mercoledì 27 agosto 2008

IL MEETING, DON GIUSSANI E IL CARDINAL BAGNASCO


Il Meeting di Rimini è tante cose: gli incontri, la cultura, la politica, i dibattiti, le feste, la musica, gli stand, i volontari e chi più ne ha ne metta. Ma è ancora, e soprattutto, un'altra cosa. O, meglio, un'altra persona: don Giussani. E' cioè lo slancio a mettere in gioco se stessi e la propria fede non soltanto nel caldo nido accogliente del proprio gruppo, della propria parrocchia o del proprio movimento, ma anche nel paragone con il mondo, con ciò che succede ogni giorno sulla terra, nella grande avventura quotidiana dello studio e del lavoro. Insomma: nella vita in quanto tale, non frammentata e non divisa in compartimenti stagni e non comunicanti tra loro. Don Giussani amava ripetere, riprendendo una frase di San Paolo: «Vagliate tutto e trattenete il valore». Ossia: vivete tutto, osservate tutto, ascoltate tutto (tutto quello che accade nella realtà) e usate la vostra fede e la vostra ragione come strumento, come metro di giudizio per trattenere ciò che veramente conta.

Da qui, da questo impeto, nacque il Meeting nel 1980. E oggi, 28 anni dopo, è il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale italiana, a mostrare nel suo intervento, intitolato «La Chiesa, un popolo che si fa storia», come l'intuizione di don Giussani esprima non soltanto il punto di vista di Comunione e Liberazione, ma si radichi nell'essenza stessa del cristianesimo. Bagnasco non nomina mai don Giussani né Cl, non fa alcuna apologia né concessione alla retorica. Ma si capisce che la sua lezione punta a mettere in rilievo il fatto che quello che il «Gius» ha testimoniato e insegnato non è cosa per pochi, ma per tutti. Lo si vede in tre passaggi decisivi del discorso del cardinale, che riprendono tre «cavalli di battaglia» di don Giussani:

1) Il cristianesimo non è «una sorta di gnosi, di conoscenza misterica per pochi iniziati», dice il presidente della Cei. E' invece «la conseguenza di un incontro decisivo che cambia la vita del credente. E' il frutto di un'amicizia personale con Cristo, un'amicizia che si rinnova ogni giorno; credere non significa aderire ad una dottrina, ma vivere riferiti a Lui».

2) Il cristiano è ontologicamente, in forza di questo incontro, «sale della terra» e «luce del mondo». L'immagine del sale «suggerisce l'incarnazione nel mondo», mentre quella della luce «suggerisce la visibilità della presenza cristiana». E oggi è ancora vero quello che il fondatore di Cl intuì sin dagli anni '50. Dice Bagnasco: «Oggi, come in altri periodi della storia, si vuole che la Chiesa rimanga in chiesa. Il culto e la carità sono apprezzati anche dalla mentalità laicista: in fondo - si pensa - la preghiera non fa male a nessuno e la carità fa bene a tutti. In altri termini, si vorrebbe negare la dimensione pubblica della fede concedendone la possibilità nel privato. A tutti si riconosce come sacra la libertà di coscienza, ma dai cattolici a volte si pretende che essi prescindano dalla fede che forma la loro coscienza».

3) E se, da un lato, spesso è negato ai cristiani il diritto a manifestare liberamente e integralmente la propria fede (vediamo che cosa sta accadendo in India in questi giorni), dall'altro essi devono pure farsi carico, soprattutto in questo frangente storico caratterizzato dal predominio del relativismo, della «difesa della ragione». Dichiara il cardinale: «Affermare l'efficacia della ragione non è totalmente altro dall'annuncio evangelico; non significa diminuire il Vangelo per impicciarsi di argomenti di competenza altrui. E' intrinsecamente connesso: fede e ragione si richiamano a vicenda, sono implicati reciprocamente nell'unità della persona». Per questo «certi valori - come nel campo della vita umana e della famiglia, della concezione della persona, della libertà e dello Stato - anche se sono illuminati dalla fede, sono innanzitutto bagaglio della buona ragione».

Tutto l'intervento di Bagnasco ruota, insomma, attorno al cuore dell'annuncio cristiano, lo stesso che don Giussani, nei suoi lunghi anni di presenza nella Chiesa e nella società, ha testimoniato senza posa: il cristianesimo è vita e storia, è la pienezza dell'umano che si realizza in un popolo, la comunione tra coloro che, nell'incontro con Cristo, hanno ritrovato a un tempo se stessi e la verità del mondo.

