giovedì 14 ottobre 2010

FINIANI. SE QUESTO È IL «FUTURO»...

da Ragionpolitica.it del 14 ottobre 2010

Se stiamo ai fatti di questi giorni, appare evidente come Futuro e Libertà non si configuri come la «nuova destra, moderna ed europea», bensì come il partito del «vecchio», come un movimento nostalgico dei riti e delle liturgie politiche della Prima Repubblica. Un esempio su tutti può confermarlo: mentre Fli dichiara la sua fedeltà e la sua lealtà al governo, si muove in parlamento per dare vita a maggioranze alternative su temi rilevanti come la riforma della legge elettorale. E' stato lo stesso presidente della Camera a chiedere nei giorni scorsi, con una lettera inviata al presidente del Senato, che tale riforma sia incardinata al più presto a Montecitorio, nonostante Palazzo Madama se ne stia occupando già da tempo e i lavori siano giunti a buon punto, come ha spiegato il relatore Lucio Malan (Pdl). Fini, nella sua doppia e sempre più ingombrante veste di leader di partito e di numero uno della Camera, è consapevole infatti che mentre al Senato il suo gruppo non risulta decisivo, nell'altro ramo del parlamento Futuro e Libertà potrebbe determinare la formazione di maggioranze diverse da quella attuale.


Tattica o strategica che sia, questa mossa di Fli rimette in campo un'idea di parlamentarismo che certo non guarda al futuro, e che riporta invece indietro nel tempo le lancette della storia repubblicana dell'Italia. Pensare che possa esistere una maggioranza parlamentare diversa e in qualche caso alternativa alla maggioranza di governo significa aderire a quel modello assemblearista che ha provocato solo guai laddove esso ha trovato applicazione concreta, primi tra tutti l'instabilità degli esecutivi e l'impossibilità di una programmazione riformatrice di lungo periodo. Nel moderno parlamentarismo, come più volte abbiamo sottolineato, compito principale della maggioranza uscita vincitrice dal voto è quello di esprimere un governo e di sostenerne le proposte, non quello di porsi in posizione di terzietà rispetto ad esso. L'Italia ha intrapreso con chiarezza questa strada nel momento in cui sulla scheda elettorale (all'interno dei simboli di partito) e nei programmi consegnati al momento della presentazione ufficiale delle liste è comparso anche il nome del candidato alla presidenza del Consiglio: ciò lega inscindibilmente, facendole di fatto coincidere, maggioranza parlamentare e maggioranza di governo. Questo, del resto, è quello che accade in tutti i sistemi istituzionali dove il parlamentarismo, non degradando in assemblearismo, garantisce quella «democrazia governante» che è il frutto maturo delle conquiste costituzionali dell'epoca moderna. Coloro che oggi dichiarano di voler abrogare la vigente legge elettorale mostrano in sostanza, volenti o nolenti, di voler cancellare anche quel poco di stabilità degli esecutivi che il nostro Paese ha conquistato in quella che è stata chiamata «Seconda Repubblica».


Questa prospettiva non coincide in alcun modo con il bene e con gli interessi dell'Italia, e neppure con ciò che i cittadini si aspettano dalla politica: tutt'al più è funzionale ai giochi di potere di questo o quel gruppuscolo smanioso di contare di più nei Palazzi con meno voti nelle urne. Se veramente si vuole guardare avanti e modernizzare definitivamente le nostre istituzioni, occorrerebbe fare il contrario di quanto sostengono i fautori della riforma elettorale anti-Porcellum e delle maggioranze variabili: impegnarsi affinché quelli che ad oggi sono princìpi sanciti solo da una legge ordinaria (quale è quella elettorale) e dalla Costituzione materiale del Paese possano diventare parte integrante anche della Costituzione formale. Del resto, come ha scritto il presidente del Consiglio nel suo messaggio per la commemorazione in Senato di Francesco Cossiga, la Costituzione non è «un dogma, ma una carta delle regole democratiche che riconosce essa stessa per prima, al suo stesso interno, la possibilità di adattare ai tempi le istituzioni dello Stato». Si tratta, in sostanza, di cristallizzare nella Carta l'evoluzione istituzionale già avvenuta de facto negli ultimi sedici anni, dando al governo quel che è del governo e mettendo una pietra tombale sulle degenerazioni partitocratiche a cui abbiamo assistito in passato e che rischiano oggi di tornare sulla scena, magari mascherate sotto l'etichetta del «futuro».


Gianteo Bordero

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