venerdì 28 gennaio 2011

GLI AFFANNI DI BERSANI

da Ragionpolitica.it del 28 gennaio 2011

Povero Bersani! Politico generoso ma senza carisma nel tempo delle leadership personali, egli viene di volta in volta eclissato da chi, nel Partito Democratico o nell'area del centrosinistra, si rivela dotato di un qualche appeal capace di esercitare una forte presa sull'opinione pubblica e sull'elettorato della gauche. Si chiami costui Matteo Renzi, Nichi Vendola, Walter Veltroni o Roberto Saviano, l'effetto è sempre lo stesso: l'attuale segretario del maggior partito dell'opposizione, che in via teorica potrebbe e dovrebbe legittimamente aspirare a diventare il leader indiscusso di tutto lo «schieramento avverso» al centrodestra, di fatto non riesce invece a porsi e proporsi come figura di riferimento dell'intero centrosinistra, e neppure dello stesso Pd.


Lo confermano due eventi accaduti negli ultimi giorni: da un lato il discorso di Walter Veltroni al Lingotto e soprattutto l'accoglienza che ad esso è stata riservata da Repubblica, dall'altro lato la denuncia di Roberto Saviano a proposito delle irregolarità nelle primarie napoletane del Pd per la scelta del candidato sindaco. Nel primo caso un editoriale di Eugenio Scalfari ha in sostanza riconosciuto all'iniziativa del già sindaco di Roma e già segretario democrat il merito di aver riportato il partito al centro della scena, svegliandolo dal torpore nel quale esso si trovava: Veltroni, secondo il fondatore di Repubblica, «ha parlato da leader, con la passione e l'eloquenza d'un leader ed anche con il senso di unità e di generosità che un leader deve avere, il desiderio di fare squadra, di rilanciare una scommessa all'insegna del cambiamento». E ancora: rispetto a Bersani, a D'Alema, a Franceschini, Veltroni «possiede un "in più" che nessuno degli altri ha: è capace di evocare un sogno». E' il «carisma», che «potrà funzionare oppure no», ma nel Pd Walter «oggi è il solo che possieda quel requisito». Un talento che Scalfari di fatto contrappone al «parlare paesano e colloquiale» di Bersani, il cui intervento al Lingotto dopo quello di Veltroni «faceva uno strano effetto, di quelli che spesso Crozza provoca quando lo imita a Ballarò». Bravo, buono, intelligente e pragmatico l'attuale segretario - dice in sostanza il padre di Repubblica - ma privo di quelle doti di leadership carismatica espresse dal suo predecessore. Considerato il peso che il quotidiano di Largo Fochetti ha nell'indirizzare gli umori dell'elettorato del Pd e del centrosinistra, è facile dedurre che per Bersani non si prospettino tempi tranquilli.


Cosa, questa, confermata anche dalla vicenda delle primarie napoletane e dalla «discesa in campo» di Roberto Saviano per chiederne l'annullamento. L'autore di Gomorra ha parlato di un risultato della consultazione distorto e inficiato da infiltrazioni esterne al partito, con l'attivismo di personaggi poco raccomandabili, «faccendieri che cercano voti e li comprano per poter poi chiedere in cambio, al candidato, poteri e favori». Voti comprati dai clan? «Non proprio, ma dagli eterni mediatori che vivono nello spazio tra la politica, l'impresa e la criminalità». Non certo una bella immagine, quella descritta da Saviano: «Le primarie di Napoli sono state davvero un grande caos, forse addirittura un'occasione persa e una brutta figura». La soluzione? Azzerare tutto e proporre alla città la candidatura del magistrato anti-camorra Raffaele Cantone. Risultato: Saviano chiama e Bersani risponde, congelando la proclamazione del vincitore delle primarie, commissariando il partito a Napoli e cancellando la prevista assemblea nazionale nel capoluogo campano. La domanda sorge spontanea: chi detta davvero la linea all'interno del Pd? La risposta oggi sembrerebbe essere: tutti tranne Bersani.