Gianteo Bordero

domenica 24 agosto 2008

TUTTI FASCISTI?

da Ragionpolitica.it del 23 agosto 2008

Il gioco politico dell'estate, inaugurato dal settimanale Famiglia Cristiana, trova ogni giorno nuovi aspiranti concorrenti. A dare del «fascista» al governo ora non è più soltanto la rivista dei paolini: da giovedì essa si trova in compagnia nientepopodimeno che dell'Associazione Nazionale dei magistrati. La quale, per bocca del suo segretario, Giuseppe Cascini, fa sapere, tramite una video intervista rilasciata a Klaus Davi, quanto segue: una riforma della giustizia che prevedesse di aumentare il numero di membri del Csm eletti dalle Camere richiamerebbe un «modello autoritario, ovverosia quello fascista». Un «modello in cui la magistratura non è indipendente». Va da sé che la riforma in oggetto, per chi non ne fosse a conoscenza, è quella che ha in mente di attuare il governo Berlusconi e il cui iter dovrebbe prendere avvio in autunno. Di conseguenza è chiaro che, se l'esecutivo procedesse spedito secondo quanto promesso, sarebbe per ciò stesso «autoritario» e «fascista» e toglierebbe alla magistratura la sua indipendenza.

Ma non è tutto. Cascini si lancia infatti in un attacco a tutto campo non soltanto contro le politiche del governo in materia di giustizia, ma anche contro lo stesso presidente del Consiglio: «Alcuni processi che lo riguardano - dice - sono andati in prescrizione e quindi non è stato accertato il fatto. In alcuni casi ci sono state sentenze in cui non si è potuto dire né colpevole né innocente, perché è passato troppo tempo dal fatto. Prima della riforma del 2002 fatta dal governo Berlusconi, quella sul falso in bilancio, questi reati erano punibili molto più gravemente, oggi la punizione è diventata una semplice contravvenzione e l'estinzione del reato si accorcia». Come dire: molte delle sentenze che hanno mandato assolto il Cavaliere lo hanno fatto soltanto per motivi tecnici e non sostanziali, per lo più a seguito di una legge evidentemente concepita ad personam. Ci risiamo.

Cascini entra dunque a gamba tesa sul premier, sul suo esecutivo e sulla maggioranza di centrodestra, ma non risparmia critiche neppure al centrosinistra e, in particolare, al Partito Democratico, il quale, secondo il segretario dell'Anm, farebbe in qualche modo gioco di sponda con l'avversario. Come? Non prendendo una posizione chiara, distinta e distante dall'annunciata riforma della giustizia di marca governativa. Dichiara Cascini: «Quello che mi preoccupa è la mancanza di presa di posizione da parte dell'opposizione. Di fronte a dichiarazioni così esplicite di intervento sui temi della giustizia a livello costituzionale, noi non conosciamo l'opinione dell'opposizione, quantomeno delle forze maggiori, del Partito Democratico». In più - aggiunge - nello stesso centrosinistra ci sono forze, come i Radicali, che hanno «sempre avuto un rapporto problematico con la magistratura» e, come se non bastasse, «alcuni esponenti dello stesso Pd fanno proprie le tesi sulla giustizia che noi contestiamo». Fascisti anche il Partito Democratico e i Radicali? Chi lo sa...

Quello che è certo è che, con le sue dichiarazioni, Cascini, volente o nolente, offre il supporto suo e dei magistrati che egli rappresenta al dipietrismo, al girotondismo, al grillismo - insomma al giustizialismo duro e puro - e alle iniziative che i loro seguaci annunciano per tentare di bloccare le decisioni del governo sulla giustizia. Il segretario dell'Anm compie in questo modo un'operazione politica con tutti i crismi del caso. La stessa politica alla quale chiede di rimanere fuori dal Csm, pena la risorgenza del fascismo, Cascini la invoca quando si tratta di difendere, come ha dichiarato un insospettabile Luciano Violante alla Stampa di ieri, uno spazio di potere che rischia ora di essere insidiato dai provvedimenti dell'esecutivo. Si capisce, quindi, che il problema, per l'Anm, non è «la politica» in generale. Il problema sono quei politici e quei partiti che vogliono riportare negli argini della giustizia costituzionale magistrati che hanno accumulato, a partire da Mani Pulite, uno strapotere politico e mediatico che li ha di fatto costituiti come la vera Casta del nostro sistema istituzionale. Intoccabili ed infallibili per definizione.

