venerdì 24 dicembre 2010

SANTO NATALE 2010

giovedì 23 dicembre 2010

SESTRI LEVANTE. NO DEL PDL ALLA VARIANTE AL PIANO EX FIT

Articolo del gruppo consiliare del Popolo della Libertà di Sestri Levante, pubblicato sul numero di dicembre del giornalino comunale.

La nuova variante al Piano di Riqualificazione Urbana (PRU) delle aree ex Fit, votata dalla maggioranza in Consiglio Comunale il 29 ottobre, non corrisponde in alcun modo agli interessi generali della città. Basta analizzare i punti salienti della delibera per rendersene conto.


1) La zona di Cantine Mulinetti, peraltro giù pubblica, viene fatta entrare nel PRU in quanto altrimenti non sarebbe possibile, allo stato attuale delle cose, realizzare il parco urbano dovuto alla città secondo la Convenzione stipulata dieci anni fa con il proprietario delle aree ex Fit e con il soggetto attuatore del PRU. I terreni inizialmente individuati come sede del parco, infatti, sono stati nel frattempo occupati dal cemento. Inoltre, mentre nelle previsioni iniziali il parco doveva espandersi su 29.765 mq, nella variante l’area si riduce a 22.450 mq.


2) Lo scopo dell’operazione, in realtà, non è il verde. Tant’è vero che la Relazione illustrativa della variante non parla più semplicemente di “parco”, bensì di “parco-parcheggio”. Avremo quindi un posteggio di “interscambio” con 343 posti auto, che sostituirà l’attuale tratto stradale dell’Aurelia da Cantine Mulinetti a via Sedini, e un’area sosta per camper localizzata a ridosso della ferrovia (il posto ideale e più tranquillo per sostare con un camper!).


3) Ecco in arrivo anche un’autorimessa in via della Chiusa, nella zona adiacente alle nuove case. Un’opera su tre livelli interrati per un totale di 345 box. La destinazione d’uso di tale autorimessa – afferma la Relazione Illustrativa – “è di tipo privato, a servizio della residenza”. Qui è stata usata una parola sbagliata: il posteggio su tre piani non sarà “a servizio” della residenza, bensì “a pagamento” della residenza. L’introduzione nella variante della struttura interrata su tre livelli comporta inoltre ulteriore cementificazione per 10.323 mq. L’indirizzo politico è ancora una volta chiaro: prima il cemento e poi, se verranno, il verde e la politica ambientale.


4) A meno che non si voglia spacciare per politica ambientale la decisione, contenuta nella variante, di ridimensionare il nuovo collettore fognario. Che non arriverà più dalle aree dell’ex Tubifera fino al “depuratore” di Portobello, come inizialmente previsto, bensì si fermerà in Piazza Bo. Il resto lo farà il vecchio collettore, con risultati che possiamo prevedere esalanti.

5) I costi della variante. In totale, le previsioni parlano di un costo complessivo di 4.043.817,32 euro. Di questi, 1.409.317,32 deriveranno da oneri di urbanizzazione e oneri aggiuntivi. 210.000 euro arriveranno da altre risorse private. Le risorse pubbliche previste ammontano invece a 2.424.500 euro. Per l’ennesima volta il rapporto costi/benefici, tra risorse pubbliche impiegate e vantaggi per la città, è purtroppo sbilanciato a sfavore dei sestresi. Del resto, è così sin dagli inizi dell’operazione sulle aree ex Fit. E’ stato così, continua ad essere così.

Per questo abbiamo detto no alla variante e per questo, nei prossimi mesi, porremo in atto ogni iniziativa politica utile a contrastarla. Nel frattempo, cogliamo l’occasione per augurare a tutte le sestresi e a tutti i sestresi un buon Natale e un felice inizio di nuovo anno. Con la speranza che porti buone nuove.


