sabato 30 ottobre 2010

SESTRI LEVANTE. AREE EX FIT, AL PEGGIO NON C'È MAI FINE

Testo dell'intervento che ho tenuto durante il Consiglio Comunale del 29 ottobre 2010 in merito alla variante al Piano di Riqualificazione Urbana delle aree ex Fit di Sestri Levante.

Vi sono due domande fondamentali che questa sera ci dobbiamo porre, in ordine alla nuova variante al Piano di Riqualificazione Urbana delle aree ex Fit sottoposta alla nostra attenzione. Due domande molto semplici e strettamente collegate tra loro. La prima: questa variante corrisponde agli interessi generali della città? La seconda: questa variante prevede più cemento o meno cemento a Sestri Levante? E’ dalla risposta a tali quesiti che credo debba dipendere il voto che il Consiglio Comunale e i gruppi che ne fanno parte esprimeranno al termine di questa discussione. Non sono domande capziose, perché è evidente che quella delle aree ex Fit e delle scelte che per tali aree sono state compiute è una questione che non soltanto riguarda una parte significativa del territorio di Sestri Levante, ma anche e soprattutto riflette l’indirizzo amministrativo che ha guidato l’azione delle Giunte che hanno governato la città negli ultimi quattordici anni. Quello che è stato realizzato a partire dall’elaborazione del PRU per le aree ex Fit reca su di sé il segno da un lato della de-industrializzazione, dall’altro lato della cementificazione e della progressiva saturazione del territorio, segnali evidenti, questi ultimi, di una preoccupante assenza di una politica ambientale degna di tal nome.


Tornando alle due domande che ho posto all’inizio, per arrivare a formulare una risposta ad esse è necessario prendere in esame i punti centrali della variante per poi inserirli in un quadro d’insieme.


Il primo punto nevralgico della delibera che andremo tra poco a votare consiste nell’inclusione dell’area comunale di Cantine Mulinetti all’interno del perimetro del PRU delle aree ex Fit. Tale scelta viene spiegata, nella Relazione Illustrativa della variante, con motivazioni – cito testualmente – “legate prioritariamente alla bonifica dell’area industriale dismessa ed alla volontà della Civica Amministrazione di realizzare un Parco con caratteristiche di elevata qualità paesaggistica e funzionale, obiettivo difficilmente raggiungibile – prosegue la Relazione – limitando la zona verde all’area ex Fit”. Alcune domande sorgono spontanee: non sarebbe stato meglio, da tutti i punti di vista, come peraltro previsto inizialmente, mettere in opera una radicale bonifica del sottosuolo di un territorio caratterizzato, come si poteva leggere nello Studio di Impatto Ambientale redatto nel 1998 dallo studio Apua, da “un forte livello di inquinamento”? Solo oggi ci si rende conto che la scelta compiuta in luogo dell’originaria previsione di modalità di bonifica ha creato, come esplicitamente scritto nella Relazione Illustrativa, “la necessità di rinunciare agli originari obiettivi e caratteri compositivi degli spazi verdi?” E ancora, solo oggi ci si rende conto – cito sempre dalla Relazione – che “la decisione di prevedere la realizzazione di un complesso sportivo in una porzione dell’area destinata a parco… ha consistentemente ridotto gli spazi disponibili per le sistemazioni del verde e creato le condizioni per un ripensamento complessivo di assetti e funzioni del cosiddetto parco urbano”? E infine, solo oggi si scopre che – leggo ancora dalla illuminante Relazione Illustrativa – “la collocazione in sicurezza dei terreni inquinati provenienti dagli scavi della UA4 sull’area destinata a parco ha creato l’ultimo e rilevante vincolo… su di una ulteriore parte dell’area destinata a parco”?


In attesa di una risposta da parte dell’Amministrazione, che certo non può fingere di essere arrivata oggi alla guida della città, quello che appare chiaro è che in seguito alle scelte operate negli anni scorsi sulle aree ex Fit non sarebbe possibile, allo stato attuale delle cose, realizzare il cosiddetto “polmone verde” della città, il tante volte annunciato parco urbano. La conferma sta nei numeri riportati dalla Relazione Illustrativa del progetto, nella parte relativa al confronto tra il PRU vigente e la variante. Nel progetto approvato nel 1999 era prevista la sistemazione di un’area di 29.765 mq a parco. Nella variante propostaci questa sera l’area destinata a parco si riduce a 22.450 mq, ricadente per 12.690 mq nel comparto ex Fit e per 9.760 mq nelle aree del sedime dell’Aurelia e di Cantine Mulinetti. Insomma, il concetto è chiaro: no Mulinetti, no Parco. E’ l’ennesima conferma del fatto che questa Amministrazione ha dato priorità assoluta non al verde e all’ambiente, come richiesto dai cittadini, bensì alla cementificazione ed alla saturazione del territorio. Non è un’opinione del sottoscritto, ma è ciò che emerge, come abbiamo visto, dagli stessi documenti allegati al progetto di variante.


Ma poi – e vengo al secondo punto nodale della delibera – è veramente il recupero di spazi per la realizzazione del Parco lo scopo della variante? Se stiamo ancora una volta a quanto scritto nella Relazione Illustrativa, la risposta è purtroppo negativa. Tant’è vero che la Relazione compie un mutamento linguistico di non poco conto, e non parla più semplicemente di “parco”, bensì di “parco-parcheggio”. E con ciò è detto tutto: non si tratta in primo luogo di realizzare quello che da molti anni la città attende – il parco appunto – e che alla città è dovuto secondo le previsioni della prima Convenzione stipulata con il proprietario delle aree ex Fit e con il soggetto attuatore del PRU. No, la priorità assoluta è quella di nuovi parcheggi, come peraltro si desume in maniera chiara anche dalla tabella contenente il cronoprogramma della variante. Avremo quindi un parcheggio alberato di interscambio con 343 posti auto e un’area sosta per camper localizzata a ridosso della ferrovia (il posto ideale e più tranquillo per sostare con un camper!).