Su Saviano, in particolare, occorre sottolineare, anche alla luce dell'articolo in difesa dei pm milanesi pubblicato il 28 gennaio da Repubblica, che la sua influenza diretta sull'elettorato del Pd e indiretta sulla sua dirigenza può avere come conseguenza quella di cristallizzare in maniera irreversibile la figura dei democratici come «partito dei giudici», o peggio come «partito delle procure». Verrebbe così vanificato ogni sforzo compiuto dagli esponenti più riformisti per affrancarsi da quel giustizialismo che non a torto è stato descritto come la caratteristica principale del post-comunismo italiano a partire da Mani Pulite. Sarebbe un passo indietro che condannerebbe il Pd nella ridotta giacobina, archiviandone definitivamente ogni ambizione di proporsi all'elettorato come partito di governo dotato di un progetto complessivo per il sistema-Paese.

Gianteo Bordero

martedì 25 gennaio 2011

DA BAGNASCO UNA LEZIONE DI LAICITÀ AI MORALISTI DELL'ULTIMA ORA

da Ragionpolitica.it del 25 gennaio 2011

Che delusione, per i moralisti dell'ultima ora, la prolusione del cardinal Bagnasco al Consiglio permanente della Cei! Si aspettavano che il presidente dei vescovi italiani vestisse i panni dell'inquisitore e accendesse il rogo con cui bruciare sulla pubblica piazza il Grande Peccatore. Attendevano la condanna, senza se e senza ma, dell'Immorale di Arcore. Loro, i paladini del laicismo totale, fremevano dalla voglia di assistere ad un'ingerenza in grande stile, un'entrata a gamba tesa capace di mettere fuori combattimento l'Uomo dello Scandalo. Invece niente, almeno nei termini auspicati dai novelli adepti del rigore etico e della disciplina morale.


Perché Bagnasco ha parlato chiaro, ma ha detto cose scomode per tutti. Ha richiamato con fermezza alla «misura» e alla «sobrietà» coloro che hanno ricevuto dai cittadini un mandato politico, ma si è chiesto «a che cosa sia dovuta l'ingente mole di strumenti di indagine». Ha descritto poteri «che non solo si guardano con diffidenza, ma si tendono tranelli», e ha ricordato che «la vita di una democrazia si compone di delicati e necessari equilibri, poggia sulla capacità da parte di ciascuno di auto-limitarsi, di mantenersi cioè con sapienza entro i confini invalicabili delle proprie prerogative». Un po' poco per chi, non si sa bene a quel titolo, aveva chiesto al cardinale di contribuire all'opera di delegittimazione totale di Berlusconi.


Il fatto è che - basta leggere il testo integrale della prolusione per rendersene conto - a differenza dei poco credibili sostenitori della «scomunica» del Cavaliere, il presidente della Cei si è espresso, come suo solito, avendo come stella polare delle sue analisi e dei suoi richiami unicamente il bene comune dell'Italia e degli italiani, non la volontà di modificare gli assetti politici del Paese né, tanto meno, il desiderio di delegittimare e distruggere un solo uomo. E ciò dovrebbe essere ben accetto e salutato con favore da tutti coloro che si dicono amanti della laicità e chiedono alla Chiesa di non indicare soluzioni politiche specifiche.


Ma forse è pretendere troppo da chi, in queste ultime settimane, ha pensato che l'inchiesta milanese sul caso Ruby, con tutto ciò che ne è seguito a livello mediatico, fosse l'occasione buona per dare la spallata finale al presidente del Consiglio, per realizzare un sogno lungo diciassette anni, per togliere dalla scena l'ingombrante figura di Berlusconi. Cioè di colui che è stato rappresentato, in questi lustri, come il ricettacolo di tutti i mali del Paese, come l'origine del suo degrado morale (da qual pulpito!), come il luciferino corruttore dei costumi, insomma come il Grande Satana de noantri.


Su questo punto la Chiesa italiana ha dimostrato e dimostra oggi, con il cardinal Bagnasco, di essere molto più laica, sanamente laica, di chi tenta di usare opportunisticamente la morale cristiana come strumento di lotta politica, come clava da scagliare contro il nemico numero uno, salvo poi riporla nel cassetto quando si tratta di affrontare temi decisivi come quelli della vita, della famiglia, dell'educazione. Questioni a proposito delle quali ogni parola proveniente dal Papa e dai vescovi viene classificata come un insopportabile tentativo di imporre indebitamente a tutti, credenti e non, l'etica cattolica. Questo atteggiamento intermittente dei moralisti improvvisati, che negli ultimi giorni hanno fatto a gara per condannare Berlusconi, la dice lunga sulle loro intenzioni e sulla loro credibilità di fondo.


