mercoledì 24 dicembre 2008

SANTO NATALE 2008


sabato 20 dicembre 2008

IL CORAGGIO DI SACCONI

da Ragionpolitica.it del 18 dicembre 2008

La notizia è questa: checché ne dica la casta dei vari Grillo, Di Pietro, Travaglio, Flores D'Arcais e compagnia, checché ne pensi una certa magistratura che interpreta il suo ruolo come quello del custode unico e insostituibile dell'etica pubblica, dalla politica può ancora venire qualcosa di buono per il paese. Cioè per la vita del popolo italiano. Seguendo l'insegnamento della migliore e tanto bistrattata prima Repubblica, che educava i giovani impegnati nei partiti democratici e liberali al tanto vituperato «primato della politica», il ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, Maurizio Sacconi, ha diffuso ieri l'altro una direttiva destinata a lasciare il segno oltre la contingenza storica cui essa si riferisce.

Il caso è noto: dopo la recente sentenza definitiva della Corte di Cassazione, a Eluana Englaro potrebbero essere sospese l'idratazione e la nutrizione da un momento all'altro. Ciò comporterebbe, per la donna, una lunga agonia e ad un'atroce morte di fame e di sete. Il perché si sia giunti a questo punto è ormai risaputo: «Eluana è già morta», «Eluana è un vegetale», «Meglio una morte degna che una vita indegna» ripetono da tempo, a ogni pie' sospinto, i tanti Umberto Veronesi sparsi per la Penisola, convinti, in forza della loro suprema Scienza, di poter essere i giudici insindacabili della vita e della morte delle persone. Il problema, però, sorge nel momento in cui diventa necessario individuare un ospedale, una clinica, una struttura che accetti di ospitare tra le sue mura gli ultimi giorni di Eluana, che lasci morire la giovane «come un vegetale» privato del sostegno vitale. Si fa avanti una clinica friulana. Che, in accordo con la famiglia e con i medici e gli avvocati di questa, prepara il «ricovero», quello che i giornali chiamano «l'ultimo viaggio di Eluana».

E' di fronte a questa situazione che Maurizio Sacconi decide di intervenire con i suoi poteri di ministro emettendo una direttiva che parla chiaro: interrompere la nutrizione e l'idratazione di una persona in «stato vegetativo persistente» rappresenta un atto oggettivo di abbandono del malato. Sacconi si rifà, per motivare la sua direttiva, a un parere espresso il 30 settembre 2005 dal Comitato nazionale di bioetica e alla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, approvata dall'Onu il 13 dicembre 2006. Nel primo documento si afferma che la somministrazione di cibo e acqua, venga essa fornita per vie naturali o artificiali, «è il sostentamento ordinario di base». Nutrizione ed idratazione, secondo il Comitato di bioetica, «vanno considerati atti dovuti eticamente (oltre che deontologicamente e giuridicamente) in quanto indispensabili per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere». Nella Convenzione delle Nazioni Unite si stabilisce, poi, che gli Stati membri «riconoscono che le persone con disabilità hanno il diritto di godere del migliore stato di salute possibile, senza discriminazioni fondate sulla disabilità». Per questo è compito dei governi «prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazione di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità». In forza di ciò il ministro invita le Regioni «ad adottare le misure necessarie affinché le strutture sanitarie pubbliche e private si uniformino ai principi sopra esposti e a quanto previsto dall'articolo 25 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità».

Come prevedibile, la direttiva approntata da Sacconi innesca subito la solita ridda di polemiche: forti critiche al ministro vengono dalla stampa laicista, dal magistrato che ha emesso l'ultima sentenza, dal dottore di Eluana, dalla lobby dei medici favorevoli alla «dolce morte», dai partiti della sinistra e chi più ne ha ne metta. L'accusa è quella di voler impedire alla giustizia di fare il suo corso, di voler imporre un'etica di Stato, di voler accontentare il Vaticano. Nessuno, però, che si chieda se la decisione di Sacconi corrisponda o meno a un oggettivo interesse pubblico, che come tale deve essere tutelato dalla politica: quello di salvaguardare la vita come bene primario e indisponibile, impedendo che essa venga trattata non secondo il criterio della giustizia e del diritto, ma in base all'arbitrio e ai dettami contingenti della cultura dominante. Noi riteniamo che il ministro abbia fatto quello che un rappresentante del popolo e delle istituzioni deve fare: intervenire, usando i mezzi di cui per legge dispone, per riaffermare il principio dell'interesse generale e del bene comune di fronte ai tentativi di poteri non eletti di trasformare una visione patentemente di parte in un dogma etico per tutti. L'alternativa è ritenere che la vita sia un bene relativo, con tutte le conseguenze e le ricadute del caso in termini di rispetto della persona, soprattutto di quella più debole e indifesa. Come Eluana. Sarebbe, questa, vera civiltà?

Gianteo Bordero


martedì 16 dicembre 2008

IL LUNEDÌ NERO DEL PD

da Ragionpolitica.it del 16 dicembre 2008

Già la mattina non prometteva bene, con i dati sulla bassa affluenza ai seggi che allarmava il quartier generale del partito. Poi il pomeriggio confermava le più cupe previsioni. Verso le 18, dopo 3 ore di scrutinio, iniziavano a delinearsi le dimensioni del patatrac. A quell'ora, infatti, non soltanto il candidato del centrodestra, Gianni Chiodi, si posizionava stabilmente tra i 6 e gli 8 punti percentuali di vantaggio sul suo avversario Carlo Costantini, ma soprattutto prendeva forma quello che sarebbe stato il vero dato politico della giornata: al crollo verticale del partito di Veltroni corrispondeva la crescita esponenziale dell'Italia dei Valori. I dati definitivi, a notte inoltrata, dicono che il Pd è affondato, passando dal 33,5% del 13-14 aprile a un misero 19,6%, mentre Antonio Di Pietro e la sua Idv sono saliti dal 7% al 15%. I democratici, dunque, hanno perso in 7 mesi il 40% dei loro consensi, mentre i dipietristi li hanno raddoppiati. Se il raffronto, poi, è con le regionali del 2005, quelle che videro trionfare Ottaviano Del Turco, le cose per il Pd vanno ancora peggio: Ds più Margherita (allora separati) ottennero il 35,4% (rispettivamente il 18,6 e il 16,8%), mentre l'Idv si fermò al 2,4%. Rispetto a soli 3 anni fa, dunque, il numero di elettori del Pd in Abruzzo s'è quasi dimezzato, mentre i sostenitori del partito dell'ex pm si sono sestuplicati. Numeri da capogiro, in un senso e nell'altro. Che non possono essere spiegati, come invece hanno fatto numerosi esponenti del Pd, soltanto con l'elevato astensionismo.

Intanto, ai microfoni delle tv e sulle agenzie, in serata Antonio Di Pietro iniziava gongolante il suo show fatto di proclami trionfalistici e di j'accuse, di auto-incoronazione a nuovo leader del centrosinistra e di bordate contro il Partito Democratico. Dichiarava, ad esempio, il capo dell'Idv: «Noi abbiamo rilanciato la questione morale senza la quale i cittadini vedono che nulla cambia... I partiti che non sono né carne né pesce, che fanno riunioni, che dicono "ma anche" e che non si decidono, vengono puniti». Come con una trottola, l'ex pm si prendeva gioco dell'alleato: dopo esser riuscito a fargli sostenere il suo candidato presidente, ora lo accusava di non essere all'altezza della missione «moralizzatrice» incarnata dall'Italia dei Valori. Dalla padella alla brace. Tutto prevedibile? Forse, ma il talento naturale di Di Pietro, la sua capacità di infierire sui deboli e di capitalizzare poi politicamente i frutti delle sue requisitorie, hanno reso ancor più grama la giornata dei democratici.

Ma la mazzata finale doveva ancora arrivare. Il peggio era dietro l'angolo. Un'Ansa delle 23.53 annunciava infatti l'arresto di Luciano D'Alfonso. Il quale, oltre ad essere sindaco di Pescara, è pure il coordinatore regionale del Partito Democratico. Finito già nei mesi scorsi nel mirino della Procura della Repubblica, avrebbe annunciato stamane le sue dimissioni dalla carica di primo cittadino e dalla segreteria abruzzese del Pd. Tra le accuse quella di concussione, truffa e peculato per un appalto sui cimiteri, nonché falso ideologico e associazione per delinquere. Ex Ppi, ex Margherita, già giovanissimo presidente della Provincia di Pescara, oggi al secondo mandato amministrativo, solo qualche ora prima dell'arresto D'Alfonso aveva analizzato la sconfitta del suo partito parlando di una «disaffezione» dell'elettorato di centrosinistra «di cui ci sentiamo responsabili». Dopo Genova, Napoli e Firenze, un nuovo caso destinato a gettare altra benzina sul fuoco in casa democratica.

