancora più interessante è stata la risposta alla domanda riguardante «l'attenzione dell'informazione per le vicende private del premier». Il 51% degli italiani la considera una perdita di tempo, e il 21% un puro pettegolezzo. Soltanto il 20% ritiene tutto ciò una «faccenda politica rilevante». Se questi sono i risultati di tanta fatica - si fa per dire - giornalistica, allora siamo di fronte ad un vero e proprio buco nell'acqua, che dovrebbe far riflettere coloro che hanno trasformato i mezzi d'informazione politica in pruriginose gazzette infarcite di gossip, credendo con ciò di assestare il colpo di grazia al capo del governo.


Occorre ricordare, tra l'altro, che anche il voto europeo, tenutosi dopo che già da un mese il bombardamento anti Cavaliere aveva avuto inizio, aveva dimostrato la scarsa presa sull'opinione pubblica della campagna di pettegolezzi sul presidente del Consiglio: basti pensare che allora il calo di voti fatto registrare dal Popolo della Libertà rispetto alle elezioni politiche del 2008, come hanno poi chiarito le analisi condotte nelle settimane successive alla consultazione europea, fu causato soprattutto dal «caso Sicilia» e dalle tensioni interne al partito nell'isola. Ciò nonostante, La Repubblica e i suoi compagni di battaglia hanno proseguito imperterriti nella loro strategia - anche qui, si fa per dire - come se niente fosse successo, riproponendo ogni giorno, come un disco incantato, la solita minestra riscaldata delle dieci domande al premier, delle rivelazioni piccanti a orologeria, dei fantasmagorici scoop a luci rosse e via gossippando, nella convinzione di abbattere Berlusconi a colpi di D'Addario. Lo scarsissimo raccolto di tale semina è oggi, grazie al sondaggio diffuso da Ballarò, sotto gli occhi di tutti.


Il fatto - ha spiegato Pagnoncelli commentando i dati della rilevazione - è che «in questo momento c'è una forte attenzione, da parte degli italiani, rispetto ai problemi concreti, c'è un grande pragmatismo». Le parole del direttore dell'IPSOS confermano dunque la bontà della scelta compiuta dal presidente del Consiglio, che in questi mesi è andato avanti tenacemente nella realizzazione del programma di governo, impegnandosi inoltre in prima persona per affrontare le emergenze rappresentate dalla crisi economica e dalla ricostruzione in Abruzzo. Insomma, ha concentrato la sua attenzione su quelli che Pagnoncelli ha chiamato «problemi concreti», ricavandone l'apprezzamento della maggioranza degli italiani, che in questo frangente a tutto sono interessati fuorché alle manovre di certa stampa e di certi poteri non eletti per disarcionare un premier che sta dimostrando di saper rispondere con il buongoverno alle esigenze dei cittadini, con la politica del fare alla politica delle chiacchiere e delle calunnie. Lo dimostra - da ultimo - l'avanzato stato dei lavori per ridare una casa alle popolazioni abruzzesi colpite dal sisma il 6 aprile scoso.

Gianteo Bordero