Per questo non ci sembra esagerato affermare che le parole pronunciate lunedì dal presidente della Cei rappresentano una grande lezione di laicità impartita ai novelli Torquemada della sinistra e dei suoi giornali. Gente che fino a ieri inneggiava al sesso libero e alla liberazione dall'etica cristiana, ritenendo ciò un grande passo in avanti per l'umanità e per il suo progresso, e che oggi teorizza - senza peraltro crederci - un uso politico della morale religiosa che la stessa Chiesa, in special modo col grande Papa Ratzinger, stigmatizza e deplora.

Gianteo Bordero

mercoledì 19 gennaio 2011

BERLUSCONI È L'ARGINE ALLA REPUBBLICA GIUDIZIARIA

da Ragionpolitica.it del 19 gennaio 2011

Politicanti senza spessore politico, personaggi di cui i libri di storia non faranno menzione alcuna, e ai quali si potrebbe applicare la famosa battuta di Fortebraccio ai tempi della Prima Repubblica: «L'auto blu si fermò. L'autista, rapidamente, corse a spalancare la portiera. Non scese nessuno: era Nicolazzi». Stiamo parlando di tutti coloro che in questi giorni e in queste ore, di fronte alla nuova offensiva dei pm contro il presidente del Consiglio, preferiscono anteporre il proprio misero tornaconto immediato (una manciata di voti oggi e qualche poltrona in più domani) alla tutela delle garanzie costituzionali e dell'equilibrio dei poteri sul quale si regge la nostra Repubblica. Non capiscono - o fanno finta di non capire - che, nella sciagurata ipotesi di annientamento di Berlusconi per via giudiziaria, il loro guadagno sarebbe incommensurabilmente minore rispetto al prezzo pagato dall'Italia intera e dalle sue istituzioni rappresentative.


Sarebbe infatti la consacrazione definitiva del principio secondo il quale i governi non vengono scelti dai cittadini attraverso libere elezioni, bensì, in ultima analisi, dai pubblici ministeri e dai giudici, che diverrebbero i detentori dell'ultima parola a proposito della legittimità politica di un esecutivo. Si potrebbe ancora definire «democrazia», questa? Evidentemente no. Ci troveremmo invece di fronte ad un esiziale rovesciamento della nostra forma di Stato: non più una Repubblica «democratica», bensì una Repubblica «giudiziaria» in cui la sovranità non apparterrebbe più, in ultima istanza, al popolo, bensì alla magistratura.


Se quest'ipotesi, negli ultimi diciassette anni, non è diventata realtà, è proprio grazie a Silvio Berlusconi. Egli ha saputo tenere testa con coraggio e determinazione ai suoi accusatori togati. E' riuscito a dimostrare la sua estraneità agli infamanti capi d'imputazione che di volta in volta gli venivano rovesciati addosso come se egli fosse il peggiore dei criminali in circolazione. Ha ribattuto efficacemente, colpo su colpo, a inchieste messe in campo con un dispiegamento di mezzi, risorse, uomini senza precedenti (il tutto, ricordiamolo, a spese dei contribuenti). Berlusconi è stato dunque, dal 1994 ad oggi, l'argine alla deriva giudiziaria che prese il via negli anni delle inchieste di Mani Pulite, quando un'intera classe politica e interi partiti che avevano scritto la storia democratica del nostro Paese vennero spazzati via dall'oggi al domani nei modi e coi metodi che tutti ormai dovrebbero conoscere: uno sputtanamento mediatico scientificamente coordinato, la diffusione generalizzata a mezzo stampa e tv di atti coperti dal segreto istruttorio e «misteriosamente» usciti dalle procure, la trasformazione dell'avviso di garanzia in avviso di condanna, un uso arbitrario della carcerazione preventiva. Una miscela esplosiva finalizzata ad ottenere soltanto un immediato risultato politico e non certo giudiziario, visto che, come documenta Carlo Giovanardi nel suo Storie di straordinaria ingiustizia (Mondadori, 2003), tirando le somme dei processi per Tangentopoli si scopre che le archiviazioni e le assoluzioni raggiungono quasi il 90% dei casi. Archiviazioni e assoluzioni giunte però dopo molti anni, quando ormai, come detto, il fine politico delle inchieste era stato raggiunto e la stragrande maggioranza degli imputati era uscita di scena sotto il peso della gogna mediatica.