Ma non è tutto. Perché - e così vengo al terzo punto centrale della delibera - ecco arrivare anche un’autorimessa privata in via della Chiusa, nella zona classificata come UA4. Un’autorimessa su tre livelli interrati (per un totale di 345 box) con sistemazione esterna a verde e parcheggi (86 posti auto pubblici). La destinazione d’uso di tale autorimessa – afferma la Relazione Illustrativa – “è di tipo privato, a servizio della residenza e delle attività del terziario presenti nell’area”. Credo che in questo caso si sia usata una parola sbagliata: il posteggio su tre piani non sarà “a servizio” della residenza, bensì “a pagamento” della residenza. Infatti, come è evidente, i primi beneficiari della costruzione dell’autorimessa, la cui realizzazione – guarda caso – ha la priorità nel cronoprogramma della variante, non saranno di certo i sestresi. Ancora una volta, dunque, prima il cemento, e poi, se verrà, il verde. Andando anche in questo caso a fare il raffronto tra il PRU vigente e la variante, si nota che l’introduzione della struttura interrata su tre livelli comporta ulteriore cementificazione per 10.323 mq. L’indirizzo politico è chiaro: prima la saturazione del territorio e poi, se verrà, la politica ambientale.


A meno che non si voglia spacciare per politica ambientale - e passo così al quarto punto importante - la decisione, contenuta nella variante, di ridimensionare la previsione del nuovo collettore fognario. Che non arriverà più dalle aree dell’ex Tubifera fino al cosiddetto “depuratore” di Portobello, bensì si fermerà in Piazza Bo. Il resto lo farà il vecchio collettore, con risultati che possiamo prevedere esalanti. E’ l’ennesima dimostrazione, questa, dell’attenzione che l’attuale Amministrazione riserva all’ambiente, in continuità ideale e reale con coloro che tempo addietro decisero che il luogo migliore per costruire un depuratore a Sestri Levante era nientepopodimeno che la Baia del Silenzio.


Quinto punto. I costi degli interventi previsti dalla variante che stiamo discutendo. In totale, le previsioni, come da tabella allegata agli atti, parlano di un costo complessivo di 4.043.817,32 euro. Di questi, 1.409.317,32 deriveranno da oneri di urbanizzazione e oneri aggiuntivi. 210.000 euro arriveranno poi da altre risorse private. Le risorse pubbliche previste ammontano invece a 2.424.500 euro. In considerazione delle osservazioni precedenti, mi pare che ancora una volta il rapporto costi/benefici, tra risorse pubbliche impiegate e vantaggi per la città sia purtroppo sbilanciato a sfavore dei sestresi. Del resto, è così sin dagli inizi dell’operazione sulle aree ex Fit. E’ stato così, continua ad essere così.


Non si vede dunque, in questa delibera, alcun significativo mutamento di rotta rispetto al passato. Non c’è discontinuità, non c’è un minimo di autocritica, non c’è insomma la consapevolezza del fatto che le scelte compiute sulle aree ex Fit sono state un danno, e non un vantaggio, per la città. L’unica cosa che si riesce a dire di fronte al provvedimento che tra poco voteremo è che si tratta solo nominalmente di una “variante”, mentre sostanzialmente non fa che confermare le scelte di fondo di un piano nato male e che rischia di finire peggio, propagando i suoi effetti negativi per molto tempo ancora. Immaginiamo per un attimo di essere un sestrese del futuro che fra trent’anni, in una serata come questa, transita nelle aree ormai ribattezzate, con un acronimo, CML. Immaginiamo il suo sguardo triste di fronte alle tapparelle chiuse, alle seconde case vuote, ai parcheggi deserti, all’area camper senza camper. Gli sembrerà di essere come il protagonista del più bel romanzo di Dino Buzzati “Il deserto dei Tartari”: “Là dove la strada finisce, fermo sulla riva di un mare di piombo – in questo caso di cemento – tutto così da immemorabile tempo”.

Gianteo Bordero
Capogruppo “Il Popolo della Libertà” - Sestri Levante 

martedì 26 ottobre 2010

COME SI VINCE A WATERLOO

L'ALTERNATIVA A BERLUSCONI? IL RITORNO DELLA PARTITOCRAZIA

da Ragionpolitica.it del 26 ottobre 2010

Che cosa teorizzano, in realtà, coloro che oggi caldeggiano la nascita di un governo di transizione alternativo al governo Berlusconi? Niente di più e niente di meno che il ritorno alla partitocrazia. Le giustificazioni (la necessità di modificare la legge elettorale e di gestire in modo diverso la crisi economica) che i vari D'Alema, Casini, Fini adducono per motivare siffatta proposta altro non sono altro che lo specchietto per le allodole con cui essi tentano di nobilitare un'operazione che di nobile ha davvero poco. Si tratta, in sostanza, di una prospettiva che riporterebbe il nostro Paese agli anni peggiori della Prima Repubblica, quando la democrazia parlamentare compiuta alla quale aveva lavorato Alcide De Gasperi degradò verso quella forma di regime partitocratico e consociativo che si è protratta fino all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso.


