da Ragionpolitica.it del 26 ottobre 2010
Che cosa teorizzano, in realtà, coloro che oggi caldeggiano la nascita di un governo di transizione alternativo al governo Berlusconi? Niente di più e niente di meno che il ritorno alla partitocrazia. Le giustificazioni (la necessità di modificare la legge elettorale e di gestire in modo diverso la crisi economica) che i vari D'Alema, Casini, Fini adducono per motivare siffatta proposta altro non sono altro che lo specchietto per le allodole con cui essi tentano di nobilitare un'operazione che di nobile ha davvero poco. Si tratta, in sostanza, di una prospettiva che riporterebbe il nostro Paese agli anni peggiori della Prima Repubblica, quando la democrazia parlamentare compiuta alla quale aveva lavorato Alcide De Gasperi degradò verso quella forma di regime partitocratico e consociativo che si è protratta fino all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso.
De Gasperi aveva compreso che il problema centrale derivante dall'assetto istituzionale prodotto dalla Carta del '48 era l'assenza di un vero statuto di governo, tale cioè da garantire robustezza e continuità all'azione riformatrice dell'esecutivo. Occorreva, a Costituzione invariata, affermare con chiarezza l'idea secondo la quale compito supremo del parlamento è quello di esprimere una solida, stabile e coesa maggioranza di governo. Egli tentò di realizzare la sua intuizione con la legge elettorale varata, dopo molte polemiche e un forte ostruzionismo delle opposizioni, nei primi mesi del 1953. La nuova normativa prevedeva la possibilità dell'apparentamento di due o più partiti e, assieme a ciò, un premio di maggioranza (65% dei seggi) al partito o alla coalizione di partiti che avessero superato la metà del totale dei voti validi. Quella che la sinistra definì come «legge truffa» era in realtà lo strumento che avrebbe potuto evitare al Paese trent'anni e più d'instabilità di governo - con tutte le deleterie conseguenze che ciò ha comportato - e il diffondersi sempre più pervasivo della partitocrazia. Purtroppo, nelle elezioni politiche del 7 giugno del '53, il premio di maggioranza non scattò per poche migliaia di voti (il quadripartito Dc, Pli, Pri e Psdi raggiunse quota 49,8%). Fu una sconfitta cocente per De Gasperi. Una sconfitta che segnò il tramonto non soltanto della parabola politica del grande leader democristiano, ma anche, per usare le parole di Baget Bozzo, del «tentativo cattolico liberale di dare una vera vita parlamentare alla democrazia italiana». Ciò che venne dopo, infatti, fu infatti quell'assemblearismo consociativo che ha rappresentato una pagina grigia della nostra storia. La politica - nota ancora Baget Bozzo - fu ridotta a «mera tattica, fatta di accordi convergenti senza fini comuni, maggioranze di fatto e di compromesso».
Questo breve excursus storico è utile per comprendere qual è il rischio che corre il nostro Paese qualora dovesse realizzarsi, nei prossimi mesi, l'ipotesi di un governo di transizione sostenuto da forze in gran parte diverse da quelle premiate dai cittadini nel 2008. Tanto più che tale esecutivo avrebbe, come primo punto all'ordino del giorno, proprio la cancellazione, dall'attuale legge elettorale, di quel premio di maggioranza che oggi garantisce alla coalizione che ha ottenuto il maggior numero di consensi la quota di parlamentari sufficiente per governare e dare attuazione concreta al programma presentato ai cittadini. Il tanto detestato e criticato «Porcellum» ha infatti il pregio, così come lo aveva la legge De Gasperi, di far coincidere maggioranza parlamentare e maggioranza di governo, anche grazie all'indicazione del nome del candidato presidente del Consiglio all'interno del simbolo elettorale. Ciò corrisponde a quello che gli italiani hanno chiesto a gran voce a partire dai referendum Segni del '93, che diedero l'impulso alla nascita di quel bipolarismo che rappresenta la conquista maggiore della Seconda Repubblica. L'alternativa proposta dai fautori di un nuovo esecutivo (sostenuto da partiti altri da quelli usciti vincitori due anni fa) e di una nuova legge elettorale (senza più premio di maggioranza) non è dunque, checché essi ne dicano, un passo in avanti verso una compiuta democrazia governante, ma una pericolosa replica del tempo in cui i partiti pensavano di avere dai cittadini una delega in bianco per gestire a modo loro tutto il potere disponibile, assorbendo così in se stessi tutta l'ampiezza della sovranità popolare.
Gianteo Bordero
martedì 26 ottobre 2010
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