E qui, in fondo, sta la differenza tra allora e oggi, tra i rappresentanti della Prima Repubblica e Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, ben comprendendo la natura precipuamente politica delle inchieste a suo carico, ha scelto di difendersi non soltanto nei processi, da cui egli è sempre uscito a testa alta, ma anche dai processi, denunciando pubblicamente, in innumerevoli occasioni, l'uso politico della giustizia di cui egli era oggetto, e sottolineando la necessità per un verso di porre mano ad una radicale riforma del sistema giudiziario e, per l'altro verso, di varare leggi volte a tutelare le istituzioni elette dal popolo da indebiti attacchi da parte della magistratura.


Chi oggi chiede a Berlusconi di dimettersi da presidente del Consiglio, di presentarsi davanti ai giudici di Milano e di difendersi di fronte a pm che per l'ennesima volta sembrano voler raggiungere primariamente obiettivi politici, non soltanto trascura la non irrilevante questione della competenza territoriale, non soltanto non tiene conto della sospetta tempistica dell'invito a comparire, non soltanto glissa sul reiterato utilizzo a strascico delle intercettazioni, ma anche e soprattutto mostra di non aver compreso che il vero, gigantesco problema dell'Italia non è la vita privata del premier, ma quello di settori della magistratura che da quasi vent'anni a questa parte tentano di ribaltare con i processi, o quanto meno con l'impatto mediatico delle inchieste, i risultati elettorali, espressione della volontà popolare che sta a fondamento della nostra democrazia. Per questo fa bene Berlusconi ad andare avanti, a resistere, infine a non presentarsi di fronte a quello che egli stesso ha definito un «plotone di esecuzione».


Gianteo Bordero

lunedì 17 gennaio 2011

E' L'USO POLITICO DELLA GIUSTIZIA LA VERA ANOMALIA ITALIANA

da Ragionpolitica.it del 17 gennaio 2011

L'uso politico della giustizia è un cancro che mina alla radice la tenuta del nostro sistema democratico, poiché altera in maniera sostanziale il principio della sovranità popolare, costituzionalmente cristallizzato nell'articolo 1 della Carta fondamentale. Quello che sta accadendo in questi giorni, con la nuova offensiva dei pm milanesi nei confronti del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, è l'ennesimo capitolo di una storia che si trascina ormai da quasi vent'anni, e che ha visto settori della magistratura proporsi sulla scena come i detentori ultimi del potere politico e delle stesse sorti del Paese, oltrepassando i confini delle prerogative che la Costituzione e le leggi assegnano al potere giudiziario. Ciò è stato possibile, a partire dal 1992-93, non soltanto a causa della consunzione del sistema sul quale si reggeva la Prima Repubblica, ma anche e soprattutto grazie alla carica ideologica che muoveva quella parte di giudici e pm che si riconosceva nella corrente di Magistratura Democratica, nata negli anni Sessanta del secolo scorso col preciso intento di travasare nell'amministrazione della giustizia le parole d'ordine della lotta di classe e della distruzione dello Stato borghese.


In questo senso, la «colpa» imperdonabile di Silvio Berlusconi è stata quella di dare voce ed espressione politica alla parte maggioritaria dell'elettorato italiano che si era riconosciuta per decenni nei partiti democratici e occidentali poi cancellati dalle inchieste di Mani Pulite, «scendendo in campo» proprio nel momento in cui la strada della conquista del potere sembrava aperta per gli eredi del comunismo, ai quali i membri di Magistratura Democratica si sentivano - ed erano - oggettivamente contigui. Questo è il «peccato originale» dell'avventura politica dell'attuale presidente del Consiglio. Per questo egli è stato considerato, da sùbito, come un usurpatore. Per questo al Cavaliere andava - e va tuttora - necessariamente riservato lo stesso trattamento applicato ai dirigenti della Dc, del Psi e dei loro alleati ai tempi della Prima Repubblica. Per questo l'uomo di Arcore deve essere abbattuto, come si suol dire, con le buone o con le cattive.


