da Ragionpolitica.it del 13 ottobre 2009
Intervenendo il 9 ottobre alla trasmissione Otto e Mezzo, il parlamentare dell'Udc Bruno Tabacci ha annunciato di voler presentare un ricorso presso la Corte Costituzionale finalizzato a eliminare dalla scheda delle elezioni politiche l'indicazione del nome del candidato premier: secondo Tabacci ciò sarebbe in contrasto con la Costituzione italiana, la quale prevede, all'articolo 92, che il presidente del Consiglio dei ministri non sia eletto direttamente dal popolo, ma venga nominato dal presidente della Repubblica. Il deputato dell'Unione di Centro ha affermato che l'Italia è, a tutt'oggi, una Repubblica parlamentare e non presidenziale: da qui la sua iniziativa di fronte alla Consulta per sanare quella che egli ritiene un'inammissibile anomalia.
Tabacci ha però omesso di ricordare (come invece ha fatto il ministro Raffaele Fitto, presente anch'egli alla trasmissione condotta da Lilli Gruber) che a partire dal momento dell'avvento del bipolarismo nel nostro paese, e cioè, in sostanza, dall'ingresso in politica di Silvio Berlusconi nel 1994, vi è stata de facto un'evoluzione in senso presidenziale della cosiddetta «Costituzione materiale» dell'Italia. Detta in altri termini: se vi è stato un cambiamento costituzionale sostanziale nel passaggio dalla Prima Repubblica (quella che Pietro Scoppola aveva chiamato la «Repubblica dei partiti») alla Seconda - un passaggio per certi versi anticipato dai referendum maggioritari del 1993 - esso è consistito proprio nella centralità assunta, nel nuovo sistema, dalla figura dei leader dei due schieramenti in campo, che ha trasformato materialmente il voto ai partiti in un voto alla persona alla guida della coalizione, e quindi in una scelta di fatto diretta del presidente del Consiglio da parte degli elettori. Che tale modifica sostanziale abbia avuto luogo non in seguito ad una revisione costituzionale operata dal parlamento, bensì grazie all'iniziativa politica di Berlusconi, non può essere usato come un argomento per riportare le lancette della storia italiana indietro di tre lustri e ritornare ad un sistema nel quale la scelta del capo del governo è affidata alla mediazione tra partiti e non al corpo elettorale.
Inoltre, è necessario tenere a mente che le drammatiche circostanze che spinsero Berlusconi a un impegno diretto in politica, e cioè la cancellazione dei partiti democratici per mano della magistratura milanese, rischiavano di trasformare la stessa Costituzione formale, che all'articolo 1 stabilisce che «la sovranità appartiene al popolo», in carta straccia, e di consegnare a un potere non eletto le chiavi della legittimità politica e istituzionale della Repubblica. In quest'ottica, l'iniziativa berlusconiana si pose in totale continuità con la prospettiva democratica indicata dalla Carta costituzionale nel già richiamato articolo 1, facendola evolvere in una direzione resasi ormai improcrastinabile in seguito alla crisi di consenso e di rappresentanza delle forze politiche della Prima Repubblica (tale crisi fu precedente a Tangentopoli e fu proprio la debolezza del sistema ad essa conseguente a rendere possibile il fatto che l'azione disgregatrice delle indagini di Mani Pulite non trovasse dinanzi a sé alcun ostacolo).
In un'Italia che chiedeva a gran voce il passaggio a quella che è stata chiamata «democrazia governante», ossia ad un sistema che superasse gli avvitamenti autoreferenziali e assemblearistici della Prima Repubblica, i quali avevano finito col penalizzare la dimensione del buon governo della cosa pubblica privilegiando invece il tornaconto immediato dei partiti e delle loro clientele, la risposta alternativa a quella fornita dal circolo mediatico-giudiziario non poteva essere la riproposizione tout court del vecchio modello: occorreva dare al corpo elettorale la possibilità di esprimere in modo diretto la scelta del presidente del Consiglio, collegando così in modo più stretto il governo ai cittadini. Se non è stato possibile giungere anche ad una formalizzazione costituzionale di tale passaggio epocale nella storia politica italiana, e quindi ad una modifica della Carta per via parlamentare, è perché, come osservava Gianni Baget Bozzo in un articolo pubblicato su La Stampa il 21 agosto 2007, «i partiti del centrosinistra detengono ancora il principio della sacralità della Costituzione come frutto dell'antifascismo e non tengono conto che quella storia è ormai superata per il paese». Tant'è vero che proprio in nome di questa sacralità la sinistra organizzò il referendum costituzionale del 2006 per cancellare la riforma approvata nelle aule parlamentari dalla maggioranza di centrodestra nella legislatura iniziata nel 2001.
Ora, con la bocciatura del lodo Alfano da parte della Consulta si è riaperto il problema, perché è stata rigettata la lettura materiale della Costituzione fatta propria dagli avvocati difensori del lodo, i quali partendo da essa hanno tentato, purtroppo invano, di fondare la definizione del presidente del Consiglio come «primus super pares», che gode cioè di una legittimazione popolare di cui gli altri ministri non godono, in forza del fatto che il suo nome appare sulla scheda elettorale. Anche in ragione di ciò, è dunque evidente che oggi è più che mai necessario addivenire a una modifica anche formale della Costituzione per sancire in via definitiva il legame diretto tra popolo e governo, tra corpo elettorale e presidente del Consiglio, che è il portato più rilevante del «berlusconismo» per ciò che attiene alla forma politica dello Stato italiano. Non è più possibile rimandare sine die la formalizzazione costituzionale di ciò che gli italiani hanno già riformato materialmente da almeno quindici anni. Come ha affermato lo stesso Berlusconi intervenendo domenica alla Festa della Libertà di Benevento, «dobbiamo trovare il modo di riportare il nostro paese sulla strada di una vera e compiuta democrazia, dando ai cittadini la possibilità di scegliere coloro da cui vogliono essere governati».
Gianteo Bordero
martedì 13 ottobre 2009
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