venerdì 28 gennaio 2011

GLI AFFANNI DI BERSANI

da Ragionpolitica.it del 28 gennaio 2011

Povero Bersani! Politico generoso ma senza carisma nel tempo delle leadership personali, egli viene di volta in volta eclissato da chi, nel Partito Democratico o nell'area del centrosinistra, si rivela dotato di un qualche appeal capace di esercitare una forte presa sull'opinione pubblica e sull'elettorato della gauche. Si chiami costui Matteo Renzi, Nichi Vendola, Walter Veltroni o Roberto Saviano, l'effetto è sempre lo stesso: l'attuale segretario del maggior partito dell'opposizione, che in via teorica potrebbe e dovrebbe legittimamente aspirare a diventare il leader indiscusso di tutto lo «schieramento avverso» al centrodestra, di fatto non riesce invece a porsi e proporsi come figura di riferimento dell'intero centrosinistra, e neppure dello stesso Pd.


Lo confermano due eventi accaduti negli ultimi giorni: da un lato il discorso di Walter Veltroni al Lingotto e soprattutto l'accoglienza che ad esso è stata riservata da Repubblica, dall'altro lato la denuncia di Roberto Saviano a proposito delle irregolarità nelle primarie napoletane del Pd per la scelta del candidato sindaco. Nel primo caso un editoriale di Eugenio Scalfari ha in sostanza riconosciuto all'iniziativa del già sindaco di Roma e già segretario democrat il merito di aver riportato il partito al centro della scena, svegliandolo dal torpore nel quale esso si trovava: Veltroni, secondo il fondatore di Repubblica, «ha parlato da leader, con la passione e l'eloquenza d'un leader ed anche con il senso di unità e di generosità che un leader deve avere, il desiderio di fare squadra, di rilanciare una scommessa all'insegna del cambiamento». E ancora: rispetto a Bersani, a D'Alema, a Franceschini, Veltroni «possiede un "in più" che nessuno degli altri ha: è capace di evocare un sogno». E' il «carisma», che «potrà funzionare oppure no», ma nel Pd Walter «oggi è il solo che possieda quel requisito». Un talento che Scalfari di fatto contrappone al «parlare paesano e colloquiale» di Bersani, il cui intervento al Lingotto dopo quello di Veltroni «faceva uno strano effetto, di quelli che spesso Crozza provoca quando lo imita a Ballarò». Bravo, buono, intelligente e pragmatico l'attuale segretario - dice in sostanza il padre di Repubblica - ma privo di quelle doti di leadership carismatica espresse dal suo predecessore. Considerato il peso che il quotidiano di Largo Fochetti ha nell'indirizzare gli umori dell'elettorato del Pd e del centrosinistra, è facile dedurre che per Bersani non si prospettino tempi tranquilli.


Cosa, questa, confermata anche dalla vicenda delle primarie napoletane e dalla «discesa in campo» di Roberto Saviano per chiederne l'annullamento. L'autore di Gomorra ha parlato di un risultato della consultazione distorto e inficiato da infiltrazioni esterne al partito, con l'attivismo di personaggi poco raccomandabili, «faccendieri che cercano voti e li comprano per poter poi chiedere in cambio, al candidato, poteri e favori». Voti comprati dai clan? «Non proprio, ma dagli eterni mediatori che vivono nello spazio tra la politica, l'impresa e la criminalità». Non certo una bella immagine, quella descritta da Saviano: «Le primarie di Napoli sono state davvero un grande caos, forse addirittura un'occasione persa e una brutta figura». La soluzione? Azzerare tutto e proporre alla città la candidatura del magistrato anti-camorra Raffaele Cantone. Risultato: Saviano chiama e Bersani risponde, congelando la proclamazione del vincitore delle primarie, commissariando il partito a Napoli e cancellando la prevista assemblea nazionale nel capoluogo campano. La domanda sorge spontanea: chi detta davvero la linea all'interno del Pd? La risposta oggi sembrerebbe essere: tutti tranne Bersani.


Su Saviano, in particolare, occorre sottolineare, anche alla luce dell'articolo in difesa dei pm milanesi pubblicato il 28 gennaio da Repubblica, che la sua influenza diretta sull'elettorato del Pd e indiretta sulla sua dirigenza può avere come conseguenza quella di cristallizzare in maniera irreversibile la figura dei democratici come «partito dei giudici», o peggio come «partito delle procure». Verrebbe così vanificato ogni sforzo compiuto dagli esponenti più riformisti per affrancarsi da quel giustizialismo che non a torto è stato descritto come la caratteristica principale del post-comunismo italiano a partire da Mani Pulite. Sarebbe un passo indietro che condannerebbe il Pd nella ridotta giacobina, archiviandone definitivamente ogni ambizione di proporsi all'elettorato come partito di governo dotato di un progetto complessivo per il sistema-Paese.

Gianteo Bordero

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