Riassumendo: la politica è autoritaria quando propone di aumentare il numero degli eletti dal parlamento nel Csm, mentre è la benvenuta quando serve per bloccare norme democraticamente prodotte dei rappresentanti del popolo nell'esercizio delle loro funzioni. Ora, la domanda sorge spontanea: quale tra i due atteggiamenti è vero fascismo? La risposta è, evidentemente, scontata. L'unica cosa che si può aggiungere è che, se vi fosse ancora qualcuno, tanto tra le fila del centrodestra quanto tra quelle del centrosinistra (Di Pietro fa storia a sé), dubbioso sulla necessità di una riforma della giustizia, ci sembra che le dichiarazioni del segretario dell'Anm facciano evaporare anche le ultime riserve su un provvedimento necessario e non più procrastinabile a data da destinarsi.

Gianteo Bordero

giovedì 14 agosto 2008

I TRIONFI DELL'ITALIA NORMALE

da Ragionpolitica.it del 13 agosto 2008

E' un bel messaggio, e pieno di speranza, quello che gli atleti italiani trasmettono al paese dalla lontana Pechino. Gli ori olimpici ci dicono, in un periodo di vacche magre e di difficoltà economiche, che esiste una strada per rialzarsi; che non bisogna mai arrendersi; che la via della vittoria assomiglia tanto a un sentiero di montagna: il prezzo della meta si chiama fatica, sacrificio, sudore. I volti, le parole e i gesti dei nostri campioni che trionfano e salgono sul gradino più alto del podio non sono quelli dello sport inquinato e spesso sfigurato dalla sovraesposizione mediatica, dal gossip che inghiotte tutto e tutti, dalla mondanità che trasforma un atleta in un fenomeno da baraccone. Sono invece le facce, le espressioni e i movimenti di chi sa quanto è costato il successo in termini di educazione, disciplina, autocontrollo. Altro che i festini notturni, più o meno hard, di calciatori tanto venerati quanto bolliti!

Insomma, a Beijing 2008 vince l'Italia normale. L'Italia dei normali. Degli sconosciuti il cui cognome ci suona nuovo e strano: Tagliariol, Quintavalle, Pellielo, D'Aniello, Granbassi, Guderzo. Alzi la mano chi, al di là degli addetti ai lavori, ne conosceva il nome e le gesta prima dell'altro ieri. Eppure sono loro che tengono in piedi l'onore dell'Italia di fronte al mondo intero, loro che ci proiettano ai primi posti del medagliere olimpico, loro che fanno sventolare il tricolore più in alto delle altre bandiere nazionali. I normali nella gloria, dunque. E i vip nella polvere. Uno su tutti: Aldo Montano, un tempo schermidore sopraffino ed oggi niente più che uomo-copertina da Novella 2000, Chi et similia. Icona di che cosa significhi, letteralmente, adagiarsi sugli allori e vivere di rendita.

Invece, come dicevamo all'inizio, i vincitori dell'oro lanciano dalla Cina un invito inequivocabilmente chiaro: per competere a testa alta con gli avversari, per arrivare nelle prime posizioni, per stupire positivamente se stessi e gli altri non vi è altra strada che quella del sacrificio e del coraggio, della fatica e dell'entusiasmo, del sudore e della passione. Cioè dei valori e dei principi più genuini, più sani, se vogliamo più tradizionali su cui l'umanità da sempre si è basata per costruire le grandi storie, le grandi epopee, le grandi civiltà. E oggi più che mai il nostro paese ha bisogno di vedere, di sentire, di capire che l'unica possibilità di rilancio risiede proprio nel riscoprire questi valori e di questi principi, nel metterli a fondamento concreto del vivere comune, pietre angolari dell'edificio sociale e civile italiano.

