mercoledì 19 gennaio 2011

BERLUSCONI È L'ARGINE ALLA REPUBBLICA GIUDIZIARIA

da Ragionpolitica.it del 19 gennaio 2011

Politicanti senza spessore politico, personaggi di cui i libri di storia non faranno menzione alcuna, e ai quali si potrebbe applicare la famosa battuta di Fortebraccio ai tempi della Prima Repubblica: «L'auto blu si fermò. L'autista, rapidamente, corse a spalancare la portiera. Non scese nessuno: era Nicolazzi». Stiamo parlando di tutti coloro che in questi giorni e in queste ore, di fronte alla nuova offensiva dei pm contro il presidente del Consiglio, preferiscono anteporre il proprio misero tornaconto immediato (una manciata di voti oggi e qualche poltrona in più domani) alla tutela delle garanzie costituzionali e dell'equilibrio dei poteri sul quale si regge la nostra Repubblica. Non capiscono - o fanno finta di non capire - che, nella sciagurata ipotesi di annientamento di Berlusconi per via giudiziaria, il loro guadagno sarebbe incommensurabilmente minore rispetto al prezzo pagato dall'Italia intera e dalle sue istituzioni rappresentative.


Sarebbe infatti la consacrazione definitiva del principio secondo il quale i governi non vengono scelti dai cittadini attraverso libere elezioni, bensì, in ultima analisi, dai pubblici ministeri e dai giudici, che diverrebbero i detentori dell'ultima parola a proposito della legittimità politica di un esecutivo. Si potrebbe ancora definire «democrazia», questa? Evidentemente no. Ci troveremmo invece di fronte ad un esiziale rovesciamento della nostra forma di Stato: non più una Repubblica «democratica», bensì una Repubblica «giudiziaria» in cui la sovranità non apparterrebbe più, in ultima istanza, al popolo, bensì alla magistratura.


Se quest'ipotesi, negli ultimi diciassette anni, non è diventata realtà, è proprio grazie a Silvio Berlusconi. Egli ha saputo tenere testa con coraggio e determinazione ai suoi accusatori togati. E' riuscito a dimostrare la sua estraneità agli infamanti capi d'imputazione che di volta in volta gli venivano rovesciati addosso come se egli fosse il peggiore dei criminali in circolazione. Ha ribattuto efficacemente, colpo su colpo, a inchieste messe in campo con un dispiegamento di mezzi, risorse, uomini senza precedenti (il tutto, ricordiamolo, a spese dei contribuenti). Berlusconi è stato dunque, dal 1994 ad oggi, l'argine alla deriva giudiziaria che prese il via negli anni delle inchieste di Mani Pulite, quando un'intera classe politica e interi partiti che avevano scritto la storia democratica del nostro Paese vennero spazzati via dall'oggi al domani nei modi e coi metodi che tutti ormai dovrebbero conoscere: uno sputtanamento mediatico scientificamente coordinato, la diffusione generalizzata a mezzo stampa e tv di atti coperti dal segreto istruttorio e «misteriosamente» usciti dalle procure, la trasformazione dell'avviso di garanzia in avviso di condanna, un uso arbitrario della carcerazione preventiva. Una miscela esplosiva finalizzata ad ottenere soltanto un immediato risultato politico e non certo giudiziario, visto che, come documenta Carlo Giovanardi nel suo Storie di straordinaria ingiustizia (Mondadori, 2003), tirando le somme dei processi per Tangentopoli si scopre che le archiviazioni e le assoluzioni raggiungono quasi il 90% dei casi. Archiviazioni e assoluzioni giunte però dopo molti anni, quando ormai, come detto, il fine politico delle inchieste era stato raggiunto e la stragrande maggioranza degli imputati era uscita di scena sotto il peso della gogna mediatica.


E qui, in fondo, sta la differenza tra allora e oggi, tra i rappresentanti della Prima Repubblica e Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, ben comprendendo la natura precipuamente politica delle inchieste a suo carico, ha scelto di difendersi non soltanto nei processi, da cui egli è sempre uscito a testa alta, ma anche dai processi, denunciando pubblicamente, in innumerevoli occasioni, l'uso politico della giustizia di cui egli era oggetto, e sottolineando la necessità per un verso di porre mano ad una radicale riforma del sistema giudiziario e, per l'altro verso, di varare leggi volte a tutelare le istituzioni elette dal popolo da indebiti attacchi da parte della magistratura.


Chi oggi chiede a Berlusconi di dimettersi da presidente del Consiglio, di presentarsi davanti ai giudici di Milano e di difendersi di fronte a pm che per l'ennesima volta sembrano voler raggiungere primariamente obiettivi politici, non soltanto trascura la non irrilevante questione della competenza territoriale, non soltanto non tiene conto della sospetta tempistica dell'invito a comparire, non soltanto glissa sul reiterato utilizzo a strascico delle intercettazioni, ma anche e soprattutto mostra di non aver compreso che il vero, gigantesco problema dell'Italia non è la vita privata del premier, ma quello di settori della magistratura che da quasi vent'anni a questa parte tentano di ribaltare con i processi, o quanto meno con l'impatto mediatico delle inchieste, i risultati elettorali, espressione della volontà popolare che sta a fondamento della nostra democrazia. Per questo fa bene Berlusconi ad andare avanti, a resistere, infine a non presentarsi di fronte a quello che egli stesso ha definito un «plotone di esecuzione».


Gianteo Bordero

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