De Gasperi aveva compreso che il problema centrale derivante dall'assetto istituzionale prodotto dalla Carta del '48 era l'assenza di un vero statuto di governo, tale cioè da garantire robustezza e continuità all'azione riformatrice dell'esecutivo. Occorreva, a Costituzione invariata, affermare con chiarezza l'idea secondo la quale compito supremo del parlamento è quello di esprimere una solida, stabile e coesa maggioranza di governo. Egli tentò di realizzare la sua intuizione con la legge elettorale varata, dopo molte polemiche e un forte ostruzionismo delle opposizioni, nei primi mesi del 1953. La nuova normativa prevedeva la possibilità dell'apparentamento di due o più partiti e, assieme a ciò, un premio di maggioranza (65% dei seggi) al partito o alla coalizione di partiti che avessero superato la metà del totale dei voti validi. Quella che la sinistra definì come «legge truffa» era in realtà lo strumento che avrebbe potuto evitare al Paese trent'anni e più d'instabilità di governo - con tutte le deleterie conseguenze che ciò ha comportato - e il diffondersi sempre più pervasivo della partitocrazia. Purtroppo, nelle elezioni politiche del 7 giugno del '53, il premio di maggioranza non scattò per poche migliaia di voti (il quadripartito Dc, Pli, Pri e Psdi raggiunse quota 49,8%). Fu una sconfitta cocente per De Gasperi. Una sconfitta che segnò il tramonto non soltanto della parabola politica del grande leader democristiano, ma anche, per usare le parole di Baget Bozzo, del «tentativo cattolico liberale di dare una vera vita parlamentare alla democrazia italiana». Ciò che venne dopo, infatti, fu infatti quell'assemblearismo consociativo che ha rappresentato una pagina grigia della nostra storia. La politica - nota ancora Baget Bozzo - fu ridotta a «mera tattica, fatta di accordi convergenti senza fini comuni, maggioranze di fatto e di compromesso».


Questo breve excursus storico è utile per comprendere qual è il rischio che corre il nostro Paese qualora dovesse realizzarsi, nei prossimi mesi, l'ipotesi di un governo di transizione sostenuto da forze in gran parte diverse da quelle premiate dai cittadini nel 2008. Tanto più che tale esecutivo avrebbe, come primo punto all'ordino del giorno, proprio la cancellazione, dall'attuale legge elettorale, di quel premio di maggioranza che oggi garantisce alla coalizione che ha ottenuto il maggior numero di consensi la quota di parlamentari sufficiente per governare e dare attuazione concreta al programma presentato ai cittadini. Il tanto detestato e criticato «Porcellum» ha infatti il pregio, così come lo aveva la legge De Gasperi, di far coincidere maggioranza parlamentare e maggioranza di governo, anche grazie all'indicazione del nome del candidato presidente del Consiglio all'interno del simbolo elettorale. Ciò corrisponde a quello che gli italiani hanno chiesto a gran voce a partire dai referendum Segni del '93, che diedero l'impulso alla nascita di quel bipolarismo che rappresenta la conquista maggiore della Seconda Repubblica. L'alternativa proposta dai fautori di un nuovo esecutivo (sostenuto da partiti altri da quelli usciti vincitori due anni fa) e di una nuova legge elettorale (senza più premio di maggioranza) non è dunque, checché essi ne dicano, un passo in avanti verso una compiuta democrazia governante, ma una pericolosa replica del tempo in cui i partiti pensavano di avere dai cittadini una delega in bianco per gestire a modo loro tutto il potere disponibile, assorbendo così in se stessi tutta l'ampiezza della sovranità popolare.


Gianteo Bordero

venerdì 22 ottobre 2010

IL DESERTO DI GIOVANNI

TU QUOQUE, SAVIANO!

da Ragionpolitica.it del 22 ottobre 2010

Giusto pochi giorni fa parlavamo su queste pagine della bassa considerazione che un dirigente di primo piano della sinistra, Massimo D'Alema, nutre nei confronti degli italiani che votano Berlusconi. Quello dell'ex segretario dei Ds non è un caso isolato, tant'è vero che giovedì sera è stata la volta di un altro potenziale leader - almeno così pare leggendo gli auspici di molti organi di stampa nazionali - della gauche nostrana. Parliamo dello scrittore Roberto Saviano, che dagli schermi di Annozero, nel corso del dibattito sulla sua prossima trasmissione Vieni via con me, ha dichiarato quanto segue: «Io non parlo alla sinistra, io non ho scritto monologhi per parlare a una parte, ma per parlare anche agli elettori di centrodestra, dicendogli anche "Continua a votare, non voglio cambiarti le idee. Vorrei solo che quando vai a votare o quando credi a queste idee fossi solo un po' più consapevole"».


Rieccoci dunque alla stucchevole rappresentazione dell'elettore di centrodestra come persona non pienamente «consapevole» del voto che esprime, come individuo che si lascia facilmente abbindolare dalla propaganda berlusconiana, come cittadino che non conosce, non sa chi e che cosa siano veramente il leader e lo schieramento a cui egli dà la sua preferenza. C'è dunque bisogno che qualcuno dall'alto, qualche illuminato della prima o dell'ultima ora, si premuri di «raccontare», come dice Saviano, la verità. Perché il problema è la «narrazione» di una realtà che, se fosse davvero conosciuta, impedirebbe ai rozzi elettori berlusconiani e leghisti di compiere un'altra volta il madornale errore di dare fiducia al Cavaliere o al Senatur.