Gianteo Bordero (capogruppo)

Marco Conti
Giancarlo Stagnaro

martedì 21 dicembre 2010

PD IN STATO CONFUSIONALE

da Ragionpolitica.it del 21 dicembre 2010

La confusione regna sovrana nel Pd. Solo poche settimane fa il segretario Pier Luigi Bersani aveva incontrato Nichi Vendola per stringere un patto elettorale che prevedeva le primarie di coalizione e, negli stessi giorni, aveva confermato l'alleanza con l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Oggi ecco il cambio di rotta. Basta sinistra e basta primarie. La nuova proposta è quella di un accordo con il nascente Terzo Polo formato da Udc, Fli, Api e Mpa. Un accordo che di politico, a ben vedere, avrebbe ben poco, e rischierebbe di risolversi nell'ennesimo sforzo per costruire un'armata Brancaleone senza altro contenuto concreto oltre al vecchio e mai domo antiberlusconismo. In casa democrat sono convinti di risolvere tutti i problemi con l'aritmetica: seduti a tavolino, calcolatrice alla mano, i vari Bersani, D'Alema e Franceschini fanno di calcolo e si convincono che la somma di Pd + Udc + Fli + Mpa risulterà superiore a quella ottenuta mettendo insieme Pd + Sel + Idv.


Peccato soltanto che non facciano i conti, come del resto è loro usanza, con la realtà. Cioè con il loro elettorato. Che, come emerge da numerosi sondaggi (Repubblica esclusa, guarda caso), preferirebbe di gran lunga andare alle urne in compagnia del governatore pugliese e dell'ex pm piuttosto che con i moderati Casini e Rutelli e con l'ex fascista Fini. Tanto più che, in una ipotetica alleanza con il Terzo Polo, al primato numerico del Partito Democratico non corrisponderebbe un altrettanto chiaro primato politico, con tanti saluti alla vocazione maggioritaria sotto la cui stella era nato il Pd. Sarebbe una curiosa riedizione del centro-sinistra col trattino, ma priva di quel collante, quel minimo di coerenza politica di fondo che procurò molte fortune a questa formula nei passati decenni della nostra storia repubblicana. In questo caso avremmo al massimo un matrimonio d'interessi senza una comune cultura politica. Avremmo la somma di ambizioni particolari di corto respiro e non un progetto organico di governo del Paese.


Ha dunque buon gioco Nichi Vendola a denunciare la debolezza costitutiva di tale progetto, a sottolinearne lo scollamento dai problemi reali dell'Italia, a evidenziare il carattere non politico di un'operazione che sembra finalizzata più a garantire rendite di posizione immediate alla classe dirigente del Partito Democratico che non a proporre al popolo della sinistra una forte alternativa programmatica al centrodestra. Curiosamente, assistiamo qui ad un inaspettato rovesciamento di ruoli: non sono più i «moderati» - si fa per dire - del Pd, bensì i partiti più radicali della sinistra a invocare un'uscita dall'antiberlusconismo fine a se stesso come criterio per costruire le coalizioni. E' il presidente della Regione Puglia a chiedere un ritorno alla politica e ai contenuti, mentre l'ex margheritino Dario Franceschini usa toni estremistici da Cln contro il presidente del Consiglio per giustificare le scelte del suo partito.


Di certo archiviare le primarie e fare del Pd la seconda gamba di una strana alleanza con i nemici di un tempo segnerebbe a suo modo una svolta rispetto alle prospettive con cui il partito era nato e si era mosso sino ad ora. Una svolta che però è soltanto tattica, e a cui non corrisponde un altrettanto significativo cambio di rotta per ciò che concerne l'autocoscienza del Pd, la definizione della sua identità, la rielaborazione della sua cultura politica, se mai ne ha avuto una. Se una simile operazione dovesse andare in porto - ed è lecito nutrire più di un dubbio in proposito, considerate le ultime dichiarazioni di Casini - il risultato sarebbe quello di regalare la golden share della sinistra a Vendola e quella del centro (o meglio del «centrino», per dirla con Paolo Bonaiuti) a Udc & CO: così sarebbe definitivamente compiuta la lunga marcia del Pd verso la totale irrilevanza nel panorama politico italiano.

Gianteo Bordero

giovedì 16 dicembre 2010

IL POLO DELLA CONFUSIONE

da Ragionpolitica.it del 16 dicembre 2010

L'annunciato «Terzo Polo» assomiglia all'Araba Fenice: tutti ne parlano, ma nessuno sa in realtà di che cosa effettivamente si tratti. L'unica certezza al riguardo è che non ci sono certezze. L'alleanza tra Casini, Fini, Rutelli e Lombardo nasce infatti all'insegna della confusione. Centrismo come dice l'Udc? Nuovo centrodestra come vaticina Futuro e Libertà? Area di responsabilità come auspica l'Api? Chi vivrà vedrà...