I successi degli azzurri a Pechino, insomma, riportano in auge quella virtù così spesso disprezzata e rifiutata che va sotto il nome di umiltà. Umiltà non nel senso deteriore e deteriorato del termine, quello che la fa quasi coincidere con la miseria o la pochezza, ma in quello etimologico, che la lega al vocabolo latino humus. Cioè alla terra e al lavoro necessario per farla fruttificare. E' di questa umiltà che l'Italia ha bisogno: di uno sforzo individuale e comune per far emergere, dal profondo del paese, quell'energia, quella creatività e quel gusto di essere popolo e nazione che possono riportarci in cima al mondo. Come in cima al mondo ci stanno portando i nostri atleti impegnati a Pechino. Gente normale e gente umile. Perché, come diceva Chesterton: «E' l'uomo umile che fa le grandi cose. E' l'uomo umile che fa le cose ardite».


Gianteo Bordero

domenica 10 agosto 2008

LA CINA E' LONTANA

da Ragionpolitica.it del 9 agosto 2008

Da oggi e fino al 24 del mese gli schermi delle televisioni e le pagine dei giornali tenteranno di proiettare nelle nostre case l'immagine di una Cina vicina: la Cina pacifica dei Giochi, la Cina che ospita l'evento simbolo del cosiddetto «spirito sportivo», la Cina che accoglie al suo interno uomini di culture, idee e fedi profondamente diverse tra loro. La Cina affidabile e matura, insomma. La Cina che non fa più paura.

Eppure, al fondo, oltre lo scintillio, le coreografie, la magnificenza di Beijing 2008, oltre la proiezione mediatica di uno spettacolo che deve comunque continuare, oltre l'immagine della potenza grandiosamente tranquilla, rimane in noi l'impressione che questa Cina che i Giochi rendono vicina - come vicina l'ha resa, in questi ultimi anni, il processo di globalizzazione dei mercati - sia in realtà ancora lontana. Non è, con tutta evidenza, una questione geografica - quando le distanze sono annullate dalla rapidità dei trasporti, dall'immediatezza delle trasmissioni, dalla rete di internet. E' una questione più profonda e radicale, quasi intima e sottopelle: la Cina è lontana, ancora troppo lontana, dal nostro modo di essere, dal nostro sentimento della vita, dalla nostra infinita considerazione del valore dell'umana esistenza. Non solo dai nostri diritti, che sono ingiustificabili se alla base di essi non vi è la consapevolezza dell'intangibilità e della sacralità della persona. Non solo dai nostri usi e costumi. Non solo dalla nostra mentalità. Sono tutti fattori importanti, ma non decisivi.

Ciò che, più di tutto, ci fa avvertire Pechino così lontana è l'alterità totale nella considerazione di ciò che veramente conta. Chiamatela «gerarchia dei valori», chiamatela come volete. Ma la Cina è lontana davvero: quando calpesta la dignità dell'uomo, quando impone l'aborto selettivo e la regolazione poliziesca delle nascite, quando sfrutta e spreme il lavoratore, quando mette a tacere chi ragiona con la sua testa e diffonde idee ritenute pericolose per l'«armonia sociale», quando «normalizza» il Tibet, quando in nome della celebrazione del sempiterno carrozzone olimpico rade al suolo come se niente fosse quartieri e case e, con essi, storie e legami, quando mette il bavaglio al web. E potremmo continuare. Con l'appoggio - lo ricordava Galli Della Loggia ieri sul Corriere della Sera - a regimi repressivi, autoritari e corrotti come quello di Mugabe. O con le votazioni in Consiglio di Sicurezza dell'Onu, sempre dalla parte degli Stati violenti, antidemocratici e pericolosi per la stabilità del mondo. Eccetera, eccetera, eccetera. Purtroppo.

Di fronte a questa lontananza, di fronte a questa montagna di fatti che fanno rabbrividire e insorgere la nostra coscienza cristiana e occidentale, anche tutto il dibattito sul boicottaggio della cerimonia d'apertura può alla fine rivelarsi sterile o fuori bersaglio. Perché, in sostanza, ciò che conta non è mandare qualche segnale a chi, come i gerarchi comunisti cinesi, conosce benissimo la situazione interna al paese ed è consapevole del modo in cui l'altra parte del mondo considera Pechino e le sue politiche. I capi cinesi, insomma, sanno che noi sappiamo. Il problema è un altro. Lo si vede quando i rappresentanti dell'oligarchia pechinese, rispondendo alle nostre critiche, affermano: «Non capite quello che sta succedendo in Cina». Esatto. Non lo capiamo. E forse neppure lo potremo mai capire. Non potremo capire le vostre logiche, le ragioni di tante vostre scelte, il vostro modo di concepirvi «grandi». E questo non perché siate «cattivi», ma perché siete lontani. Tremendamente lontani da noi.