E non deve neppure sorprendere che i partiti della sinistra, un tempo schierati strenuamente in difesa del «primato della politica», cavalchino oggi, così come hanno cavalcato nei primi anni Novanta, le inchieste dei pm d'assalto contro coloro che sono stati liberamente eletti dal popolo per guidare il Paese. La ragione di ciò sta nel fatto che, dal punto di vista politico, la sinistra in Italia è morta con la caduta del muro di Berlino e con il crollo del mito della rivoluzione. Per questo la conquista del potere per via giudiziaria è apparsa, sin dai tempi di Tangentopoli, come la provvidenziale scorciatoia per raggiungere con mezzi non democratici ciò che era - ed è ancora oggi - impossibile raggiungere con i normali strumenti della democrazia, cioè il consenso popolare ed il voto. Abbracciare dogmaticamente e acriticamente il giustizialismo, se da un lato è stata una scelta dettata dallo stato di necessità, dall'altro ha accelerato il processo di esaurimento politico della gauche nostrana, assegnandole un ruolo ancillare rispetto a quello svolto dai magistrati e trasformandola in un semplice megafono delle procure, del tutto privo di qualsiasi autonomia programmatica e culturale.


Questo è lo stato delle cose che si protrae da più di tre lustri nel nostro Paese. Questa è la vera anomalia italiana: non quella di un imprenditore di successo che diventa leader politico e raccoglie la maggioranza dei consensi necessaria per governare, bensì quella di certa magistratura politicizzata che tenta di esercitare un potere che in democrazia spetta soltanto al popolo e ai suoi rappresentanti, e quella di una sinistra meschina che rinuncia alle sue prerogative e abdica al suo compito politico nella convinzione e nella speranza che possa essere una sentenza, o quanto meno la gogna mediatica alimentata dalle inchieste-spettacolo, a trasformarla come per magia da forza residuale in forza di governo. E' un disegno che da diciassette anni continua ad essere vanificato dalle vittorie di Berlusconi, ma che, come vediamo in questi giorni, è più vivo che mai. E' chiaro che in ballo non c'è soltanto il destino politico di un uomo, ma anche e soprattutto, come dicevamo, la qualità della nostra democrazia: per questo la capacità di resistenza del Cavaliere continua ancora oggi ad essere la migliore garanzia contro la riduzione a mero flatus vocis del primato della volontà popolare.


Gianteo Bordero

mercoledì 12 gennaio 2011

QUELLA "DESTRA CATTOLICA" PIÙ RATZINGERIANA DI RATZINGER

da Ragionpolitica.it del 12 gennaio 2011

Che delusione l'appello a Benedetto XVI contro lo «spirito di Assisi» firmato da alcuni giornalisti, studiosi e intellettuali cattolici, pubblicato sul Foglio di martedì 11 gennaio! Vogliono insegnare a Ratzinger come si fa il Papa e come si rispetta la Tradizione della Chiesa senza cedere al sincretismo e al relativismo. Vogliono insegnarlo proprio a colui che più di chiunque altro, in questi ultimi anni, ha denunciato con rigore assoluto e altrettanto assoluto vigore la «dittatura del relativismo» come male oscuro della nostra epoca e come sottile ma terribile minaccia alla «fede dei semplici». Vogliono dunque essere - o almeno apparire - più ratzingeriani di Ratzinger, mettendo in guardia nientepopodimeno che l'ex prefetto per la dottrina della fede dalla deriva progressista insita in ogni raduno interreligioso. Vogliono suggerirgli - per usare un eufemismo - di non seguire la strada percorsa dal suo predecessore Giovanni Paolo II, senza peraltro avere il coraggio di indicare esplicitamente il futuro beato (per volontà dello stesso Ratzinger) Karol Wojtyla come fautore del peggior sincretismo.