Quello che però già oggi si può dire è che questa coalizione sorge sotto la stella della cocente sconfitta subìta alla Camera dei deputati in occasione del voto di fiducia di martedì, quando un Silvio Berlusconi dato ormai politicamente per morto ha fornito l'ennesima dimostrazione di forza e vitalità. Come inizio non c'è male. E niente può fugare l'impressione che la riunione convocata mercoledì per annunciare con toni altisonanti la nascita del «Polo della Nazione» sia servita, molto più prosaicamente, soltanto a dare ossigeno al vero sconfitto della votazione a Montecitorio, cioè Gianfranco Fini. Il quale, fallito l'assalto al presidente del Consiglio, al termine della sua lunga marcia antiberlusconiana si è ritrovato sull'orlo del precipizio, con un piede già nel vuoto e l'altro pericolosamente malfermo sul ciglio del burrone. Per salvarlo è dunque arrivata la Croce Rossa dell'Udc. Con la conseguenza che domani Casini potrà a buon titolo rivendicare la leadership del Terzo Polo, mentre il fondatore di Fli dovrà ingoiare di buon grado il rospo di essere ancora una volta il numero due. Complimenti davvero, onorevole Fini.


Andando al di là di questa motivazione contingente, tattica più che strategica, poco o nulla di politicamente sostanzioso si può dire al riguardo del sedicente «Nuovo Polo», salvo contestare proprio la definizione di «nuovo» che ad esso è stata assegnata. Che cosa c'è di «nuovo», infatti, in una coalizione i cui leader (o almeno alcuni di essi, e già questa mancanza di unità la dice lunga sul respiro politico di questa alleanza) ripetono un giorno sì e l'altro pure che il bipolarismo italiano ha fallito e che è un modello da archiviare quanto prima? Che cosa c'è di «nuovo» nell'invocare ad ogni piè sospinto la cancellazione dell'attuale legge elettorale, che grazie al premio di maggioranza consente quel minimo di governabilità che è sempre mancato agli esecutivi della nostra Repubblica? Che cosa, ancora, c'è di «nuovo» nel riproporre quell'assetto istituzionale esasperatamente partitocentrico che gli italiani hanno dimostrato di voler superare già dai primi anni Novanta del secolo scorso? Se proprio vogliono darsi un nome adeguato alla cosa, i protagonisti di questa nuova aggregazione possono definirsi come «Polo della Nostalgia».


Se l'adesione di Fini era di fatto obbligata per tentare di sopravvivere, e se l'Api di Rutelli naviga costantemente sotto l'1% dei consensi, una parola va detta sulla scelta di Pier Ferdinando Casini, il cui intestardirsi in un progetto palesemente antistorico e di piccolo cabotaggio lascia quanto meno a desiderare e fa sorgere più di un interrogativo circa i veri scopi che l'Udc si prefigge con la sua azione. Se fine supremo del partito di Casini fosse quello di dare forza alla presenza dei cattolici in politica e respiro al popolarismo europeo di matrice cristiana, egli ci avrebbe pensato non una, ma cento volte prima di imbarcare Gianfranco Fini, che - come ha scritto un lettore di Avvenire in una missiva pubblicata giovedì - «non appartiene alla cultura politica "di centro" e calpesta i "principi non negoziabili" dell'agire politico del cattolico». Inoltre, ovunque in Europa i partiti appartenenti al Ppe sono rigorosamente collocati nel centrodestra, in alternativa alla socialdemocrazia e al centrosinistra. Sarà forse anche per questo che una figura di spicco della Chiesa come il cardinale Camillo Ruini, intervenendo alcuni giorni fa ad un convegno sui 150 anni dell'unità d'Italia, ha ribadito che il bipolarismo, la legge elettorale di impianto maggioritario, il rafforzamento dei poteri del governo all'interno della prossima articolazione federale dello Stato devono essere i punti cardine del nuovo assetto istituzionale del Paese. Punti che proprio il partito di Casini contrasta alla radice. Alla luce di tutto ciò, la domanda sorge dunque spontanea: dove va l'Udc con il suo «Terzo Polo»?