Oggi ancora di più, nel momento in cui si apre la grande pantomima olimpica, la tassa che ogni quattro anni dobbiamo pagare al politicamente corretto dell'«importante è partecipare» dietro cui ipocritamente si velano soltanto interessi (più o meno legittimi) senza etica e senza spirito - altro che doping! La Cina è lontana. E noi, oggi, dalla Cina restiamo lontani. Con il cuore e con la mente.


Gianteo Bordero

mercoledì 6 agosto 2008

PAOLO VI EBBE MERITI "SOVRUMANI". PAROLA DI BENEDETTO XVI

da Ragionpolitica.it del 5 agosto 2008

Papa Ratzinger non è mai banale. Neppure quando, seguendo il protocollo, fa memoria di un suo predecessore a trent'anni dalla morte. E' accaduto domenica durante l'Angelus recitato a Bressanone, dove Benedetto XVI ha deciso di trascorrere (come faceva quando ancora era cardinale) un breve periodo di vacanza. Il predecessore in questione è Paolo VI, morto il 6 agosto 1978 nella residenza estiva di Castel Gandolfo all'età di 81 anni, dopo tre lustri di pontificato. Con poche parole Ratzinger ha fornito una nuova chiave di lettura per interpretare uno dei papati più difficili e controversi della storia della Chiesa. Difficile perché dipanatosi a cavallo del Concilio Vaticano II e di tutto ciò che, nel bene e nel male, ne seguì. Controverso perché la figura di Giovanni Battista Montini trova paradossalmente critici, nel mondo ecclesiale, sia a «sinistra» che a «destra». La prima lo accusa di aver impedito, in particolare con l'enciclica Humanae vitae del 1968, una evoluzione della Chiesa in materia di morale sessuale; la seconda gli imputa un eccesso di «apertura al moderno» e prende di mira soprattutto la riforma liturgica del 1969.

Paolo VI, in realtà, fu altro rispetto agli schemi con cui solitamente viene giudicato il suo pontificato - cioè con le solite, trite e ritrite categorie di «progressista» e «conservatore». Fu l'uomo, secondo quanto affermato da Benedetto XVI domenica, «inviato dalla Divina Provvidenza a Roma nel momento più delicato del Concilio, quando l'intuizione del beato Giovanni XXIII rischiava di non prendere forma». Ratzinger non scende nel dettaglio, non ci dice quale sia stato «il momento più delicato» del Vaticano II. Ma è lecito ipotizzare (anche basandosi sulle riflessioni critiche dell'attuale pontefice in merito al Concilio, sviluppate già a partire dai primi anni successivi all'evento) che egli faccia riferimento al momento in cui una parte dei suoi colleghi teologi e dei vescovi tentò di scardinare, con un documento sulla collegialità nella Chiesa da far approvare all'assemblea conciliare, il primato papale e, con esso, la stessa essenza petrina del cattolicesimo.

Fu allora che Paolo VI, compresa la delicatezza del momento e i pericoli di autodistruzione a cui sarebbe andata incontro la Chiesa, decise di formulare una Nota praevia da accompagnare alla Costituzione dogmatica Lumen gentium. Nella Nota si ribadiva che la parola «collegio» non va intesa in senso «strettamente giuridico» (cioè «di un gruppo di eguali, i quali abbiano demandata la loro potestà al loro presidente») e che non vi è «uguaglianza tra il capo e le membra del collegio», tra il Papa e i vescovi. Montini precisava inoltre che il pontefice, «nell'ordinare, promuovere, approvare l'esercizio collegiale, procede secondo la propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa. Il sommo pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può esercitare la propria potestà in ogni tempo a sua discrezione, come è richiesto dallo stesso suo ufficio».

La Nota praevia costituì un'autentica opera di salvataggio della barca di Pietro, che rischiava allora di essere sommersa dalle onde di una mentalità che voleva a tutti i costi trasformarla in una qualsiasi istituzione moderna e mondana, mettendo in secondo piano il mistero della presenza di Cristo in essa. Lo stesso Papa Montini, qualche anno dopo, fece capire quanto duri e drammatici furono quei momenti quando, nella sorpresa generale, affermò che «si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E' venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio... Da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel Tempio di Dio». Era il 29 giugno del 1972, festa di San Pietro. Festa del primo Papa. Che quella «fessura» dalla quale il Demonio aveva fatto capolino non fosse proprio il testo sulla collegialità a cui il pontefice aveva allegato la sua Nota?