Il giorno dopo, le ferite ancora sanguinano e i dirigenti del Pd cercano di puntellare come possono i fondamenti dell'edificio faticosamente costruito nell'ultimo anno. Ma crescono i mal di pancia interni, aumenta il malcontento di coloro (e non sono pochi) che vedono come fumo negli occhi l'alleanza con Di Pietro, e che oggi, dopo che il voto abruzzese ha reso anche plasticamente l'idea della stretta mortale con cui l'ex pm sta cingendo il Pd, hanno un argomento in più per far valere le loro ragioni di fronte al segretario. Il quale è chiamato ora a giocare la partita più difficile non soltanto da quando è alla guida del Partito Democratico, ma di tutta la sua carriera politica: tenere in piedi una casa pericolante non soltanto a causa dei continui scossoni dovuti alle correnti interne, ma per la sferza dei venti (Di Pietro e le inchieste giudiziarie) che dall'esterno soffiano senza posa, giorno dopo giorno, con sempre maggiore forza e intensità. Mai il crollo è stato così vicino.

Gianteo Bordero

giovedì 11 dicembre 2008

VOTI IN FUGA

da Ragionpolitica.it dell'11 dicembre 2008

In attesa che arrivino i voti reali, quelli che usciranno dalle urne il prossimo lunedì dopo le elezioni regionali abruzzesi, in questi giorni il Partito Democratico deve fare i conti con i voti «virtuali» rilevati dai sondaggi. Due in particolare: quello condotto dall'Ispo di Renato Mannheimer per Affaritaliani.it e quello commissionato da Repubblica.it all'Ipr-Marketing. Il quadro che ne esce, per il Pd, è a dir poco sconfortante, sotto tutti i punti di vista. Non deve stupire, perciò, che nella giornata di ieri Walter Veltroni e Massimo D'Alema, nell'ultimo mese al centro di una lotta senza quartiere, abbiano deposto l'ascia di guerra per fronteggiare con una parvenza di unità l'allarme rosso proveniente dalle indagini demoscopiche. Ma procediamo con ordine.

L'Ispo ha reso noto che, negli ultimi 15 giorni, il Partito Democratico ha subito una flessione quantificabile in un milione di voti, passando dal 30% di due settimane fa all'odierno 28%. Commentando i risultati dell'indagine, Mannheimer ha dichiarato ad Affaritaliani.it che questi voti «sono andati un po' all'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e un po' sparsi». I motivi di questa débacle? «Le questioni interne, i continui conflitti tra le varie anime del partito e anche le recenti vicende giudiziarie che hanno colpito il Pd in diversi comuni, da Napoli a Firenze».

Ipr-Marketing, invece, si è concentrata sulle intenzioni di voto degli italiani in vista delle elezioni europee della prossima primavera. Anche in questo caso, per quanto riguarda il dato nazionale complessivo, il partito di Veltroni si assesta su un deludente 28%. Un dato di gran lunga inferiore non soltanto al risultato ottenuto alle politiche del 13 e 14 aprile scorsi (-5,2%), ma anche alle europee del 2004, quando Ds e Margherita, presentatisi insieme a Sdi e Repubblicani sotto le insegne della lista «Uniti per l'Ulivo», avevano raggiunto quota 31,1%. Le cose non vanno meglio se si analizzano i dati scorporati per circoscrizioni: qui salta immediatamente agli occhi, nel calo generale di consensi per il Pd, il tracollo del partito al nord, in particolare nel nord ovest della penisola (-4,5% rispetto alle ultime europee). Tradotti in seggi all'europarlamento, questi numeri potrebbero significare 4 o 5 deputati in meno a Strasburgo.

Come l'Ispo, anche l'Ipr-Marketing rileva, contestualmente all'emorragia di voti del Partito Democratico, una forte crescita dell'Italia dei Valori, che passa dal 4,4% delle ultime elezioni politiche al 7,8%, quasi raddoppiando i suoi consensi. Segno che, sin dalla scelta di non aderire al gruppo parlamentare del Pd e di presentarsi, nel suo primo discorso alla Camera, come il vero oppositore «duro e puro» a Berlusconi e al centrodestra, Antonio Di Pietro in questi mesi non ha sbagliato un colpo, erodendo, giorno dopo giorno, il capitale di voti del suo principale alleato.

In aggiunta a ciò, a preoccupare i Democratici è anche un altro dato contenuto nel sondaggio pubblicato su Repubblica.it: la crescita del Popolo della Libertà, che sale dal 37,3% del 13 e 14 aprile al 39%. Evidentemente, le critiche quotidianamente rivolte dal Pd al governo di cui il Pdl è l'asse portante non sono riuscite a interrompere la «luna di miele» con gli italiani e a riportare «a casa» quegli elettori che, come ricordava Daniele Capezzone durante l'ultimo Consiglio Nazionale di Forza Italia, alle politiche sono passati dal voto al Partito Democratico a quello per il Popolo della Libertà.

Come accennato all'inizio, non deve stupire il fatto che, con i risultati dei sondaggi sotto gli occhi e nel bel mezzo della bufera che sta investendo le giunte rosse che amministrano importanti città italiane, Veltroni e D'Alema abbiano deciso di firmare di comune accordo, come titola Il Tempo, un «armistizio»: la priorità, in queste ore, è quella di pilotare insieme il Pd fuori da una tempesta che rischia non soltanto di spazzare via la leadership veltroniana, ma anche di inghiottire nel suo vortice tutto il partito e tutta la sua classe dirigente - Baffino compreso.

Gianteo Bordero

domenica 7 dicembre 2008

LA BASSA CUCINA DI "FAMIGLIA CRISTIANA"

da Ragionpolitica.it del 6 dicembre 2008

Un'abbondante dose di disinformazione, una buona quantità di antiberlusconismo, quanto basta di antipolitica, un pizzico di politicamente corretto per condire il tutto... e la ricetta è bell'è pronta. La cucina di Famiglia Cristiana, il settimanale dei paolini che, come il nome stesso dice, dovrebbe occuparsi e preoccuparsi di rappresentare la cara e vecchia «buona stampa» nelle case dei cattolici italiani, da un po' di tempo a questa parte ha abbandonato la sua originaria missione e, forse anche per contrastare il calo di abbonamenti e vendite, si è trasformata in una bocca da fuoco contro il governo Berlusconi e contro ogni suo provvedimento. Che l'attuale presidente del Consiglio non piacesse a Famiglia Cristiana sin dal momento del suo ingresso in politica è cosa nota. Ma la campagna anti-Cavaliere inaugurata quest'estate con l'accusa di fascismo e di razzismo rivolta al suo governo è davvero senza precedenti nella storia della rivista.

Questa settimana, ad essere presi di mira, sono i provvedimenti varati dall'esecutivo col decreto anti-crisi, in particolare la social card e il bonus famiglie. Secondo FC, col decreto in questione «la montagna ha partorito un topolino»; trattasi di «demagogia, più che dell'inizio di una politica familiare seria». E poi la sparata ad effetto, che vorrebbe produrre perfino ilarità, ma al prezzo di giocare sulla pelle degli italiani in difficoltà, quelli per i quali i 40 euro mensili della carta sociale davvero sono importanti se paragonati al reddito percepito: «E' come dare l'aspirina - scrive Famiglia Cristiana - a un malato terminale». Bella battuta. Peccato che di mezzo vi siano, come detto, le persone in carne ed ossa che non arrivano o che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese, e che soltanto un cinismo senza confini può definire come «malati terminali». Si dirà: la rivista si riferiva al sistema-Italia nel suo complesso, di certo non ai poveri. Bene. Ma, se le parole hanno un senso, resta l'impressione che tutto faccia brodo per attaccare il governo, costi quel che costi.

Impressione confermata dal prosieguo dell'articolo, dove nessuna seria e approfondita analisi dei benefici (piccoli o grandi che siano) di cui potranno godere i cittadini in difficoltà è presente. In compenso, abbondano i giudizi meramente propagandistici come il seguente: «La borsa, quella vera, quella colma di denaro, sarà a disposizione delle banche, che hanno bisogno di soldi freschi per i loro affari». Dove sta scritto? Quale atto del governo può confermarlo? Domande destinate a rimanere senza risposta. E ancora: «Tremonti ha inventato la social card, poteva chiamarla "tessera del pane" (come Mussolini) o "carta della povertà": era lo stesso. Almeno, era più sincero». Ci risiamo con le accuse gratuite di fascismo, ormai immancabili nelle pagine del settimanale paolino.