Saviano si propone di fare ciò con la trasmissione che sta preparando insieme a Fabio Fazio e che andrà in onda fra due settimane - guarda caso - su Rai3. E con che cosa l'autore di Gomorra cercherà di aprire gli occhi dei cavernicoli destrorsi? Non con la propaganda politica, da cui egli pare essere ontologicamente alieno ed immune, bensì appunto con la pura «narrazione» ed il semplice «racconto». Di che cosa? Della «macchina del fango» mediatica, di come «chi si oppone a certi poteri viene demolito». E ancora: del post-terremoto all'Aquila, del caos rifiuti a Napoli, della vicenda Dell'Utri, per finire con la discriminazione contro gli omosessuali che verrà illustrata nientepopodimeno che da Nichi Vendola. Perché sono questi, evidentemente, i punti nodali attorno ai quali chi guida il Paese ha costruito in questi anni una rappresentazione di se stesso che non corrisponde in alcun modo - così lascia intendere Saviano - alla realtà.


Ma non è tutto. Perché il Potere, di fronte a tale coraggioso affronto via etere, non poteva di certo stare a guardare senza colpo ferire. E infatti, nelle scorse settimane, lo stesso Potere, rappresentato nella fattispecie dal direttore generale della Rai, Mauro Masi, ha fatto di tutto, sempre stando alle parole di Saviano, affinché il benemerito programma non andasse in onda. Come? Ad esempio lasciando che si creasse un polverone mediatico con la pubblicazione su alcuni giornali - quelli dediti alla quotidiana produzione di fango, va da sé - dei costi della trasmissione (più di due milioni di euro per quattro puntate) e dei lauti compensi previsti per gli ospiti. Atti che l'autore di Gomorra ha definito - udite udite - come diffamatori, forse dimenticando che trattasi di denaro pubblico del cui utilizzo i cittadini hanno pieno diritto di venire a conoscenza. «Voi - ha detto Saviano rivolgendosi a Maurizio Belpietro - pubblicate i compensi cercando e sperando di innescare rabbia e invidia nelle persone che guadagnano 1.500 euro al mese, di cui noi raccontiamo le storie».


La verità non ha prezzo e dunque andare a fare i conti in tasca a chi tale verità racconta sarebbe l'ennesimo indice di quell'arretratezza culturale che caratterizza i sostenitori del centrodestra. I quali, invece che pensare alla grana, dovrebbero incollarsi in religioso silenzio di fronte allo schermo al momento della messa in onda di Vieni via con me. Ne usciranno certamente migliori di prima e più «consapevoli», perché - annuncia Saviano - «nel momento in cui rompi il giocattolo della macchina del fango, come vogliamo fare con la nostra trasmissione, a quel punto sta al cittadino, al lettore, all'ascoltatore capire come funzionano le cose». Rai3 vi farà liberi.

Gianteo Bordero

martedì 19 ottobre 2010

D'ALEMA, ICONA DELLA SINISTRA CHE HA DIVORZIATO DALLA REALTÀ

da Ragionpolitica.it del 19 ottobre 2010

Possibile che la sinistra non impari mai dai suoi errori? Possibile, anzi certificato dai fatti. L'ultimo esempio, in ordine di tempo, lo ha fornito lunedì sera a Otto e Mezzo Massimo D'Alema. Non un esponente qualsiasi della gauche nostrana, dunque, bensì colui che più di chiunque altro ne rappresenta oggi, in qualche modo, l'icona, avendo vissuto da protagonista la storia del passaggio dal Pci al Pds, poi ai Ds e infine al Pd, ed essendo diventato, nei modi che tutti conosciamo, il primo presidente del Consiglio proveniente dal Partito Comunista italiano.


Interrogato da Lilli Gruber a proposito della situazione politica del Paese, D'Alema ha ancora una volta fatto venire a galla, con le sue analisi che si pretendono argute e raffinate, il vero vizio capitale che caratterizza l'attuale sinistra. Un vizio che essa ha ereditato, senza alcun significativo mutamento di rotta, dal Pci: quel senso di superiorità culturale, politica e morale che l'ha condannata in passato, la condanna oggi e la condannerà in futuro, se le cose non cambieranno, a non saper entrare in connessione profonda con il popolo italiano, da essa ritenuto perennemente immaturo, bue, facile a lasciarsi incantare dalle sirene dell'uomo della provvidenza di turno. Ascoltare per credere. Ha affermato D'Alema: «Purtroppo un certo numero di italiani sembra disposto ad accettare l'anomalia» rappresentata da Berlusconi. Già, purtroppo - per l'illuminato leader Massimo e per i suoi colleghi di partito e di schieramento - tanti nostri connazionali, nel momento in cui sono chiamati a entrare in cabina elettorale per affidare a qualcuno le chiavi del governo del Paese, mettono la loro croce sul nome dell'impresentabile uomo di Arcore e non sui gloriosi simboli della gloriosa sinistra italiana.


Ora, se fossimo all'anno zero dell'avventura politica di Berlusconi, le affermazioni di D'Alema si potrebbero comprendere. Invece sono sedici anni - sedici - che la storia va avanti così, e che ad ogni vittoria del Cavaliere e ad ogni sua esperienza a Palazzo Chigi i suoi avversari non sanno fare altro che ripetere senza posa la solita teoria del popolo incapace di intendere e di volere, di distinguere tra il Bene (la sinistra) e il Male (la destra berlusconiana). Pensando di mettersi la coscienza a posto sol scaricando ogni colpa sui cittadini elettori, i post-comunisti hanno così evitato, ed evitano tuttora, di fare i conti con i propri errori, con la propria miopia politica, con la propria siderale distanza dal sentire della gente comune. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: antiberlusconismo monomaniacale, assenza di una seria e credibile proposta programmatica di governo, astrattismo assoluto riguardo alle soluzioni con cui affrontare i problemi del Paese.