Sia come sia, è da qui - da questa drammaticità - che bisogna partire per comprendere la figura e il magistero di Paolo VI. Tant'è vero che Benedetto XVI, a Bressanone, ha concluso il suo ricordo di Papa Montini affermando: «Man mano che il nostro sguardo sul passato si fa più largo e consapevole, appare sempre più grande, direi quasi sovrumano, il merito di Paolo VI nel presiedere l'Assise conciliare, nel condurla felicemente a termine e nel governare la movimentata fase del post-Concilio». «Quasi sovrumano», dice Ratzinger. Sono parole che rendono finalmente giustizia a un Papa che governò la Chiesa in piena tempesta e seppe, tra infiniti dolori e sofferenze spirituali, mantenere al centro il timone affidatogli da Gesù.

Gianteo Bordero

sabato 2 agosto 2008

UN ANNO DOPO

da Ragionpolitica.it del 2 agosto 2008

A volte bisogna fermarsi e guardare indietro. Esercitare la memoria per non perdere, sommersi dalla cronaca, il filo della storia. Anche in politica. E allora voltiamoci indietro, mentre il governo e il parlamento si preparano alle ferie estive, e pensiamo a quante cose sono cambiate, in Italia, da un anno a questa parte. Non è solo una questione di schieramenti politici e di governi. E' una questione di mentalità e, più profondamente, di verità.

Dall'estate 2007 all'estate 2008, il salto di qualità più importante - drammaticamente più importante - che il paese ha compiuto è l'aver preso coscienza della crisi italiana in tutta la sua portata. Una crisi pervicacemente negata o sminuita dallo sciagurato governo Prodi, cieco e sordo di fronte ai primi segnali che annunciavano tempesta, tanto sui mercati internazionali quanto nelle pieghe del sistema nazionale (un governo, quello del Professore, incapace di farci crescere negli anni di vacche grasse e di farci stare a galla in quelli di vacche magre - una pagina tra le meno edificanti della nostra storia repubblicana), ma già avvertita dai cittadini, che quotidianamente, sulla loro pelle, iniziavano a sentire sul collo il fiato pesante della crisi.

Per questo il già poco popolare (in tutti i sensi) esecutivo di centrosinistra continuò a scendere, giorno dopo giorno, nella stima e nel gradimento degli italiani, anche di quelli che pur lo avevano votato nel 2006: perché mentre i poveri cristi dei lavoratori erano costretti a tirare la cinghia, l'unica preoccupazione del presidente del Consiglio, ermeticamente rinchiuso nel Palazzo, era quella di restare saldo in poltrona tenendo a bada una coalizione bizzosa e irrequieta. Per rendersi conto di quanto il capo dell'esecutivo fosse avulso dalla realtà comune dell'italiano medio, basta leggere queste poche righe di una lettera aperta agli elettori di sinistra pubblicata sul suo blog il 2 agosto dello scorso anno: «Questo governo merita fiducia perché in soli 14 mesi ha rimesso a posto il debito, vede ripartire l'economia e tutelare i consumatori grazie alle liberalizzazioni». Sappiamo tutti quanto fosse ingiustificato l'ottimismo di Prodi. Sappiamo tutti qual è stato il destino di tanto trionfalismo.

Ma ciò che conta, oggi, non è infierire sul cadavere politico dell'Unione - «lasciate che i morti seppelliscano i loro morti». L'importante è segnalare la presa di coscienza collettiva riguardo allo stato di difficoltà presente e al contesto in cui il paese è ora costretto a muoversi. Essere consapevoli della realtà è sempre il primo, seppur doloroso, passo per riemergere da un momento «no». Per questo la campagna elettorale che ha permesso a Silvio Berlusconi di fare ritorno a Palazzo Chigi è stata un salutare bagno di realtà dopo due anni di mistificante propaganda. Gli italiani hanno scelto colui che non prometteva mari e monti, ma che garantiva il suo impegno per affrontare l'emergenza. Colui che ha chiamato le cose col loro nome, tanto che si trattasse di economia quanto di rifiuti.