Ma quanto poco importi a Famiglia Cristiana di dare un'informazione obiettiva ai suoi lettori, mettendo da parte almeno per un istante la battaglia preconcetta contro il governo, è documentato soprattutto dalla macroscopica contraddizione nella quale cade l'editorialista. Dapprima, come abbiamo visto, urla ai quattro venti che le misure votate dal Consiglio dei ministri sono insufficienti per affrontare la crisi, non bastano, non risolvono alcun problema, la social card «è meno di quanto la gente ruba per fame nei supermercati» e via strologando. Poi, come se niente fosse, ecco la giravolta logica: «La parola magica (usata dal governo, ndr) è bonus, cioè "carità". Che è cosa buona, ma non deve farla lo Stato». Dunque, dopo averci detto e ridetto in tutte le salse che il decreto è, nel migliore dei casi, un pannicello caldo, Famiglia Cristiana ci fa scoprire all'ultima riga, con un coupe de theatre, che lo Stato di queste cose non se ne deve occupare.

Ora, delle due l'una: o l'ultima frase cancella tutto il resto dell'articolo oppure è vero il contrario. Perché, se il principio aristotelico di non contraddizione è ancora vigente, è chiaro che non è possibile essere al medesimo istante campioni dello statalismo (il governo doveva fare di più) e del liberismo (il governo non doveva fare niente). A meno che la logica non sia stata abbandonata sull'uscio di casa nel momento in cui si partiva lancia in resta per l'ennesima crociata contro il nemico numero uno...

Gianteo Bordero

giovedì 4 dicembre 2008

DALLE FABBRICHE A SKY

da Ragionpolitica.it del 4 dicembre 2008

Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ha spiegato martedì da Bruxelles, carte alla mano, che la decisione di «armonizzare» l'Iva pagata da Sky Tv non è un capriccio del governo Berlusconi, ma nasce da un'esplicita richiesta dell'Ue. Senza tale provvedimento sarebbe stata aperta, nei confronti dell'Italia, una procedura d'infrazione per la violazione delle regole europee. Tremonti, inoltre, ha portato all'attenzione dell'opinione pubblica documenti risalenti al periodo di attività del governo Prodi, chiarendo così che l'attuale esecutivo altro non ha fatto che portare a termine un percorso già avviato dal centrosinistra.

Tutto chiarito, dunque? Neanche per sogno, perché, in assenza di argomenti più sostanziosi sui quali condurre la battaglia di opposizione, il Partito Democratico ha continuato a soffiare sul fuoco della polemica, servendosi della vicenda per rovesciare ancora una volta addosso all'esecutivo e al presidente del Consiglio ogni genere di accusa, da quella (solita) di voler limitare il pluralismo televisivo e la libertà di pensiero nel nostro paese, a quella fresca fresca di giornata: «Il governo Berlusconi alza le tasse», ha dichiarato l'ex viceministro dell'Economia Vincenzo Visco intervistato mercoledì da La Stampa. Detto dal Grande Tassatore è tutto un programma. Visco dimentica un paio di cosette. Primo: che altro era la cancellazione dell'Ici sulla prima casa varata dal governo Berlusconi dopo pochi giorni dal suo insediamento, se non un significativo taglio di un'imposta odiosa come quella sull'abitazione di proprietà? Secondo: nel caso di Sky, ci si rende conto di che cosa si sta parlando? La sinistra tratta l'abbonamento alla pay tv come se fosse un genere di prima necessità, come se fosse il pane quotidiano, la pasta o il latte. Invece trattasi di un cosiddetto «bene voluttuario», di cui usufruisce una fetta comunque ristretta di cittadini che se lo possono permettere.


L'atteggiamento dell'opposizione è tanto più irresponsabile se si tiene a mente il contesto generale nel quale esso si colloca. La sinistra si fa paladina di una multinazionale miliardaria come Sky mentre la gente comune deve fare i conti tutti i giorni con una crisi che, ben prima che mettere a rischio la sottoscrizione alla pay tv, va spesso a toccare l'essenziale, quello con cui sfamare i figli e mantenere la famiglia su un tenore di vita dignitoso. Lo stesso essenziale verso cui sono dirette le misure adottate dal governo Berlusconi, come la social card e il bonus famiglie. Misure che un tempo si sarebbero dette «di sinistra» e che sono anch'esse - ironia della sorte - criticate dal Pd in maniera pretestuosa, scavalcando la realtà e lo stato delle cose nel nostro paese.

Ben più che le diatribe interne, ben più che l'eterno duello tra Walter Veltroni e Massimo D'Alema, ben più che lo sterile dibattito sul fantomatico «partito del Nord», ben più che le batoste elettorali inanellate negli ultimi tempi, a testimoniare lo stato comatoso in cui versa la gauche italiana sono fatti e prese di posizione come quelle descritte, che mettono una pietra tombale su tutto ciò che la parola «sinistra» ha rappresentato nella storia dell'Italia repubblicana. Arrivare al punto di difendere la più grande televisione a pagamento e definire con parole sprezzanti i provvedimenti del governo in favore dei veri poveri, non quelli oggetto delle chiacchiere salottiere dei radical-chic, significa aver perduto totalmente il contatto con la realtà ed essersi sganciati dai bisogni concreti dei cittadini in carne ed ossa; significa aver abbandonato a se stessa la classe operaia, un tempo orgoglio e vanto della sinistra. Dalle fabbriche a Sky. Parafrasando un celebre romanzo di Carlo Levi, potremmo dire che davvero «la sinistra si è fermata alla pay tv».

di Gianteo Bordero

martedì 2 dicembre 2008

PD A RISCHIO IMPLOSIONE

da "Ragionpolitica.it" del 2 dicembre 2008

Le vicende politiche degli ultimi giorni mostrano che il processo di unificazione di Ds e Margherita nel Pd sta producendo effetti contrari a quelli sperati dai dirigenti dei due partiti. Il livello di conflittualità interna al Partito Democratico è tale che, procedendo di questo passo, potrebbe presto raggiungere il punto di non ritorno; non è dunque da escludere che si possa assistere in tempi brevi (da qui a un anno?) all'implosione del partito. Fare l'elenco dei guai del Pd è come incamminarsi in una via crucis che sembra non conoscere fine: l'incertezza sulla collocazione europea del partito, la lotta intestina tra veltroniani e dalemiani, la difficoltà nell'arginare il protagonismo di Di Pietro, l'assenza di una strategia di opposizione chiara e distinta, la mancanza di accordo interno sui vari temi proposti dall'agenda politica, i mal di pancia dei sindaci del nord. Tutti dati che poi si riverberano in capitomboli politici come l'elezione del presidente della Vigilanza Rai, la crisi della giunta sarda, la divisione in merito all'opportunità di sostenere o meno lo sciopero della Cgil.

Anche Edmondo Berselli, su La Repubblica del 1° dicembre, osserva, senza giri di parole, che «la crisi serpeggiante lascia vedere crepe che potrebbero semplicemente far crollare il partito. Se infatti dovesse trovare un innesco, anche casuale, l'insieme delle tensioni in atto sarebbe più che sufficiente a disgregare il Pd». Questo è dunque il punto: né più ne meno si tratta della sopravvivenza stessa del Partito Democratico a un anno soltanto dalla nascita. Sopravvivenza che, a tutt'oggi, è legata in maniera inscindibile alla tenuta della leadership veltroniana, attorno alla quale ha preso forma il Pd così come lo conosciamo oggi: come partito a vocazione maggioritaria che rompe il vecchio schema di alleanze a sinistra, fautore di un modello non più soltanto bipolare, ma più marcatamente bipartitico. Un soggetto che, lasciatosi alle spalle la visione tradizionale del centro-sinistra col trattino, diventi esso stesso compiutamente «centrosinistra».

La domanda da farsi, dunque, è la seguente: può sopravvivere e svilupparsi quest'idea di Partito Democratico, cioè l'idea veltroniana del Pd, o invece essa è destinata a logorarsi, giorno dopo giorno, fino al punto di lasciare nuovamente il passo al sistema ampio di alleanze precedente l'ascesa dell'ex sindaco di Roma alla segreteria e alle elezioni politiche del 13 e 14 aprile scorsi? In ballo, nella risposta a tale quesito, non c'è soltanto il rapporto del Pd con gli altri partiti di centro e di sinistra, ma qualche cosa di ben più importante: la definizione politica del Partito Democratico, la chiarificazione della sua identità, lo sviluppo della sua missione.

