da Ragionpolitica.it del 24 ottobre 2009
Ricevendo giovedì al Quirinale una delegazione dell'ANCI, l'Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rilanciato il tema della riforma delle istituzioni, affermando che essa «è indispensabile». Ed ha aggiunto: «Da troppo tempo queste questioni sono state anche largamente istruite e non si riesce ad arrivare a sbocchi che sono essenziali». A differenza di qualche suo predecessore, in particolare di Oscar Luigi Scalfaro, il quale durante il suo settennato contribuì ad alimentare il mito della Costituzione «sacra ed inviolabile», l'attuale inquilino del Colle ha scelto una linea riformista che può contribuire a creare uno spazio reale di incontro tra le forze politiche interessate a modernizzare l'architettura dello Stato.
Ora, il punto è questo: esiste davvero, tale volontà, nei partiti attualmente rappresentati nel parlamento italiano? Purtroppo dobbiamo prendere atto che, se da un lato la coalizione di centrodestra ha già da tempo formulato proposte di revisione della Costituzione per aggiornarne il testo tenendo conto dei mutamenti materiali di cui esso è stato oggetto da quindi anni a questa parte, dall'altro lato, a sinistra, sembra dominare un conservatorismo miope e fine a se stesso, che risponde con una lunga teoria di «no» ad ogni ipotesi di modifica costituzionale e istituzionale, gridando alla «lesa maestà», al «tentativo di instaurare un regime», al «ritorno del fascismo» sotto le mentite spoglie berlusconiane. E' chiaro che non è possibile portare avanti un discorso serio di riforma dello Stato fino a che a sinistra perdurerà tale atteggiamento di dogmatico arroccamento ideologico.
Eppure - si dirà - aperture al dialogo e al confronto da parte della gauche nostrana c'erano state: in occasione della Bicamerale presieduta da Massimo D'Alema nel 1997; dopo il discorso di Walter Veltroni al Lingotto dieci anni dopo; da ultimo con la «bozza Violante» di cui ancora si discute in parlamento. Peccato soltanto che alle buone intenzioni non siano poi seguiti i fatti e che, quando si è trattato di dire un «sì» chiaro e distinto alla modifica dell'architettura istituzionale abbiano prevalso, nello schieramento di sinistra, i distinguo, i «ma» e i «se», le insanabili contraddizioni tra l'ala riformista e quella ideologicamente intransigente.
Questa schizofrenia dei partiti oggi all'opposizione riguardo al tema della cosiddetta «grande riforma» è emersa in maniera evidente in due frangenti della recente storia politica del paese. Primo: al termine della legislatura 1996-2001, ormai certa della sconfitta alle elezioni, nel disperato tentativo di sedurre la Lega Nord per una improbabile alleanza, la sinistra promosse, a colpi di maggioranza, la sciagurata modifica del titolo V della Costituzione, ampliando i poteri assegnati alle Regioni e creando un confuso sistema di materie concorrenti che comportò un'assurda moltiplicazione dei centri di spesa e una destrutturazione delle funzioni del governo centrale in questioni di rilevanza nazionale, oltre che una pioggia di ricorsi di attribuzione davanti alla Consulta.
Secondo episodio: quando, nella legislatura 2001-2006, vi fu la reale possibilità di un aggiornamento organico del sistema istituzionale grazie alla riforma promossa dal centrodestra, la gauche, cedendo agli animal spirits dell'antiberlusconismo fanatico che erano l'unico collante dell'Unione prodiana, si oppose in tutti i modi possibili e immaginabili, anche in vista delle elezioni politiche del 2006 che essa credeva di stravincere alimentando l'odio preconcetto nei confronti del Cavaliere. Dalle urne la vittoria netta non uscì, ma tanto bastò a far naufragare, col referendum costituzionale del giugno di quell'anno, il testo votato dall'allora Casa delle Libertà. Il dato che deve far riflettere è che uno degli argomenti propagandistici che vennero usati per combattere la riforma della Cdl fu quello secondo cui essa metteva a rischio l'unità nazionale, mentre era vero il contrario: e cioè che il centrodestra aveva tentato di mettere ordine al caos generato dalla già citata modifica del titolo V voluta della sinistra, e quindi di preservare l'unità nazionale messa a rischio dalla riforma gauchista. Se questa menzogna, da un lato, servì all'Unione per serrare i ranghi contro Berlusconi, dall'altro rivelò il modo strumentale di intendere la riforma costituzionale da parte della sinistra: quando torna utile a fini elettorali la Carta si può modificare senza scrupoli e senza remore; quando non si può andare subito all'incasso, invece, essa torna ad essere intoccabile e irreformabile.
Vedremo ora, dopo le parole del presidente della Repubblica, se l'attuale opposizione, erede dell'alleanza prodiana, riuscirà a dare un taglio netto con questo passato fatto di doppiogiochismo e di tatticismo fine a se stesso, iniziando a dialogare sul serio con la maggioranza, oppure continuerà a trattare una materia decisiva come quella della riforma dello Stato come strumento di propaganda contro il Nemico.
Gianteo Bordero
sabato 24 ottobre 2009
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