Gianteo Bordero

GIOIA E DOLORE (Stadio)

martedì 14 dicembre 2010

LA VITTORIA DI BERLUSCONI, LA SCONFITTA DI FINI

da Ragionpolitica.it del 14 dicembre 2010

Il berlusconicidio è fallito. Silvio vince, resta in sella, ottiene una fiducia alla Camera che solo quindici giorni fa sembrava impossibile conquistare, almeno a sentire giornali, tv e opposizioni varie. Lo davano ancora una volta per morto, e ancora una volta devono prendere atto che il Cavaliere è come i gatti: ha sette vite, e proprio quando lo si dà per perso rieccolo fare nuovamente capolino in piena salute. E' la conferma che dopo sedici anni la maggior parte del ceto politico e intellettuale, della grande stampa e degli opinion makers, non ha ancora compreso l'uomo Berlusconi, la forza della sua leadership, la robustezza di ciò a cui egli ha dato politicamente vita dal 1994, con il consenso maggioritario del popolo italiano.


Ancora ieri bastava ascoltare i tg e i programmi di approfondimento per sentire gli esponenti della galassia antiberlusconiana annunciare l'imminente Caporetto del presidente del Consiglio, la sua disfatta finale, l'archiviazione di un ciclo, la fine di un'epoca, il tramonto di un progetto politico, la rovinosa caduta da cavallo di un condottiero stanco e non più in grado di guidare il suo esercito prossimo all'umiliazione.


Invece Silvio è ancora in piedi. E il valore simbolico della votazione alla Camera va ben oltre il valore numerico. Oggi vincere o perdere a Montecitorio, anche se solo per un voto o per un pugno di voti, non era la stessa cosa. Perché in ballo non c'era solamente la sopravvivenza di un governo, ma anche e soprattutto il significato di simbolo che era stato attribuito a questa giornata. Di mezzo, cioè, c'era l'aria da nuovo 25 aprile iniettata in dosi industriali dall'esercito antiberlusconiano al gran completo, a partire dal Pd e dall'Idv per arrivare a Fini, passando per le truppe di complemento giornalistiche, La Repubblica, Il Fatto, L'Unità e simili. Tutti insieme hanno creato un clima torrido da liberazione dal tiranno, certi che questo sarebbe stato il gran giorno, la volta buona, la data da segnare in rosso sul calendario e da tramandare ai posteri, il momento catartico, l'istante in cui il sogno si materializza e diventa realtà.


Tutto questo non si è avverato, e chi ha seminato vento ora raccoglierà tempesta. Perché il pallino del gioco è tornato saldo nelle mani di Berlusconi. Perché la sua figura ne esce rafforzata. Perché la sua leadership sul centrodestra si è rivelata a prova di bomba, cioè a prova di giochi di Palazzo, tradimenti e congiure varie. Come diceva Machiavelli, citato ieri sul Corriere della Sera da Pierluigi Battista, «per esperienzia si vede molte essere state le coniure, e poche aver avuto buon fine», con conseguenze disastrose per i «coniurati». «Se le controffensive non riescono - ha chiosato Battista in riferimento alla mozione di sfiducia promossa da Futuro e Libertà - gli effetti sono disastrosi per chi ha attaccato con troppa e velleitaria frettolosità. La sfiducia a Berlusconi voleva dire infliggere il colpo definitivo al premier. Ma se quel colpo va a vuoto, il contraccolpo sarebbe violentissimo per chi fallisce l'obiettivo».


E' Gianfranco Fini, dunque, il vero sconfitto del voto alla Camera. E' lui che ha perso la partita della vita. E' lui che ha puntato tutto sulla sfiducia al presidente del Consiglio. E' lui che ha dimostrato una totale mancanza di saggezza e lungimiranza politica con la sua strategia antiberlusconiana messa in campo da un anno e mezzo a questa parte. E' lui che ha flirtato con i nemici storici del Cavaliere per tentare di mettere insieme i numeri per farlo cadere. E' lui che più di tutti ne ha chiesto le dimissioni in questi ultimi mesi. Ed è lui, quindi, che paga e pagherà il prezzo più salato di questa sconfitta che fa finalmente piazza pulita di tutto il fango gettato addosso a Berlusconi dai pasdaran di Futuro e Libertà. Il fango passa, il governo resta. Silvio vince, Gianfranco perde. Vince l'interesse nazionale, perdono i personalismi senza costrutto.