Però - potrebbe obiettare qualcuno - è stato lo stesso D'Alema, sempre a Otto e Mezzo, ad annunciare che il nuovo numero della sua rivista, Italianieuropei, ha messo al centro il tema del lavoro e del conflitto sociale come punto di ripartenza della sinistra. Ecco, appunto: non si ascolta in presa diretta il popolo, i bisogni dei cittadini in carne ed ossa, dei povericristi che ogni mattina si spezzano la schiena in fabbrica per sbarcare il lunario e mandare avanti la famiglia; si pontifica invece dall'alto, ex cathedra, tra un convegno e l'altro, dalle patinate pagine di una rivista che tutt'al più finisce in mano agli intellettuali dei salotti buoni, alla gente che piace all'establishment culturale più o meno radical-chic. Non certo agli operai, alle manovalanze, a quello che un tempo era chiamato, non senza enfasi, il «popolo della sinistra». Un popolo a cui oggi dà invece risposte concrete, come ha documentato su La Stampa del 10 ottobre Luca Ricolfi, il governo di centrodestra, il governo del tanto odiato Silvio Berlusconi: «Cassa integrazione in deroga, estensione degli assegni di disoccupazione, social card, sussidi alle famiglie e ai non autosufficienti - ha scritto tra le altre cose Ricolfi - sono misure che hanno attenuato sensibilmente l'impatto della crisi, come mostra piuttosto inequivocabilmente la serie storica Isae delle famiglie in difficoltà, calate proprio nel momento più basso della congiuntura (fra la metà del 2008 e la metà del 2009)». D'Alema e i dotti analisti e politologi vicini alla sinistra possono ironizzare quanto vogliono sulla «politica del fare» di cui mena vanto il presidente del Consiglio, ma a dare ragione a Berlusconi sono, appunto, i fatti, come quelli riportati dall'editorialista del quotidiano torinese.


E se spostiamo la nostra attenzione sul prediletto di Baffino, Pier Luigi Bersani, le cose non cambiano. Ospite dieci giorni fa di Annozero, il segretario del Pd, dopo una lunga intervista a una cassaintegrata della Omsa che raccontava le sue tante difficoltà in questo periodo di crisi e chiedeva risposte ai politici presenti in studio, non ha saputo fare di meglio che spostare sùbito il discorso su Santoro e sul contenzioso col direttore generale della Rai. Altro che lavoro! Altro che disagio sociale! Meglio occuparsi delle grane del milionario conduttore tv. E poi si chiedono perché il Partito Democratico sia in crisi di consensi e gli italiani abbiano voltato le spalle alla sinistra: perché è la sinistra, e in particolare il Pd, ad aver voltato le spalle agli italiani.

Gianteo Bordero

giovedì 14 ottobre 2010

FINIANI. SE QUESTO È IL «FUTURO»...

da Ragionpolitica.it del 14 ottobre 2010

Se stiamo ai fatti di questi giorni, appare evidente come Futuro e Libertà non si configuri come la «nuova destra, moderna ed europea», bensì come il partito del «vecchio», come un movimento nostalgico dei riti e delle liturgie politiche della Prima Repubblica. Un esempio su tutti può confermarlo: mentre Fli dichiara la sua fedeltà e la sua lealtà al governo, si muove in parlamento per dare vita a maggioranze alternative su temi rilevanti come la riforma della legge elettorale. E' stato lo stesso presidente della Camera a chiedere nei giorni scorsi, con una lettera inviata al presidente del Senato, che tale riforma sia incardinata al più presto a Montecitorio, nonostante Palazzo Madama se ne stia occupando già da tempo e i lavori siano giunti a buon punto, come ha spiegato il relatore Lucio Malan (Pdl). Fini, nella sua doppia e sempre più ingombrante veste di leader di partito e di numero uno della Camera, è consapevole infatti che mentre al Senato il suo gruppo non risulta decisivo, nell'altro ramo del parlamento Futuro e Libertà potrebbe determinare la formazione di maggioranze diverse da quella attuale.


Tattica o strategica che sia, questa mossa di Fli rimette in campo un'idea di parlamentarismo che certo non guarda al futuro, e che riporta invece indietro nel tempo le lancette della storia repubblicana dell'Italia. Pensare che possa esistere una maggioranza parlamentare diversa e in qualche caso alternativa alla maggioranza di governo significa aderire a quel modello assemblearista che ha provocato solo guai laddove esso ha trovato applicazione concreta, primi tra tutti l'instabilità degli esecutivi e l'impossibilità di una programmazione riformatrice di lungo periodo. Nel moderno parlamentarismo, come più volte abbiamo sottolineato, compito principale della maggioranza uscita vincitrice dal voto è quello di esprimere un governo e di sostenerne le proposte, non quello di porsi in posizione di terzietà rispetto ad esso. L'Italia ha intrapreso con chiarezza questa strada nel momento in cui sulla scheda elettorale (all'interno dei simboli di partito) e nei programmi consegnati al momento della presentazione ufficiale delle liste è comparso anche il nome del candidato alla presidenza del Consiglio: ciò lega inscindibilmente, facendole di fatto coincidere, maggioranza parlamentare e maggioranza di governo. Questo, del resto, è quello che accade in tutti i sistemi istituzionali dove il parlamentarismo, non degradando in assemblearismo, garantisce quella «democrazia governante» che è il frutto maturo delle conquiste costituzionali dell'epoca moderna. Coloro che oggi dichiarano di voler abrogare la vigente legge elettorale mostrano in sostanza, volenti o nolenti, di voler cancellare anche quel poco di stabilità degli esecutivi che il nostro Paese ha conquistato in quella che è stata chiamata «Seconda Repubblica».