C'è da capirla, ma non da giustificarla, questa droite caviar cattolica che pretende di giudicare tutto e tutti dall'alto del suo snobismo pre-conciliare, del suo tradizionalismo ideologico che tratta il cristianesimo, anzi il fatto cristiano stesso, come se fosse un elenco di enunciazioni dottrinali astratte, fuori dalla storia, disincarnate, del tutto estrinseche all'esistenza umana con i suoi drammi e le sue domande nel qui ed ora. Credevano, i firmatari dell'appello apparso sul Foglio, che Benedetto XVI sarebbe stato il Papa del riflusso, del ritorno al bel tempo che fu, alla «scomunica» della nuovelle théologie, alla messa all'indice di De Lubac, di Von Balthasar e di Guardini, cioè dei maestri - in particolare gli ultimi due - del teologo Ratzinger. Del Ratzinger orgogliosamente conciliare. Del Ratzinger che sceglie la teologia medievale di san Bonaventura contro il bolso neo-tomismo di fine Ottocento e inizio Novecento. Del Ratzinger che recupera la liturgia tradizionale passando non per lo scismatico Lefebvre, ma per il movimento liturgico tedesco. E' lo stesso Ratzinger, questo, che scrive per Giovanni Paolo II uno dei documenti più duri contro il mito dell'equivalenza veritativa di ogni religione, cioè quella Dominus Jesus che nell'ultimo anno giubilare susciterà tanto scandalo negli ambienti progressisti ed ecclesialmente corretti. E' lo stesso Ratzinger che da Papa liberalizzerà il rito pre-conciliare e cancellerà la scomunica ai vescovi lefebvriani. Ed è, infine, lo stesso Ratzinger che criticherà il raduno interreligioso di Assisi 1986 non in quanto tale, ma per gli equivoci che esso generò nella «opinione pubblica» e soprattutto all'interno del cosiddetto «mondo cattolico».


Ma questo, agli zelanti custodi della vera Tradizione, non basta: il «dialogo» con i rappresentanti delle altre fedi andrebbe tout court archiviato, disprezzato, cancellato. Perché nella loro visione il cristiano, in quanto depositario di una verità sillogistica, deduttiva e - ripetiamolo - estrinseca qual è quella presentata da taluni maitre-a-penser di certa «destra cattolica», non ha bisogno di niente e di nessuno. Non passa per la testa di questi campioni del rigorismo che forse è proprio il mondo, forse sono le altre religioni ad aver bisogno dei cristiani, della loro speranza incarnata, del loro insuperato amore per il prossimo, del loro donarsi ad imitazione di Cristo, per costruire società più umane, più rispettose della dignità e dei diritti della persona, cioè più libere, come ha ricordato pochi giorni fa lo stesso Benedetto XVI nel suo mirabile discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. E ne hanno bisogno tanto più oggi, nel momento in cui il fondamentalismo religioso (islamico e indù in particolare) tenta di trasmettere l'idea - nei modi che tutti abbiamo sotto gli occhi in Egitto, Iraq, Pakistan, Nigeria e molti altri Paesi - secondo cui esiste una legittima violenza anti-umana perpetrata in nome di Dio e l'infedele può essere privato della sua dignità e della sua libertà sotto suggerimento e ordine dell'Altissimo.


Questo è ciò che Ratzinger, da cattolico, combatte da tanti anni. Questo è l'incompreso del discorso di Ratisbona, che non fu, tanto per essere chiari, un manifesto occidentalista, ma una seria proposta di rifondare il «dialogo» religioso sul logos comune a tutti gli uomini. Questo è ciò che non dicono i firmatari di quello che, a ben vedere, non è un «appello», ma una vera e propria «critica» preventiva a Benedetto XVI. Un Papa che nei loro schemi angusti avrebbe dovuto essere l'anti-Assisi, l'anti-Giovanni Paolo II e l'anti-Concilio, e che invece è semplicemente un fedele discepolo di Gesù, che in obbedienza alla Chiesa spende la sua vita per far conoscere Cristo e per corrispondere alla sua chiamata e al suo amore, non alle etichette che di volta in volta gli vengono appiccicate sopra da questa o quella corrente teologica o intellettuale.