Gianteo Bordero

martedì 7 dicembre 2010

IL SENSO DI RESPONSABILITÀ E I SUOI NEMICI

da Ragionpolitica.it del 7 dicembre 2010

I giochetti di Palazzo e le alchimie da Prima Repubblica dovrebbero lasciare spazio, nell'attuale frangente, al senso di responsabilità di fronte ai rischi di attacco al nostro Paese da parte della speculazione finanziaria internazionale. Come ha ricordato qualche giorno fa il presidente del Consiglio, la solidità politica dell'esecutivo è la conditio sine qua non per rimanere al riparo da manovre simili a quelle che hanno colpito altri Stati del Vecchio Continente nei mesi scorsi.


Come ormai unanimemente riconosciuto nelle più prestigiose sedi europee e mondiali, il governo Berlusconi ha avuto il merito, con la politica di rigore portata avanti in questi due anni dal ministro Giulio Tremonti, di tenere i conti in ordine e di impostare una coraggiosa linea d'intervento volta alla riduzione dei costi dell'apparato statale, all'eliminazione degli sprechi e al contenimento del deficit. Quest'azione del ministro dell'Economia è stata possibile proprio perché essa si inseriva nel quadro di un esecutivo forte, capace di resistere al canto delle sirene della spesa pubblica, di non lasciarsi ammaliare dal mito del deficit spending come strumento per mantenere il consenso sociale.


E' stata, questa, una politica di alto profilo e di grande responsabilità, che gli italiani hanno mostrato di apprezzare, consapevoli dei rischi a cui il Paese sarebbe andato incontro qualora fosse stata messa in campo una strategia diversa quando non opposta. Del resto, sin dalla campagna elettorale del 2008 il Popolo della Libertà aveva detto chiaro e tondo che sarebbe arrivata la crisi e, con essa, anni difficili e di vacche magre, mentre il Partito Democratico si esercitava a proporre ai cittadini un libro dei sogni che, per essere attuato, avrebbe comportato un aumento sconsiderato della spesa pubblica, con tutte le esiziali conseguenze del caso. Votando il centrodestra e il governo Berlusconi, gli elettori hanno detto sì alla sua politica economica, dimostrandosi per l'ennesima volta più realisti e più maturi di tanti loro rappresentanti ancora legati ai bei tempi andati della lira e delle cosiddette «svalutazioni competitive».


Dunque, se l'Italia non ha fatto la fine della Grecia e non è stata inghiottita dalla speculazione finanziaria, ciò è dovuto al combinato disposto di stabilità politica e stabilità economica garantita dall'esecutivo Berlusconi in questi due anni. Questo elemento dovrebbe esser tenuto bene a mente da tutti coloro che, da un po' di mesi a questa parte, giocano una partita allo sfascio della maggioranza parlamentare soltanto nominalmente in ragione di un'altra politica (quale?) e di un altro programma di governo (quale?), mentre di fatto operano solo sulla base di personali ambizioni di potere. Ambizioni che, per quanto legittime, dovrebbero cedere il passo al senso di responsabilità nazionale, quella vera e non quella declamata al sol fine di ipotizzare scenari ambigui e confusi, la cui unica ragion d'essere è la volontà di escludere dalla scena colui che è stato liberamente scelto dai cittadini per guidare il Paese.


Oggi, a una settimana dal decisivo voto di fiducia alle Camere del 14 dicembre, dev'essere chiaro che una eventuale interruzione del cammino del governo Berlusconi, che ha fin qui operato molto bene nel difficile contesto dato, non potrà non essere intestata a coloro che hanno preferito anteporre all'interesse generale dell'Italia (come detto, la stabilità politica ed economica) il proprio particulare. A coloro che hanno rimesso in pista i peggiori tatticismi del passato e i peggiori rituali della vecchia partitocrazia, con l'unico scopo di abbattere un solo uomo e indebolire la sua leadership nella quale la maggioranza dei cittadini si è riconosciuta nel 2008 e nelle successive elezioni europee ed amministrative del 2009 e 2010. Invocare un governo sostenuto anche da Pdl e Lega e magari guidato da uno degli uomini più vicini al Cavaliere («TTB, Tutti Tranne Berlusconi», come ha scritto Il Foglio di Giuliano Ferrara commentando la posizione dei terzopolisti) è la conferma che nella testa dei centristi il primato non spetta alla tenuta del Sistema-Paese, ma soltanto alla mai sopita ed immarcescibile ossessione antiberlusconiana.