E' qui che si gioca la grande partita tra Walter Veltroni e Massimo D'Alema, che non può essere ridotta a una semplice questione di antipatia personale, ma va osservata in tutta la sua radicalità, ossia come uno scontro tra visioni politiche differenti, se non opposte. Come ricordava lunedì dalle colonne de Il Giornale Peppino Caldarola, ex direttore dell'Unità e profondo conoscitore di Veltroni e D'Alema, «l'uno, Walter, è ingolfato nell'idea del partito unico democratico che dovrebbe salvare il paese dal berlusconismo trionfante. L'altro, Massimo, pensa di costruire una forza socialista mascherata in grado di competere, ma anche di dialogare, con il capo del centrodestra».

Detta in altri termini: mentre Veltroni pensa che il Pd possa inglobare in sé, nel nome dell'ecumenismo culturale (il «ma-anche» ormai divenuto famoso grazie alla satira di Maurizio Crozza), una pluralità multiforme di esperienze politiche tra loro le più diverse, D'Alema rimane fermamente convinto che senza una definizione identitaria del Pd come partito di sinistra e, in special modo, come partito riformista e socialdemocratico che cerca poi alleanze alla sua destra e alla sua sinistra, non vi possano essere chance di vittoria per la gauche italiana. Per l'ex sindaco di Roma la strada maestra è l'unione delle differenze; per l'ex presidente Ds è l'unità nella differenza, per giungere a una forma di sintesi politica in cui ciascuno mantiene la sua identità all'interno di un'alleanza tra più partiti (come ricordava ancora Caldarola, per D'Alema la politica è proprio «l'arte delle alleanze», non delle fusioni).

Ne segue che, se oggi dire Partito Democratico equivale a dire Veltroni, un'eventuale fine precoce dell'attuale leadership potrebbe portare con sé conseguenze ben più sconvolgenti che un semplice cambio di segreteria. Perché l'alternativa a Walter, almeno così par di capire dalle discussioni e dagli avvenimenti degli ultimi tempi, non è un nuovo equilibrio che porti all'elezione di un nuovo leader, ma una rottura radicale delle stesse ragioni e motivazioni che hanno portato alla nascita del Pd. D'Alema ha dichiarato che intende occuparsi di più del partito. Come lo farà lo vedremo nei prossimi mesi, ma quel che è certo è che inizia ora, per il Partito Democratico, il momento della verità.

Gianteo Bordero

IL CENTRO SOCIALE "CASETTE ROSSE" E' UN REGALO DEL SINDACO AI COLLETTIVI ANARCHICI

Comunicato stampa del gruppo consiliare "Pdl-Lega-Udc-Per Ianni sindaco"
    Sestri Levante non ha bisogno di centri sociali in stile no global. Non ne ha bisogno, in particolare, il quartiere della Lavagnina, che per essere riqualificato di tutto necessita fuorché di un ampio spazio autogestito quale quello voluto dalla Giunta Lavarello nell’area delle Casette Rosse.

    A preoccuparci maggiormente è il fatto che proprio la zona delle Casette Rosse, in passato, è stata teatro di occupazioni abusive e illegali da parte di collettivi anarchici. Essi da tempo chiedevano all’Amministrazione Lavarello di impegnarsi per trasformare le Casette Rosse in un centro sociale autogestito. Una richiesta che ora il sindaco e la Giunta soddisfano in pieno, usando un’ingente quantità di denaro pubblico (843.000 euro) per realizzare un’opera che tutto ha di mira fuorché l’interesse generale della città.

    Già nel 2003, del resto, a una domanda di spazi avanzata al primo cittadino dal Collettivo Casette Rosse al fine di “divulgare il nostro progetto di autogestione da sperimentare con il quartiere” (protocollo comunale 24699 del 01.10.2003), il sindaco rispondeva definendo “condivisibili le finalità delle richieste” (Atto Interno 198/2003).

    Non c’è da stupirsi, dunque, se oggi il dottor Lavarello fa votare alla sua maggioranza un provvedimento che istituisce il centro sociale Casette Rosse mettendo più volte l’accento sul fatto che esso sarà “autogestito”. C’è semmai da preoccuparsi per l’ennesima scelta sciagurata di un’Amministrazione che bene farebbe a occuparsi, invece che di centri sociali per pochi, dei veri problemi di tutti i cittadini.

    domenica 23 novembre 2008

    IL PARTITO, L'UOMO E LA STORIA

    da Ragionpolitica.it del 22 novembre 2008

    Scegliendo di chiudere il Consiglio Nazionale di Forza Italia con la lettura del discorso della «discesa in campo» del 1994 Silvio Berlusconi ha collocato il percorso che porterà alla nascita del Popolo della Libertà non nel campo sterile della politologia e dell'alchimia partitica, ma nel solco ben più carnale e concreto della storia. Di una storia particolare - la sua, quella di un brillante imprenditore di talento e di successo - che si è intrecciata con una storia più grande - quella dell'Italia - in un suo snodo fondamentale: il crollo della prima Repubblica, la crisi dei partiti democratici che governarono il paese dal secondo dopoguerra sino ai primi anni '90, il tentativo della magistratura, sostenuto opportunisticamente dagli eredi del Partito Comunista italiano, di sostituirsi manu militari alla politica e al parlamento eletto dal popolo. Senza Berlusconi non ci sarebbe stata alternativa, nelle elezioni della primavera del 1994, alla presa del potere da parte di quelli che egli definiva, nel suo discorso, «uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare».

    Tutta la parabola politica di Berlusconi non si può comprendere - e neppure si può comprendere la nuova sfida del Popolo della Libertà - se non partendo da qui e qui sempre tornando: a un fatto che ha cambiato la storia, ne ha deviato il corso sottraendo il nostro paese a un futuro cupo, incerto e inquietante. Se è possibile usare il termine «berlusconismo», esso è da intendersi non nel senso ideologico, di dottrina politica (le ripetute esperienze di governo del Cavaliere hanno mostrato come egli non sia un ferreo dogmatico, ma un ragionevole pragmatico), bensì nel senso storico: il berlusconismo è una storia, non un'ideologia. E' la vittoria della carnalità storica sull'astrattismo ideologico.

    Questo vuol dire, oggi, il Berlusconi che va al Consiglio Nazionale di Forza Italia riproponendo il testo della «discesa in campo»: che tutti i passi che verranno compiuti in vista del battesimo ufficiale del Popolo della Libertà non possono essere concepiti come una fecondazione in vitro, come uno sforzo teorico per amalgamare idee, valori e programmi diversi, come un abile gioco di ingegneria politica. Ci hanno già provato altri, negli anni recenti, e non soltanto a sinistra, anche se è in quella parte politica che oggi appaiono con più evidenza i danni che possono essere provocati dalle cosiddette «fusioni a freddo». Il «nuovo» deve essere concepito, invece, avendo sempre presente davanti agli occhi e nella mente l'origine, la sorgente storica, il fatto. Che poi vuol dire, in altri termini, la persona, il volto, il nome che ha reso possibile l'avventura. Ogni discorso su organigrammi, strutture e financo successione al Cavaliere non può prescindere dal fatto che, come ha detto al Foglio qualche giorno fa Baget Bozzo, «il Popolo della Libertà è Berlusconi». Non è culto della personalità, ma rispetto della storia, di un dato oggettivo che non può essere negato - se qualcuno lo facesse, sarebbe purtroppo incamminato su una strada senza sbocco politico, un vicolo cieco, un sentiero che esaurisce il suo tracciato in un burrone.

    E' Berlusconi che ha portato il peso della lotta contro la gioiosa macchina da guerra comunista nel '94; è Berlusconi che ha combattuto, dopo il ribaltone, contro tutti i poteri costituiti - Quirinale compreso - che tifavano per la sua scomparsa dalla scena; è Berlusconi che ha compiuto la traversata del deserto negli anni 1996-2001, sconfiggendo, assieme al cancro, tutti coloro che già lo davano per morto; è Berlusconi che da solo ha lottato, nel 2006, contro l'Unione di Prodi, mentre i suoi stessi alleati si defilavano vergognosamente dalla campagna elettorale; è Berlusconi che ha creduto, sin da subito, alla caduta del governo del Professore e al ritorno a Palazzo Chigi del centrodestra. Queste sono le tappe non dell'elaborazione di una dottrina politica, ma del dipanarsi di una storia. Una storia fatta da un uomo in carne ed ossa, non da qualche luminare del pensiero politico. La storia di Berlusconi. La storia di quella che egli stesso chiama, riprendendo Erasmo da Rotterdam, «visionaria follia». Una storia che può continuare soltanto se la fedeltà all'inizio non verrà meno e se gli occhi saranno puntati sull'uomo invece che sull'ideologia, le formule e gli statuti.