Gianteo Bordero

martedì 4 gennaio 2011

IL MA-ANCHISMO, MALATTIA CONGENITA DEL PD

da Ragionpolitica.it del 4 gennaio 2011

Sulla vicenda Fiat bene Marchionne, ma anche la Fiom ha le sue ragioni. Sulle alleanze porte aperte al Terzo Polo, ma anche alla sinistra di Nichi Vendola. Sulle primarie non si torna indietro, ma occorre anche una riflessione sulla loro utilità. L'elenco potrebbe continuare, ma ci fermiamo ai tre temi di maggiore attualità. La sostanza è sempre la stessa: non c'è argomento all'ordine del giorno nel dibattito politico italiano su cui il Partito Democratico riesca ad assumere una posizione netta ed univoca, o di qua o di là: o con l'ad di Fiat o con i metalmeccanici Cgil, o per una strategia di centro-sinistra col trattino o per una riedizione sotto altre forme dell'Unione prodiana, o per le primarie o contro le primarie. E meno male che il «ma-anchismo» avrebbe dovuto essere archiviato assieme al suo fondatore e massimo propugnatore, l'ex segretario e candidato premier nel 2008, Walter Veltroni. Invece pare che questa perniciosa malattia politica sia congenita al partito che avrebbe dovuto rappresentare il nuovo volto della sinistra italiana, il salto in avanti verso una gauche moderna ed europea, dall'identità ben definita e con un programma chiaro, capace di contendere il governo del Paese al centrodestra berlusconiano.


Ma passano i giorni, passano gli anni, passano i segretari, e di questa identità e di questo programma non vi è neppure l'ombra. E' evidente, dunque, che non è soltanto un problema di persone, ma anche e soprattutto di Dna. Un problema, cioè, che riguarda l'essenza stessa e l'autocoscienza del maggiore partito di opposizione. Su questo punto, la confusione regna sovrana oggi così come regnava sovrana al momento della nascita del Pd. Romano Prodi e Arturo Parisi lo immaginavano e ne parlavano come lo spazio fisico del dossettismo realizzato, il luogo nel quale avrebbero dovuto finalmente fondersi, motivati dalla comune coscienza politica incardinata nella Costituzione del '48 e nell'antifascismo, cattolici e (post) comunisti; altri, come Massimo D'Alema e Franco Marini, lo consideravano un inevitabile matrimonio d'interesse nel quale le distinzioni culturali tra i due contraenti avrebbero dovuto rimanere tali; altri ancora, come Walter Veltroni, lo presentavano come il naviglio agile e leggero capace di andare oltre le appartenenze del passato ed intraprendere così la navigazione nel mare aperto del riformismo contemporaneo. Con prospettive così radicalmente diverse alle spalle - ognuna delle quali comportante scelte strategiche tra loro assai divergenti - era inevitabile che, senza una previa chiarificazione in proposito, il Partito Democratico finisse con l'impantanarsi nella palude che i suoi stessi fondatori avevano contribuito a creare. E così è accaduto.


Oggi, dunque, a più di tre anni di distanza dalla sua nascita, il Pd è di fatto costretto, nella perdurante incertezza circa la sua identità e la sua missione nel Paese e tra le forze presenti nel panorama politico nazionale, a oscillare perennemente tra posizioni di retroguardia, dettate dal retaggio ideologico dei partiti che in esso sono confluiti, e posizioni più moderne e all'avanguardia, che caratterizzano - o hanno caratterizzato negli anni scorsi - le più avanzate esperienze di governo della sinistra in Europa. Chi ha seguito, ormai più di un anno fa, il dibattito innescato da un articolo sul Messaggero in cui Romano Prodi imputava al nuovo laburismo blairiano di essere all'origine della perdita di identità della sinistra europea e la causa del suo cedimento a destra, può ritrovare ancora oggi la tensione tra queste due prospettive nel quotidiano dibattito politico interno al Pd. Un partito i cui segretari pro tempore, per non scontentare nessuno - né i «modernisti» né i «tradizionalisti» né coloro che stanno in posizione mediana - e per tenere in piedi la vacillante costruzione democrat, finiscono col dare ragione un po' agli uni e un po' agli altri, oppure a tutti contemporaneamente, e torto a nessuno. Con tanti saluti alla chiarezza, al programma e alla costruzione di un'alternativa credibile di governo. E con l'inevitabile conseguenza di rimanere ostaggi del «ma-anchismo», che ad oggi appare come l'unico tratto certo dell'identità del Pd.


Gianteo Bordero

venerdì 24 dicembre 2010

SANTO NATALE 2010