Gianteo Bordero

mercoledì 1 dicembre 2010

SE IL PARTITO DEMOCRATICO TEME LA DEMOCRAZIA…

da Ragionpolitica.it del 1° dicembre 2010

Un partito che si fregia del titolo «democratico» e che, allo stesso tempo, teme l'espressione massima della democrazia, cioè il voto popolare? Succede anche questo, in Italia, sul finire dell'anno di grazia 2010. Il gioco è semplice: dichiarare con teatrale sussiego che nell'attuale frangente le elezioni sarebbero una sciagura per il Paese al sol fine di non ammettere che la vera sciagura in caso di chiamata alle urne dei cittadini sarebbe quella che, per l'ennesima volta, toccherebbe in sorte a lor signori. A D'Alema, a Veltroni, a Bersani, tutte facce della stessa medaglia, figure intercambiabili di un postcomunismo italiano che, a conti fatti, non ha mai del tutto rinunciato all'antico vizietto di considerare il responso popolare come un fattore secondario rispetto al fine primario della presa del potere. E se il fine giustifica i mezzi, ben venga anche un governo non eletto, un ribaltone che sovverta la volontà del popolo, un compromesso storico con l'innominabile nemico di un tempo. Tutto fa brodo per insediarsi a Palazzo.


Gira che ti rigira, questo è il succo della questione. Questo è il senso, neppure troppo velato, delle dichiarazioni rilasciate in questi giorni dai massimi esponenti del Pd, a partire dall'intervista a D'Alema pubblicata domenica sul Messaggero. Guai a portare il Paese al voto in un momento come questo! Guai a esporre l'Italia al vento della speculazione internazionale! Per carità, argomenti validi se utilizzati da chi, avendo ottenuto il consenso maggioritario dei cittadini e trovandosi sulle spalle l'onore e l'onere di governare e di tenere la barra dritta in mezzo ai marosi della crisi, richiama tutte le forze di maggioranza al senso di responsabilità, invitandole a non gettare il Paese nell'instabilità e nel caos in nome di pur legittime ambizioni personali. Ma usati da partiti che stanno all'opposizione e che in teoria, in un sistema democratico, dovrebbero volere al più presto una legittimazione popolare per diventare maggioranza e mettere in atto un diverso programma e una ricetta alternativa di governo, questi stessi argomenti assumono tutt'altro sapore. Tanto più se si hanno sotto mano sondaggi che vedono la principale forza dello schieramento di minoranza in costante affanno. E tanto più se la coalizione di governo, nonostante tutto quello che è capitato in seno al partito di maggioranza relativa negli ultimi mesi, continua a risultare la più gradita dagli italiani.


E allora è chiaro che la proposta dei vertici del Partito Democratico di dare vita ad un esecutivo che tenga insieme Bersani, Fini, Di Pietro e Casini non ha, non può avere altro fine se non quello di evitare il ricorso alle urne. Anche perché un governo di tal fatta non potrebbe mai, ragionevolmente, dare quelle risposte in nome delle quali esso viene invocato dallo stratega D'Alema: quali miracolose ricette anticrisi e quale ardito programma di incisive riforme sociali potrebbero avere in comune Fli, Udc, Pd e Idv? In realtà, essendo non una visione condivisa del Paese bensì l'antiberlusconismo l'unica forma politica di questa nuova versione del Cln, è evidente che la sola riforma che questo coacervo di forze potrebbe mettere in opera è quella della legge elettorale, per cancellare il premio di maggioranza e impedire un altro giro di valzer del Cavaliere a Palazzo Chigi. Altro che preoccupazione per l'economia! Altro che amor di patria in un momento difficile!


E se poi finisse che le manovre di Palazzo non vanno in porto e ci saranno davvero le elezioni anticipate? Nessun problema, sempre lo statista D'Alema ha già pronta la soluzione: allargare il Cln anche a Nichi Vendola e alla sua sinistra dura e pura, che di resistenza se ne intende, pensando così di assestare il colpo finale al duce di Arcore. Il leader Massimo fa la somma a tavolino dei voti che vanno da Fli a Sel, ma come spesso gli accade fa i conti senza l'oste: il popolo italiano e quella maggioranza silenziosa dei moderati che già in più di un'occasione hanno dimostrato di non credere nella «gioiosa macchina da guerra», e che non crederebbero neppure alla sua ennesima riedizione.

Gianteo Bordero