    Gianteo Bordero

    giovedì 20 novembre 2008

    PERCHÉ IL PD NON MOLLA DI PIETRO

    da Ragionpolitica.it del 20 novembre 2008

    Dopo le ultime vicende riguardanti l'elezione del presidente della Commissione di Vigilanza Rai, che hanno reso evidente come il Partito Democratico si sia cacciato in vicolo cieco sposando in toto la linea dura dipietrista, sorge spontaneo chiedersi perché Walter Veltroni non rompa definitivamente con l'Italia dei Valori e riprenda il discorso politico incominciato con il discorso del Lingotto e interrotto poche settimane dopo l'insediamento a Palazzo Chigi del quarto governo Berlusconi. La prima risposta, legata alle contingenze del momento, è che il Pd ha bisogno dell'Idv per affrontare le scadenze elettorali che lo attendono, sia quelle a breve termine (le regionali in Abruzzo di fine novembre) che quelle della prossima primavera (soprattutto le amministrative, che vedranno andare al voto moltissimi Comuni italiani). Con un Popolo della Libertà e una Lega Nord in buona salute è giocoforza, per i Democratici, cercare di presentarsi al giudizio degli elettori aggregando più forze possibili, anche perché sono in bilico amministrazioni tradizionalmente rosse la cui perdita rappresenterebbe un ulteriore smacco, per la sinistra, dopo quello subito il 13 e 14 aprile scorsi.

    Ma, oltre a ciò, vi è anche un motivo sostanziale che impedisce al leader del Pd di addivenire ad una rottura netta con l'ex pm di Mani Pulite. Il fatto è che buona parte dell'elettorato e della militanza ex Ds ed ex Dl non ha mai accettato fino in fondo i contenuti della svolta del Lingotto, ossia la virata in direzione di un riformismo responsabile e maturo, ed è rimasta saldamente ancorata all'antiberlusconismo viscerale ed ideologico, lo stesso sul quale fa leva Di Pietro per raccogliere consenso, accusando il Cavaliere di ogni male e di ogni misfatto possibile, come ha fatto martedì, quando, in conferenza stampa, ha affermato che il presidente del Consiglio è un «corruttore politico». Il problema di una presa di distanza finalmente definitiva del Pd dall'Italia dei Valori non si porrebbe se gli elettori e i militanti del partito di Veltroni avessero i medesimi sentimenti e le medesime convinzioni politiche del loro capo. Ma così non è, come dimostra un sondaggio di qualche settimana fa, dal quale emergeva che la maggior parte di coloro che votano democratico vede di buon occhio più l'alleanza con Antonio Di Pietro che non quella, prospettata da alcuni dirigenti del Pd, con l'Udc di Pier Ferdinando Casini. Stando così le cose, è chiaro che una cesura alla radice del rapporto con l'Idv comporterebbe, con buona probabilità, anche un'ulteriore emorragia di consensi per il Partito Democratico, che già viaggia abbondantemente sotto le aspettative iniziali, sotto la fatidica soglia del 35% considerata il «minimo sindacale» per la nuova creatura di centrosinistra.

    Qui non è in ballo soltanto la leadership di Veltroni, perché proprio sullo scoglio del passaggio a un partito modernamente riformista già si era arenata la nave postcomunista ai tempi della segreteria di Massimo D'Alema, costretto ad abbandonare il suo progetto di fronte alla mancanza del necessario consenso di base (e, in parte, anche di dirigenza). Il passare degli anni, evidentemente, non ha mutato nella sostanza quello che era il pregiudizio anti Cavaliere dell'elettorato che oggi vota Partito Democratico, fieramente e fermamente convinto della necessità di mantenere il vincolo dell'antiberlusconismo come condizione primaria per elaborare sia una linea politica che un quadro di alleanze. Se il Pd veltroniano era nato con lo scopo di superare l'Unione prodiana, oggi possiamo affermare che è ancora alla vasta coalizione messa in piedi dal Professore che guardano i simpatizzanti e i militanti del nuovo partito. La «vocazione maggioritaria» annunciata dall'ex sindaco di Roma esiste come slogan (oggi neanche più quello) ma non come realtà di popolo e come via politicamente perseguibile.

    Ne consegue che il Pd è ostaggio di Di Pietro non soltanto per una scelta dei suoi dirigenti - tattica o strategica che sia - ma anche per una sorta di ineluttabile destino che lega il suo elettorato a un passato più o meno recente e gli impedisce di far evolvere il partito verso l'agognato approdo del riformismo europeo. Faceva persino tenerezza, qualche sera fa, sentire Piero Fassino in una trasmissione televisiva esaltare la dignità e la grandezza della Politica con la P maiuscola e difenderla dagli attacchi ferocemente antipolitici e anti Casta della conduttrice, quando poi chi vota per il partito che Fassino rappresenta ha gli stessi sentimenti «grillini» e «girotondini» di Di Pietro. E' quasi una maledizione quella che si prende gioco dei postcomunisti: tutte le volte che i vertici vogliono mettersi sulla via politica tracciata da Craxi la base li obbliga a percorrere la strada dei suoi aguzzini. La testa va da una parte, le membra nella direzione opposta. E' una schizofrenia che pesa come un macigno sul futuro politico del Pd.


    Gianteo Bordero

    martedì 18 novembre 2008

    VELTRONI NON NE AZZECCA UNA

    da Ragionpolitica.it del 18 novembre 2008

    La «Jena» della Stampa, Riccardo Barenghi, domenica lo ha paragonato a Paperino, «quello che, se prende un'iniziativa, combina un disastro», «quello che non ne azzecca una». Ed è proprio così. Anche l'ultimo episodio, ossia la vicenda dell'elezione del presidente della Commissione di Vigilanza Rai, dimostra che Walter Veltroni non ne combina una giusta. La scelta del nome per la Vigilanza sulla Tv di Stato era, per il segretario del Pd, l'occasione buona per liberare se stesso e il suo partito dall'abbraccio mortale con Antonio Di Pietro e con l'Italia dei Valori; per rilanciare una qualche forma di dialogo con la maggioranza dopo mesi di totale incomunicabilità; infine, per mostrare di possedere quel senso delle istituzioni di cui difetterebbero, secondo Veltroni e i dirigenti democratici, il Popolo della Libertà e la Lega Nord.

    Invece niente. Walter non ha capito, a differenza dei due esponenti del Pd che hanno votato per Villari, che il momento in cui i rappresentanti della maggioranza in Vigilanza Rai infilavano nell'urna la scheda con il nome del senatore napoletano, sbloccando una situazione divenuta ormai insopportabile dal punto di vista istituzionale e non solo, era anche il suo momento, l'istante giusto per rialzare la testa e far vedere a tutti (nemici interni, alleati arroganti e avversari dello schieramento di centrodestra) di che pasta politica è fatto. Come? Dando la sua benedizione al presidente eletto e mettendo i puntini sulle «i» riguardo a chi detiene il bastone del comando nel partito e nell'opposizione. Ma i treni, come si suol dire, non passano mai due volte. E così Veltroni si è fatto inghiottire dagli eventi, con un triplice risultato negativo: lasciare che fossero i suoi detrattori nel partito a dettare la linea (chi nella direzione della legittimazione di Villari, chi in quella opposta di una sua espulsione immediata); destare più di un sospetto di mancanza di fedeltà alla causa antiberlusconiana nella truppa dipietrista; apparire ancora di più che nel recente passato, agli occhi del centrodestra, come un interlocutore inconsistente.

    Un disastro su tutta la linea, quindi. Sottolineato, sui quotidiani di ieri, da due grandi conoscitori della politica italiana come Marco Pannella e Biagio De Giovanni, entrambi orbitanti attorno al pianeta democratico. Il leader storico dei Radicali, intervistato da Il Giornale, ha affermato che «se per caso Villari si dovesse dimettere, come il suo partito lo invita a fare, si ritornerebbe alla situazione di caos precedente... L'elezione di Villari è stata regolare e grazie ad essa il parlamento può rientrare nella legalità finora violata». E il filosofo ed ex parlamentare comunista, grande conoscitore della storia del Pci, interpellato dal Corriere della Sera, ha detto di vedere all'opera, nella continua richiesta di espulsione di Villari dal Pd, i peggiori fantasmi del passato: «Vedo la Finocchiaro che mostra una faccia dura, durissima e invoca l'espulsione... Sembra di essere tornati al vecchio Pci, proprio a quello vecchio, perché le ultime espulsioni risalgono al 1968, con il gruppo di intellettuali del Manifesto». Sia Pannella che De Giovanni concordano nell'individuare l'errore politico di fondo compiuto da Veltroni: ammanettarsi a Di Pietro e rinunciare a perseguire una linea politica autonoma e distinta da quella dell'ex pm. Dice Pannella: «E' dalle elezioni di aprile che il leader del Pd ha fatto una scelta di grande avventatezza politica alleandosi con l'Italia dei Valori». E De Giovanni: «Il Partito Democratico si deve liberare della subalternità nei confronti di Di Pietro... La sua presa sul Pd si è fatta sempre più penetrante, nonostante la sua politica sia in contrapposizione a quella del Pd... Ciò inibisce la capacità dei democratici di portare avanti la loro politica».