«Diverso» non era e non è Silvio Berlusconi (anche se la ormai quindicennale navigazione politica ha insegnato molto al Cavaliere). «Diversa» era l'Italia e «diverso» era il mondo, come segnalava Giulio Tremonti nel suo La paura e la speranza. Chi per primo ha compreso questa diversità ha vinto la partita della politica, che è carne e sangue e che vola ben più alta del liberismo ideologico in salsa rossa (vedi Bersani) e del sincretismo politologico (vedi Veltroni). La politica è tornata perché è tornata la realtà in tutta la sua portata, crudamente chiamata per nome, senza infingimenti o edulcorazioni di sorta. Non più un'accozzaglia di reduci delle ideologie tenuti insieme soltanto dal mastice del potere, ma un progetto totus politicus con un solo obiettivo: realizzare insieme al paese il motto elettorale «Rialzati, Italia». Oggi, a tre mesi e mezzo di distanza dal 13 aprile, e con le vacanze alle porte, si inizia a riconoscere quel centro verso cui tendono i tanti raggi rappresentati dai primi provvedimenti del governo: ridare all'Italia uno Stato che funzioni, che garantisca i cittadini e combatta insieme a loro la grande battaglia per uscire dalla crisi e dall'emergenza.


Gianteo Bordero

IN DIFESA DELLA "CULLA PER LA VITA"

Intervento tenuto durante il Consiglio comunale di Sestri Levante del 30/07/2008

Signora Presidente, colleghi Consiglieri,

“Chi salva una vita, salva il mondo intero”. E’ quanto disse, una volta, Oskar Schindler, l’imprenditore che durante la seconda guerra mondiale mise in salvo migliaia di ebrei destinati a morte certa nei lager nazisti. Queste parole di Schindler mi sono tornate alla mente, per contrasto, quando ho letto il testo della mozione presentata dal Consigliere Gueglio in merito alla “Culla per la vita” che il 10 maggio scorso è stata inaugurata nella nostra città, presso l’Opera della Madonnina del Grappa.

Quella culla, nata per dare alle madri in difficoltà una possibilità in più di salvezza ed accoglienza per il figlio che esse non desiderano, o non possono, tenere con sé, Gueglio la definisce un “macabro loculo”, una “offesa alla civiltà”, un “segno non d’amore ma di barbarie”.

Eppure tutti noi abbiamo sentito più volte il Consigliere Gueglio, sia nel corso della campagna elettorale che durante la prima seduta del nostro Consiglio, caratterizzare la sua proposta politica secondo una prospettiva che egli ha definito, e definisce, “umanistica”.

Mi chiedo allora, dopo aver letto il testo della mozione ed aver ascoltato le parole di Gueglio questa sera, che cosa egli intenda per “umanesimo” e se nella sua idea di “umanesimo” rientri quel principio morale universale, quella legge naturale che ognuno di noi porta scritta dentro di sé, per cui la vita umana deve essere sempre considerata come un bene indisponibile, un valore assoluto, come un “fine in sé e mai come un mezzo”, secondo l’espressione coniata da un grande filosofo laico e moderno, Immanuel Kant.

E’ in forza di questo principio morale universale che anche una sola vita, la più reietta, la più debole, la più menomata, la più apparentemente insignificante, come quella di un bimbo rifiutato dalla madre che lo ha messo al mondo, merita di essere difesa e accolta: perché è un valore in sé, un valore che supera e trascende le ideologie con cui troppo spesso si è tentato – e si tenta - di ingabbiare la realtà riducendola a schemi mentali. Schemi che risultano essere, alla fine, soltanto prigioni abitate da mostri e da incubi: la storia del Novecento, il secolo delle ideologie applicate alla storia, sta lì a dimostrarlo con i suoi lager, i suoi gulag, con la mattanza di milioni e milioni di vittime, tra cui milioni di bambini innocenti.

Amare la vita, difendere la vita, rispettare la vita è dunque, oltre che un dovere morale e un imperativo categorico, anche un compito che ci è stato assegnato dalla vicenda del secolo passato, definito in maniera impropria, da uno storico, il “secolo breve”. E noi potremmo aggiungere: tanto breve quanto tragico.