Questa prospettiva non coincide in alcun modo con il bene e con gli interessi dell'Italia, e neppure con ciò che i cittadini si aspettano dalla politica: tutt'al più è funzionale ai giochi di potere di questo o quel gruppuscolo smanioso di contare di più nei Palazzi con meno voti nelle urne. Se veramente si vuole guardare avanti e modernizzare definitivamente le nostre istituzioni, occorrerebbe fare il contrario di quanto sostengono i fautori della riforma elettorale anti-Porcellum e delle maggioranze variabili: impegnarsi affinché quelli che ad oggi sono princìpi sanciti solo da una legge ordinaria (quale è quella elettorale) e dalla Costituzione materiale del Paese possano diventare parte integrante anche della Costituzione formale. Del resto, come ha scritto il presidente del Consiglio nel suo messaggio per la commemorazione in Senato di Francesco Cossiga, la Costituzione non è «un dogma, ma una carta delle regole democratiche che riconosce essa stessa per prima, al suo stesso interno, la possibilità di adattare ai tempi le istituzioni dello Stato». Si tratta, in sostanza, di cristallizzare nella Carta l'evoluzione istituzionale già avvenuta de facto negli ultimi sedici anni, dando al governo quel che è del governo e mettendo una pietra tombale sulle degenerazioni partitocratiche a cui abbiamo assistito in passato e che rischiano oggi di tornare sulla scena, magari mascherate sotto l'etichetta del «futuro».


Gianteo Bordero

martedì 12 ottobre 2010

IL PD SENZA VOCAZIONE MAGGIORITARIA

da Ragionpolitica.it del 12 ottobre 2010

Al di là della guerra personale tra Massimo D'Alema e Walter Veltroni, specchio delle lotte intestine che da sempre caratterizzano la storia della sinistra italiana, vi è un dato politico di prim'ordine sul quale è necessario riflettere per comprendere l'attuale stato delle cose nel Partito Democratico. Con l'ascesa alla segreteria di Pier Luigi Bersani e la contestuale archiviazione di quella «vocazione maggioritaria» che era stata indicata dall'ex sindaco di Roma, nel suo ormai celebre discorso del Lingotto, come prospettiva strategica essenziale del nuovo soggetto politico, il Pd si trova oggi in un ginepraio che lo costringe ad inseguire all'un tempo i centristi di Pier Ferdinando Casini e di Francesco Rutelli, la sinistra di Nichi Vendola, l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Si tratta, con ogni evidenza, di partiti che esprimono visioni politiche inconciliabili tra loro su temi decisivi dell'agenda di governo, come l'economia, la giustizia, la politica estera, solo per citarne alcuni tra i più rilevanti. Ciò obbliga di fatto il Pd a mantenere una posizione incerta ed ondivaga, attenta a non creare strappi con alcuno dei potenziali alleati che Bersani intende coinvolgere in vista delle prossime elezioni politiche (esemplare, in tal senso, è la frenata di questi giorni del vertice del partito dopo le aperture di Piero Fassino riguardo alla necessità di armare gli aerei italiani impegnati in Afghanistan al fine di garantire maggiore sicurezza al nostro contingente).


Il risultato di questa scelta operata dall'attuale segretario è sotto gli occhi di tutti, ed è confermata senza tema di smentita dai sondaggi effettuati nelle ultime settimane dai principali istituti demoscopici: il Pd cala, mentre gli altri partiti o rimangono stabili oppure, nella maggior parte dei casi, aumentano i loro consensi. Ciò è la conseguenza inevitabile della decisione di Bersani di gettare a mare la strategia veltroniana, tendente a dare vita ad un bipolarismo forte fondato su due partiti di governo solidi e a dimensione nazionale, e di tornare di fatto al vecchio sistema di alleanze onnicomprensive che ha caratterizzato il centrosinistra italiano negli ultimi sedici anni. In particolare, come ha osservato Fabio Martini in un bell'articolo su La Stampa del 12 ottobre, si assiste ad un significativo rafforzamento, nelle intenzioni di voto, della sinistra radicale: il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo viene dato dall'Ipsos al 3,8%, Rifondazione Comunista e i Comunisti Italiani, oggi raggruppati in un'unica lista, ondeggiano tra il 2 e il 2,5%, Sinistra e Libertà di Nichi Vendola è salita al 5%, mentre l'Italia dei Valori si attesta sul 7,5%. In totale, si tratta di un'area che potrebbe raccogliere (il condizionale è d'obbligo, visto che allo stato attuale delle cose ci si muove ancora nel campo del voto d'opinione) quasi il 20% dei consensi degli italiani. Solo due anni fa, alle elezioni politiche del 2008, con Veltroni regnante, la sinistra radicale capitanata da Fausto Bertinotti si era fermata a quota 3,1% (con l'Idv allora alleata del Pd). Sempre in quell'occasione, il Partito Democratico raggiunse il 33%, mentre oggi viene dato sotto quota 25%.