    Se proprio si vuole trovare una qualche motivazione all'atteggiamento di Veltroni nella vicenda della Vigilanza Rai, si può ipotizzare che egli non abbia voluto rompere in modo traumatico con l'Idv a pochi giorni dalle elezioni regionali in Abruzzo, dove le prospettive, per il candidato comune di democratici e dipietristi, Carlo Costantini, non sono propriamente rosee - per usare un eufemismo. Eppure, il fatto che avrebbe dovuto mettere sull'attenti il segretario del Partito Democratico non è tanto la sconfitta, che appare scontata, quanto il possibile sorpasso dell'Idv sul Pd. E' chiaro che, se tale sorpasso si verificasse, la leadership veltroniana, che aveva preso una boccata d'ossigeno alla manifestazione del Circo Massimo, si troverebbe di nuovo messa seriamente in discussione. Perché è chiaro come il sole che l'unico obiettivo di Di Pietro non è costruire una nuova sinistra in grado di competere con il centrodestra, e non è neppure mettere in difficoltà il governo, bensì diventare il capo effettivo dell'opposizione antiberlusconiana facendo un sol boccone di tutto ciò che sa di riformismo, moderazione, senso delle istituzioni. Il Pd è la prossima vittima designata dell'ex pm. Che Veltroni non lo capisca - o faccia finta di non capirlo - è davvero un assurdo politico che ha pochi precedenti nella storia repubblicana.


    di Gianteo Bordero

    sabato 15 novembre 2008

    ELUANA E IL CHIODO FISSO DEI NICHILISTI

    da Ragionpolitica.it del 15 novembre 2008

    «E voi materialisti, col vostro chiodo fisso che Dio è morto è l'uomo è solo in questo abisso», cantava Francesco Guccini qualche anno fa in uno dei suoi brani più belli, Cirano. Oggi, dopo la terribile sentenza della Corte di Cassazione che ha legittimato la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione per Eluana Englaro, dovremmo aggiornare la strofa del cantautore di Pavana togliendo di mezzo i «materialisti» e scrivendo la parolina magica: «nichilisti». Il materialismo, infatti, alla materia qualche dignità la riconosceva. Il nichilismo neppure quello: se avesse rispetto della materia non condannerebbe una giovane donna a morire di fame e di sete, tra sofferenze prolungate e indescrivibili; accetterebbe il fatto che vi possa essere una vita che è definibile come tale anche se menomata; non tratterebbe il corpo di Eluana alla stregua di un qualcosa di cui liberarsi al più presto.

    Il nichilismo, come uno schiacciasassi, passa sopra a tutto. Che sia «gaio» o che sia «tragico», sempre conduce nella stessa direzione: il burrone dell'insignificanza, il deserto del non senso. Perché, se si ammettesse anche soltanto lontanamente la possibilità di un significato dell'esistere, il corpo di Eluana sarebbe guardato sotto una nuova luce, la sua vicenda sarebbe letta con altre lenti, la sua presenza tra noi spalancherebbe le porte dell'uomo interiore al mistero che sempre la vita è. Sempre. Nella gioia e nel dolore, nel sorriso e nel pianto, nella salute e nella malattia, la vita rimane degna di essere vissuta. Non lo dice soltanto la Chiesa cattolica, checché ne pensi il professor Veronesi, il quale, su Repubblica, afferma che chi si oppone all'interruzione dell'alimentazione per Eluana lo fa basandosi «su posizioni di fede». Lo dice anche la ragione. Lo dice quel maestro della cultura laica occidentale, Immanuel Kant, quando riconosce che la vita deve essere considerata come un fine in sé, e quindi come un bene indisponibile all'arbitrio dell'uomo sull'altro uomo. Ma parlare di ragione ai nichilisti è come parlare di libertà ai dittatori...

    Non scandalizzi il paragone, perché quando la ragione viene tolta di mezzo ciò che subentra porta sempre - sempre ha portato nel corso della storia - alla violenza e al sopruso. E la sentenza della Corte di Cassazione è, nella sostanza, priva di ragione, perché l'unica cosa di cui tiene conto è una presunta volontà di Eluana di non voler vivere in quello che viene chiamato «stato vegetativo»: tutto il resto, in primis il fatto che Eluana viva (anche se ancora una volta Umberto Veronesi, oncologo di fama nonché senatore del Partito Democratico, sostiene che «Eluana è morta 16 anni fa»), passa arbitrariamente in secondo piano. Compresa la circostanza che Eluana sia ancora, a tutti gli effetti, una persona, e non, come tanti in queste ore ripetono, un vegetale.

    Quando la persona viene degradata, con un cinismo saccente e presuntuoso, a «vegetale», a che cosa ci troviamo di fronte? A un atto di civiltà? A un progresso sociale? Oppure ad una barbarie e ad un regresso che ci riportano al vero secolo buio della nostra storia, cioè il Novecento dei totalitarismi? E non è forse, a ben vedere, una sottile forma di totalitarismo anche il fatto che sia una magistratura che si crede onnisciente e onnipotente ad avere l'ultima parola sulla vita e sulla morte delle persone? E' «ragionevole» tutto ciò? No, non è ragionevole.

    Ma nichilismo e ragione sono come il «ferro ligneo» di cui parlava Heidegger: una contraddizione in termini. Perché tutto ciò che la ragione suggerisce all'uomo, tutta l'apertura al significato di cui essa è capace, tutta la profondità delle domande che essa pone al cuore della persona, tutto ciò il nichilismo lo spazza via, col risultato inevitabile descritto da Guccini: l'uomo viene lasciato solo «in quest'abisso». E' l'anticamera della disperazione, la cancellazione della voglia di vivere, lo svuotamento del carico di attese e di speranze che ognuno porta con sé, nel profondo dell'io, laddove nessun Veronesi può arrivare a vedere col suo microscopio, laddove non può entrare la volontà di potenza dei magistrati, laddove l'unico e ultimo giudizio è quello di colui che l'uomo l'ha creato dal nulla, non di coloro che nel nulla vorrebbero ricacciarlo.

    Al culmine della sua lunga malattia e della sua sofferenza, dal letto di dolore dal quale poteva osservare, attraverso i vetri della stanza, un albero di pioppo, scriveva il poeta Clemente Rebora: «Vibra nel vento con tutte le sue foglie/ il pioppo severo:/ spasima l'anima in tutte le sue doglie/ nell'ansia del pensiero:/ dal tronco in rami per fronde si esprime/ tutte al ciel tese con raccolte cime:/ fermo rimane il tronco del mistero,/ e il tronco si inabissa ov'è più vero». Strappare l'albero dell'esistenza dalle sue radici fa seccare ogni possibilità di significato e di amore per l'essere, per la realtà, per la vita.


    Gianteo Bordero

    venerdì 14 novembre 2008

    SI' ALLA VITA, NO ALLA CONDANNA A MORTE DI ELUANA ENGLARO

    La magistratura italiana, al culmine della sua volontà di onniscienza e di onnipotenza, s’è arrogata il diritto di decidere della vita e della morte delle persone. In questo caso di una persona, Eluana Englaro, che solo un cinismo senza confini può definire e considerare alla stregua di un “vegetale”. La dignità dell’esistenza umana è tale dal concepimento al suo termine naturale. Non lo dice soltanto la Chiesa, ma il vertice stesso della cultura occidentale, che con Kant ha riconosciuto che la vita è sempre un fine in sé, e quindi un bene indisponibile all’arbitrio dell’uomo sull’altro uomo.