Per questo va oggi guardata con favore - e mi permetta di dirlo, Consigliere Gueglio, va almeno considerata con rispetto, anche verbale – ogni iniziativa volta alla tutela della vita, specialmente quella più debole, come è nel caso di un bambino abbandonato dalla madre. Abbandonato il più delle volte non in quello che lei, Consigliere Gueglio, ha definito un “macabro loculo”, ma nei cassonetti dell’immondizia, alla stregua di un rifiuto di cui liberarsi, di uno scarto dell’esistenza da mandare in discarica.

Per questo va salutata con riconoscenza la “Culla per la vita”. Promossa dal Movimento per la vita e dai Centri di aiuto alla vita, essa fa parte di un insieme di attività ed iniziative finalizzate a garantire il diritto alla maternità delle donne: nei 303 Centri di aiuto alla vita presenti su tutto il territorio nazionale vengono forniti ascolto, assistenza e consulenza non soltanto alle gestanti, ma anche alle mamme in difficoltà.

Tutto ciò nel rispetto e in applicazione dell’articolo 2 della legge 194 del 1978, secondo il quale “i consultori, sulla base di appositi regolamenti o convenzioni, possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge (ossia, come recita l’articolo 1, “evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”) della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”.

Nel 2007 le gestanti assistite dai Centri di aiuto alla vita in Italia sono state 10.292, mentre le altre donne assistite sono state 14.187, complessivamente 24.479 donne, delle quali il 42% gestanti. In Liguria i Centri operativi sono 9: nel 2007 essi hanno aiutato 318 bambini nati. Inoltre, sono state assistite 458 gestanti oltre ad altre 309 donne. La “Culla per la vita” di Sestri Levante è la terza in Liguria, dopo quelle di Albenga e dell’ospedale Galliera di Genova. La culla è dotata di uno sportello esterno collegato ad un sensore sonoro che avvisa i responsabili dell’Opera della Madonnina del Grappa, i quali, in caso di presenza del neonato, avvisano a loro volta il Pronto Soccorso pediatrico dell’Asl 4.

Tutto secondo le regole e le leggi, dunque. Non vi è nessun “affronto”, come invece ha affermato il Consigliere Gueglio, “alla civiltà giuridica”. Anzi, ricordo che una sentenza del Tribunale di Casale Monferrato (la 58/95), fra le motivazioni per l’archiviazione dell’esposto presentato contro l’installazione della “Culla per la vita” in quella città, afferma che questo servizio sociale di accoglienza dei neonati a rischio di abbandono “può rappresentare l’extrema ratio in condizioni di assoluta ignoranza e disperazione ed evitare la commissione di gravi reati, di cui talora tratta la cronaca quotidiana”.

La “Culla per vita” non è neppure, come afferma ancora Gueglio, un “affronto alla laicità dello Stato”, non soltanto per il richiamo, fatto in precedenza, all’articolo 2 della legge 194, ma anche perché la vera laicità, la laicità positiva, non è quella che fa coincidere lo spazio pubblico con lo spazio esclusivo dello Stato, ma quella che riconosce anche ad enti ed associazioni assistenziali private un ruolo pubblico, cioè un ruolo di servizio al bene comune. La vera laicità, ancora, non è quella senza valori e senza principi, ma quella che rispetta i valori e i principi sui quali un popolo ha costruito la sua storia, la sua identità, le sue leggi.

Infine la “Culla per la vita” non è neppure un “affronto alla civiltà” tout court. Perché la civiltà non è, e non può essere, l’abbandono di un bimbo appena nato in un cassonetto; non è, e non può essere, il rifiuto della vita e il pensiero della vita come rifiuto; non è, e non può essere, il rigetto del dono dell’esistenza; non è, e non può essere, la teorizzazione, cercata e perseguita, della maternità come problema e come ostacolo sociale, come invece sembra trasparire da un comunicato stampa del Coordinamento donne di Sestri Levante del 7 maggio scorso.

A chi scrive e pensa che la vita e la maternità siano qualcosa da cui difendersi e da limitare con ogni mezzo, vorrei ricordare una frase dello scrittore inglese G.K. Chesterton, datata 1904: “La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Ma verranno attizzati fuochi per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l'incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile: questo immenso universo che ci fissa in volto. Guarderemo l'erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili”. E la nascita, desiderata o meno, è sempre un prodigio. Un prodigio da accogliere, proteggere, abbracciare.

Gianteo Bordero

Vice-presidente del Consiglio comunale di Sestri Levante
Consigliere comunale del gruppo "Pdl-Lega-Udc-Per Ianni sindaco"