La risposta di Bersani a questa allarmante situazione è, o almeno sembra essere, soltanto l'offerta di alleanza a questo o a quel partito di centro o di sinistra, al sol fine di fare numero e creare una massa critica da contrapporre al centrodestra alle prossime elezioni. Pur affermando un giorno sì e l'altro pure che egli non è intenzionato a rimettere in pista la formula dell'Unione prodiana, il segretario del Pd si muove di fatto lungo questa direttrice che privilegia l'alchimia politica rispetto alla definizione di un programma di governo chiaro e distinto, attorno al quale aggregare poi, in un secondo tempo, chi in esso si riconosce senza se e senza ma. Inoltre è evidente, seguendo la logica che sembra ispirare Bersani, che l'unico collante capace di tenere insieme forze tanto diverse e distanti tra loro può essere, ancora una volta, solo e soltanto il mai tramontato antiberlusconismo. Che cosa infatti può unire oggi il Pd, Vendola, Di Pietro e l'Udc? La risposta è scontata, e conferma che la tanto deprecata (a parole) Unione è poi (in concreto) la stella polare che guida l'azione del segretario democratico. Almeno Veltroni era riuscito a suscitare la speranza di una novità nel centrosinistra, mentre ora l'impressione è quella di assistere ad un film già visto, ad un indigesto remake di seconda mano di fronte al quale la figura dell'ex sindaco di Roma giganteggia non soltanto per risultati ottenuti, ma anche per coraggio e visione politica. E con ciò è detto tutto.

Gianteo Bordero

martedì 5 ottobre 2010

IL NOBEL A EDWARDS, TRA SCIENZA E IDEOLOGIA

da Ragionpolitica.it del 5 ottobre 2010

Quando le scoperte scientifiche vengono assolutizzate e poste alla base di un'ideologia totalizzante che non tiene più conto di tutti i fattori in gioco nella realtà, allora è possibile che una notizia come quella dell'assegnazione del premio Nobel per la medicina al fisiologo inglese Robert Edwards, padre della fecondazione in vitro, sia accolta con quell'entusiasmo acritico che ricorda, nei toni e nei modi in cui esso si esprime, i mirabolanti proclami dei rivoluzionari ottocenteschi e novecenteschi che annunciavano di aver creato l'«uomo nuovo», il quale avrebbe dato corso - a sentire i suoi sostenitori - a un'epoca di «magnifiche sorti e progressive» per l'umanità. Sappiamo tutti in che cosa si sono poi trasformati quegli annunci trionfalistici, come tutti conosciamo i luoghi-simbolo nei quali è divenuto evidente che l'unico esito di una simile operazione ideologica, sociale e politica altro non poteva essere che la violenza: l'«uomo nuovo» è morto nei campi di concentramento, è morto nei lager, è morto nei gulag.


Questa è la lezione della storia. Tutti lo sanno, ma tanti fingono di non saperlo. Così plaudono senza riserve e con cieco fideismo alla decisione del comitato che presiede all'assegnazione dei Nobel, dicendo che Edwards ha aiutato milioni di coppie con problemi di fertilità ad avere un figlio. Vero. Peccato che poi non guardino - o non vogliano guardare - al risvolto della medaglia: qual è stato il prezzo pagato per la diffusione delle tecniche di procreazione assistita in vitro? Quanti embrioni prodotti in laboratorio sono stati distrutti a partire dal 1978, cioè dalla data in cui Edwards fece nascere la prima bambina con la FIVET (Fertilizzazione In Vitro con Embryo Transfer)? Quanti embrioni congelati sono divenuti parte di un autentico mercato che non può non essere definito selvaggio? E quanti sono stati oggetto di sperimentazioni? Mettere tra parentesi queste domande o affermare che esse sono il retaggio di un'etica e di una visione della vita ormai superate e inutilizzabili dall'uomo contemporaneo e scientificamente evoluto, significa attribuire ai progressi della tecnica quel carattere di dogmaticità che rischia di trasformarli in ciò che i loro paladini dicono a gran voce di voler contrastare e demolire in maniera definitiva: i principi morali assoluti proclamati dalla religione cattolica.


Con una differenza di non poco conto, che è poi il punto attorno al quale ruota tutta la questione della legittimità etica della fecondazione in vitro: l'embrione umano è cosa o persona? E' mera materia disponibile a qualsiasi manipolazione oppure porta già in sé le tracce dell'anima personale e quindi della pienezza dell'essere umano? Insomma, è oggetto o soggetto? E' qualcosa o qualcuno? La Chiesa, appellandosi alla ragione intesa come capacità di conoscere la realtà e di afferrare i primi principi ad essa sottesi, invita a non trascurare quei numerosi indizi che, individuati dalla stessa ricerca scientifica e dalla biologia dello sviluppo, portano ad affermare che l'embrione può e deve essere trattato come persona sin dal momento del concepimento. All'opposto, coloro che negano ostinatamente tutto ciò dimostrano che il vero atteggiamento oscurantista e preconcetto è il loro, visto che essi rifiutano, in nome di un pregiudizio ideologico, sia le possibilità della ragione umana, sia le scoperte della scienza, sia le evidenze etiche alle quali tali scoperte conducono.