    E’ chiaro a che cosa vada incontro la nostra società nel momento in cui viene di fatto introdotto il diritto di sospendere a un malato non le cure, non l’accanimento terapeutico, ma l’alimentazione e l’idratazione: si va diritti verso la barbarie, verso la negazione della civiltà, verso la riduzione della dignità umana a mera espressione verbale priva di contenuto oggettivo. La sentenza della Corte di Cassazione non rappresenta, come affermano tanti in queste ore, un “progresso sociale”, ma soltanto l’ennesima offesa alla dignità della vita, alla sua maestà, al suo infinito mistero.

    Gianteo Bordero

    giovedì 13 novembre 2008

    LA DIGNITA' DELLA VITA IMPERFETTA

      La coscienza occidentale, dilacerata in questi ultimi anni dai dilemmi bioetici, è oggi messa nuovamente alla prova da un'imprevedibile coincidenza di fatti: negli stessi giorni in cui, negli Stati Uniti, si apprende che il presidente eletto Barack Obama ha intenzione di rilanciare la ricerca sulle cellule staminali embrionali bloccata da George W. Bush, in Italia la Corte di Cassazione dà il definitivo via libera alla sospensione dell'alimentazione per Eluana Englaro, la giovane donna di Lecco in coma da diciassette anni a seguito di un grave incidente stradale. Nel giro di poche ore, dunque, accade che si incrocino due vicende che indicano a un tempo il massimo di potenza dell'uomo (la capacità di manipolazione della vita nascente) e il massimo di impotenza (l'ineluttabilità della morte), con l'ulteriore paradosso per cui coloro che vorrebbero a tutti i costi il massimo di deregulation nella ricerca genetica sugli embrioni (la vita a tutti i costi) sono gli stessi che ritengono legittima quando non doverosa l'interruzione dell'alimentazione per Eluana (la morte a tutti i costi).
        Come si vede, non c'è una logica, e forse neppure vi può essere, di fronte a fatti della realtà che sfidano ogni capacità umana di comprensione e di semplificazione. Il dramma nasce dal fatto che, sottraendo al massimo di potenza (manipolazione embrionale) il massimo di impotenza (inevitabilità della morte), non si ottiene la cifra zero, cioè tranquillità della coscienza e quieto vivere, ma un punto interrogativo che interpella l'interiorità profonda di ciascuno. Si può far finta che questo punto di domanda non vi sia e rinunciare in partenza a scoprire ciò che si nasconde dietro di esso. Oppure si può prendere sul serio l'enigma, cercare di guardare al di là delle nebbie, anche se ciò significa mettere a nudo il proprio essere uomini, fare i conti con ciò che sfugge al nostro dominio e al nostro controllo, intraprendere la navigazione in un mare senza confini abbandonando il piccolo porto delle solite quattro certezze.
          A questo interrogativo il grande intellettuale francese Emmanuel Mounier, il fondatore della rivista Espirit, ha dato una risposta che merita oggi di essere nuovamente presa in considerazione. Una risposta che nasce, nonostante Mounier fosse un apprezzato filosofo, non dalla speculazione razionale, dalla deduzione sillogistica, dalla logica matematica, ma dall'esperienza. L'esperienza del dramma e del dolore. La dura esperienza di una figlia menomata a vita dalla meningite. Quell'esistenza imperfetta, piagata, dimezzata, il filosofo e la moglie la accolgono come tale. E non grazie a qualche teoria più o meno convincente, ma in forza di una intuizione straordinaria, la stessa che fa dire al cattolico Mounier: «Occorre soffrire perché la verità nasca dalla carne e non si cristallizzi in dottrina». Non perché la sofferenza sia un bene in sé, ma perché può spalancare all'uomo le porte di ciò che sta al di là del visibile e del tangibile. Così la vita della bambina, da apparente maledizione, diventa una benedizione per la vita dei suoi genitori. E Mounier può scrivere alla moglie: «Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto carne malata, un po' di vita dolorante, e non invece una piccola ostia che ci supera tutti, un'immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia?». Da allora la piccola Françoise avrebbe avuto il posto d'onore alla tavola dei Mounier. E la stessa tavola frequentata da tanti intellettuali, uomini di cultura, scrittori, sarebbe divenuta il luogo in cui l'apparente maestà del sapere umano si inchina di fronte alla vera maestà della vita, quella che l'uomo non possiede, che non può misurare, ma solo accogliere e abbracciare.
            Il nostro tempo ci ha abituati a fuggire - e spesso a disprezzare - l'imperfezione, la menomazione, la malformazione. Perciò l'apparente contraddizione di cui parlavamo poc'anzi e a cui stiamo assistendo in questi giorni (quella tra il massimo della potenza e il massimo dell'impotenza umane) si dissolve di fronte alla constatazione che tanto la manipolazione dell'embrione quanto la sospensione dell'alimentazione per Eluana portano con sé un tragico rifiuto del mistero, di ciò che per Mounier era diventato il luogo del miracolo. Non il miracolo della guarigione, ma il miracolo dell'accoglienza della vita e, soprattutto, del suo significato. Quello che sfugge ai calcoli, agli esperimenti e alla volontà di onnipotenza, ma che è ben vivo in chi apre il suo cuore a quella dimensione che sta oltre ciò che si può produrre in laboratorio, oltre ciò che si può sopprimere staccando una macchina o interrompendo la nutrizione. La vita oltre la vita. E oltre la morte.
              Gianteo Bordero

              martedì 11 novembre 2008

              OPPOSIZIONE EXTRAPARLAMENTARE

              da Ragionpolitica.it dell'11 novembre 2008

              Le ultime mosse del Partito Democratico (la definizione di Berlusconi come «autoritario», la manifestazione anti-governativa del Circo Massimo, l'accusa al premier di fomentare il razzismo) non fanno che confermare la strategia di opposizione scelta da ex Ds ed ex Dl: una strategia che non percorre le vie del parlamento, del confronto istituzionale, della responsabilità nazionale in un momento difficile come l'attuale, ma che si gioca tutta nelle piazze, nei luoghi «caldi» della protesta, sui mezzi di comunicazione «amici». E' una opposizione che a buon titolo può essere definita come «extraparlamentare», perché pensa che la maggioranza e il governo non siano avversari politici da sconfiggere nelle sedi istituzionali, ma nemici da abbattere attraverso la rivolta sociale, l'allarmismo mediatico, la chiamata alla resistenza contro il nuovo tiranno.

              Ancora una volta, dunque, la sinistra postcomunista sceglie la forma politica della guerra civile come metodo di contrapposizione a Berlusconi e al centrodestra. Succede ormai da quattordici anni a questa parte con una impressionante regolarità svizzera. E' accaduto nel 1994 al momento della «discesa in campo» del Cavaliere. E' accaduto nel quinquennio 2001-2006, durante il suo secondo governo. E riaccade oggi, nonostante il tentativo di maquillage con cui Walter Veltroni ha cercato, nella sua ascesa alla segreteria del Partito Democratico, di presentarsi all'elettorato come il «nuovo», come colui che avrebbe chiuso la fase dell'antiberlusconismo ideologico, come il grande pacificatore tra due schieramenti l'un contro l'altro armati. Diceva ad esempio l'ex sindaco di Roma durante il suo discorso al Lingotto di Torino: «Voltiamo pagina. Facciamo in modo, per la prima volta da quindici anni, che non si formino più schieramenti "contro" qualcuno, ma schieramenti "per" affrontare le grandi sfide dell'Italia moderna... Si può far vivere una politica in cui si ammetta serenamente la possibilità che l'altra parte possa anche aver ragione. Una politica in cui ci si scontri duramente su programmi e valori, ma capace di convivenza e rispetto istituzionale».

              Ad affermare ciò era lo stesso Walter Veltroni che oggi dichiara che il suo ex «avversario» svuota la democrazia dal di dentro; lo stesso Veltroni che dice: «Scatenatevi contro Berlusconi quartiere per quartiere»; lo stesso Veltroni che fa affiggere manifesti per mettere alla gogna il capogruppo del Pdl al Senato Maurizio Gasparri, reo di lesa maestà nei confronti del nuovo idolo democratico Barack Obama. Questa repentina svolta nell'atteggiamento del segretario del Pd, per quanto sbalorditiva, non deve sorprende chiunque conosca la storia del comunismo italiano, caratterizzato da quell'atteggiamento di «doppiezza» che è sopravvissuto, negli ultimi 50 anni, a cambi di leadership, crollo dei muri, modifiche del nome. Doppiezza la cui versione aggiornata è il «ma anche» veltroniano, in cui tutto si può dire - una cosa e il suo contrario, la verità e la menzogna - purché ciò torni utile, in un determinato momento, alla presa del potere.