Ciò conferma che il problema non sta nel progresso scientifico in sé considerato, bensì nel tentativo di fare piazza pulita del quadro d'insieme in cui tale progresso si inserisce. Un quadro d'insieme che - ripetiamolo - è costituito non da dogmi religiosi calati dall'alto, bensì da elementi ed evidenze cui la stessa ragione può giungere, in piena autonomia e a prescindere da qualsiasi appartenenza ad una chiesa. Se la scienza, insomma, viene usata ed esaltata come se tutto il resto non ci fosse, e quindi non a fini scientifici bensì ideologici, come grimaldello per tentare di scardinare visioni della vita ritenute nemiche e opprimenti, allora è chiaro che le porte sono spalancate a qualsiasi atto arbitrario. Se si decide a tavolino che l'embrione non deve essere considerato e trattato come una persona, con la stessa dignità e gli stessi diritti di questa, è palese che il sopruso ai suoi danni è sempre dietro l'angolo. Se, infine, la domanda decisiva sull'essenza dell'embrione viene liquidata come ultima propaggine di un'inservibile metafisica, quello che si ottiene non è il diradarsi dei sogni della religione, bensì l'inaridimento della ragione e la produzione di nuovi incubi per l'umanità. La questione antropologica, cacciata dalla porta, tornerà a bussare alle finestre degli idolatri della provetta senza se e senza ma.


Gianteo Bordero

lunedì 4 ottobre 2010

LA DIFFERENZA BERLUSCONIANA

da Ragionpolitica.it del 4 ottobre 2010

Il quadro che emerge dal dibattito pubblico di questi ultimi giorni delinea chiaramente due schieramenti caratterizzati da due modi alternativi di intendere la politica: da un lato Silvio Berlusconi e l'asse Pdl-Lega, con la centralità attribuita alla «politica del fare», al rispetto del programma presentato ai cittadini e alla premiership indicata nel simbolo elettorale, dall'altro lato un agglomerato di forze la cui unica volontà sembra essere quella di riportare in auge un modello fondato sul primato dei partiti nel decidere a tavolino, nelle «secrete stanze» dei palazzi romani, le sorti del governo del Paese. Così, mentre a Milano, alla Festa della Libertà, il presidente del Consiglio illustra i risultati raggiunti dal suo esecutivo per garantire la tenuta del Sistema-Italia e parla delle riforme ancora necessarie (in primis quella della giustizia) per rendere lo Stato veramente «amico» dei cittadini, altrove si discetta di questioni che tutt'al più possono interessare soltanto la cerchia ristretta dei dirigenti di partito al fine della loro sopravvivenza politica.


C'è un abisso che separa il tono e l'ispirazione di fondo del discorso del premier alla kermesse milanese del Pdl e le dichiarazioni di coloro i quali, invece che delineare proposte alternative sui vari capitoli di governo, non sanno fare altro che invocare una nuova legge elettorale al solo scopo di mettere fuori dai giochi il Cavaliere dando vita a meccanismi tecnici per anestetizzare il responso delle urne e la volontà popolare. Basta prendere in esame le dichiarazioni domenicali dell'onorevole Bocchino per rendersene conto. Il capogruppo di Futuro e Libertà alla Camera, che solo pochi giorni fa aveva votato a Montecitorio la fiducia all'esecutivo sui cinque punti illustrati in aula dal presidente del Consiglio, ieri si è detto pronto a dare vita a un governo alternativo a quello di Berlusconi al sol fine di modificare l'attuale normativa elettorale, cancellando il premio di maggioranza che oggi garantisce alla coalizione uscita vincitrice dalle urne i numeri sufficienti per mettere in atto il proprio programma.


Da una parte, dunque, vi è - continua ad esservi - la novità berlusconiana inaugurata nel 1994, fondata sul rapporto diretto tra leader e popolo, sulla scelta del premier da parte del corpo elettorale sulla base di una definita e chiara agenda di governo, mentre dall'altra si riaffaccia sulla scena la nostalgia del vecchio sistema che ha caratterizzato gli ultimi decenni della Prima Repubblica e che è stato alla base della sua consunzione politica: una partitocrazia autoreferenziale, interessata solamente alla sopravvivenza della «Casta» e di fatto sciolta, in nome dell'assenza del vincolo di mandato prevista dalla Costituzione del '48, da ogni legame diretto con il popolo votante. Come ha dichiarato in una nota il coordinatore nazionale del Pdl Sandro Bondi, se la proposta dell'onorevole Bocchino diventasse realtà «si formerebbe un fronte trasversale costituito anche dalla sinistra e dall'Udc, plastica esemplificazione del trasformismo parlamentare, della manipolazione più sfrontata della volontà popolare, della volontà di affossare il bipolarismo per ritornare agli amati riti della partitocrazia».


Non è casuale, così, che prima del suo intervento alla Festa della Libertà il presidente del Consiglio abbia deciso di riproporre il video nel quale egli annunciava la sua «discesa in campo», come non è casuale che il premier, al termine del suo discorso, abbia riletto una pagina del suo primo incontro pubblico con gli elettori, nella quale è riassunto il credo politico attorno al quale ha preso forma quel popolo che si è ritrovato prima in Forza Italia e poi nel Pdl. Quel popolo che da sedici anni a questa parte non ha mai fatto venire meno la sua fiducia in Berlusconi, riconoscendo in lui l'unica possibilità per uscire dalle secche della partitocrazia e per dare vita ad una politica nuova, capace di restituire al Paese il senso della sua missione, la consapevolezza delle sue radici, l'orgoglio per la sua storia. Un messaggio che oggi conserva ancora intatta la sua forza d'urto per il presente e per il futuro, mentre tutt'attorno si danno convegno i nostalgici non soltanto del «vecchio», ma anche del «peggio».

Gianteo Bordero