              Ed è proprio per mantenere il potere che ancora possiede a livello locale che il Partito Democratico, in vista della prossime elezioni amministrative, ha scelto oggi la vecchia strada della guerra civile latente e dell'opposizione extraparlamentare al governo Berlusconi, facendo appello agli istinti animali dell'elettorato di sinistra, quello di cui si è fatto qualche giorno fa portavoce lo scrittore Andrea Camilleri, il quale, parlando agli studenti del liceo Mamiani di Roma, ha dichiarato: «La Gelmini di sicuro non è un essere umano». Presentare i ministri berlusconiani come sub-umani è l'unico modo per risvegliare quello spirito resistenziale che è l'ultimo appiglio dei post-comunisti, in assenza di un progetto politico e partitico degno di tal nome, per conquistare qualche consenso in più e non scomparire dalla scena politica nazionale. Ma è anche una pericolosa chiamata alle armi, una caccia alle streghe che, provenendo dalla stessa parte politica al cui interno è cresciuta la mala pianta del brigatismo e della «lotta continua», non lascia presagire nulla di buono. Evidentemente, per la sinistra italiana non vale la lezione ciceroniana dell'«historia magistra vitae».

              Gianteo Bordero

              domenica 9 novembre 2008

              giovedì 6 novembre 2008

              RITORNA L'UNIONE

              da Ragionpolitica.it del 6 novembre 2008

              Proprio nei giorni in cui si celebra la ricorrenza dei defunti e si fa visita ai cimiteri risorge dall'oblio e dalle sue stesse ceneri una creatura politica con la quale credevamo di non dover più fare i conti: l'Unione. Ricordate? Accusata da più parti, in primis dal segretario del Partito Democratico Walter Veltroni, di essere l'origine e la causa di tutti i mali della sinistra italiana, dipinta come un mostro a cento teste obbedienti alla sola regola aurea del «tot capita, tot sententiae», archiviata come uno dei peggiori esperimenti politici della storia repubblicana, oggi l'Unione torna a calcare le scene e a far parlare di sé. Succede in Abruzzo, dove per le elezioni regionali di fine mese si è creata, attorno al candidato dell'Italia dei Valori, Carlo Costantini, una coalizione che comprende anche il Partito Democratico, Rifondazione Comunista, i Verdi, la Sinistra Democratica, i Comunisti Italiani, il Partito Socialista. Tutti insieme appassionatamente come ai vecchi tempi. Non importa se l'Unione, nei due anni al governo, era colata a picco nei consensi; non importa se la scelta di Veltroni di correre insieme soltanto a Di Pietro era stata salutata dagli altri partiti con un memorabile lancio degli stracci in direzione dell'ex sindaco di Roma; non importa se, a causa di tale scelta, la Sinistra Arcobaleno e i Socialisti erano finiti, per la prima volta, fuori dalle aule parlamentari. «Quel ch'è stato è stato, scurdammoce o passato». La parola d'ordine oggi è ricucire, riavvicinarsi, tornare a parlarsi.

              Non è detto che quello che succede in Abruzzo sia destinato per ciò stesso a riprodursi nelle identiche modalità anche a livello nazionale in vista delle elezioni amministrative della prossima primavera, ma vi sono alcuni fatti che debbono far riflettere. Il Riformista di ieri dava notizia dell'imminente scissione in Rifondazione Comunista, dove a fare le valigie saranno Nichi Vendola e la sua corrente, sconfitti al congresso di fine luglio da Paolo Ferrero. Vendola vuol dire Bertinotti, vuol dire l'ala dialogante del Prc, vuol dire il progetto di costituente della sinistra assieme alla Sinistra Democratica di Claudio Fava, di cui già ci è capitato di parlare qualche mese fa
              da queste pagine. Secondo il quotidiano diretto da Polito, Vendola e Fava daranno vita, il prossimo 13 dicembre, a «La Sinistra», il nuovo soggetto che probabilmente avrà come protagonisti, oltre ai vendoliani e a Sd, anche la sparuta minoranza interna ai Comunisti Italiani, capitanata dall'ex ministro Katia Bellillo, e i Verdi. Tra le priorità strategiche de «La Sinistra» la ripresa di un più stretto rapporto con il Partito Democratico, senza escludere il ritorno all'alleanza elettorale. Un progetto, questo, ben visto soprattutto da Massimo D'Alema, che ai tempi della fase pre-congressuale di Rifondazione non fece mancare l'appoggio suo e dei suoi uomini di fiducia al governatore della Puglia. Baffino, da sempre critico della «vocazione maggioritaria» in salsa veltroniana, da tempo lavora per la ricostituzione di una coalizione ampia, che non «impicchi» il Pd a Di Pietro e alla sua politica.

              Un altro dato su cui riflettere è la riabilitazione in grande stile che Veltroni sta facendo di Romano Prodi, culminata nei pubblici elogi riservati all'ex presidente del Consiglio nel discorso del Circo Massimo. Ora, stante il ritiro dalle italiche scene del Professore, è chiaro che il segretario del Pd, tessendo le lodi del fondatore dell'Unione, punta in ultima analisi a riabilitare soprattutto la formula politica che consentì alla sinistra di conquistare Palazzo Chigi nel 2006. Se Veltroni creda fino in fondo in questa prospettiva oppure se la sposi suo malgrado sotto la pressione degli eventi (l'avvicinarsi di importanti scadenze elettorali) e degli altri maggiorenti del Partito Democratico (D'Alema in primis) non è dato saperlo. Resta il fatto della sostanziale riapertura dei giochi all'interno della sinistra. Per ora, ancora una volta, nel nome del passato e del solito antiberlusconismo - tant'è vero che, tra i protagonisti dell'Unione che è stata e di quella che nuovamente sarà, solo uno è rimasto al suo posto e ora mena le danze, in Abruzzo e non solo: Antonio Di Pietro, il capo assoluto degli anti-Cavaliere. La politica e le idee, forse, verranno dopo. Primum vivere.

              Gianteo Bordero

              mercoledì 5 novembre 2008

              LE BUGIE DEL PARTITO DEMOCRATICO SULLA SCUOLA

              Sintesi dell'intervento tenuto durante il Consiglio Comunale di Sestri Levante del 4 novembre 2008

              La mozione presentata dal Partito Democratico di Sestri Levante sulla scuola mi ha fatto tornare in mente l’espressione «lingua di legno», con la quale, in Francia, veniva indicata l’usanza dei comunisti di ripetere una menzogna tante volte da convincere i non comunisti che il linguaggio fosse diventato realtà. Anche oggi ascoltiamo, da parte dei rappresentanti del Pd, in merito alla legge sulla scuola varata dal governo, un mare di menzogne che vengono ripetute mille e mille altre volte ancora, credendo con ciò che esse divengano verità. Vediamone alcune.

              Il Partito Democratico dice che la scuola subirà un taglio di 8 miliardi di euro. Falso, perché il taglio per il prossimo anno sarà inferiore a 0,5 miliardi (cioè l’1% del budget) e i tagli netti previsti per il triennio 2009-2011 saranno pari a 3,6 miliardi spalmati su tre anni. Il Partito Democratico dice che con l’introduzione del maestro prevalente la scuola elementare perderà in qualità. Falso, perché l’Italia si trovava al 3° posto nelle classifiche mondiali di valutazione delle elementari finché ha avuto un solo maestro e oggi è scesa molto più in basso, con preoccupanti picchi negativi per quanto riguarda la conoscenza di materie quali la matematica e le scienze. E’ ora di risalire la china.

              Il Partito Democratico dice che dalle scuole elementari scomparirà il tempo pieno. Falso, perché l’introduzione del maestro prevalente, con conseguente soppressione delle ore di compresenza, libererà un numero di ore più che sufficiente ad aumentare le ore di tempo pieno. Il Partito Democratico dice che saranno licenziati 87.000 insegnanti. Falso, perché la riduzione avverrà limitando le nuove assunzioni, la cifra di 87.000 si raggiungerà nel 2012 e include nel calcolo le riduzioni già pianificate dal governo Prodi. Il Partito Democratico dice che vi saranno 30 alunni per classe. Falso, perché gli alunni saranno in media 18 per classe e potranno, al massimo, arrivare a 26. Il Partito Democratico dice che verrà ridotto il numero degli insegnanti di sostegno per i disabili. Falso, perché il numero degli insegnanti di sostegno rimarrà tale e quale quello attuale.

              Deve far riflettere l’accanimento del Pd nel mettere in circolo assolute falsità, che non trovano riscontro alcuno nella realtà e nei testi legislativi. Il motivo di tale accanimento è che la sinistra, che negli ultimi decenni ha trasformato la scuola in uno dei tanti ammortizzatori sociali attraverso i quali «creare» nuovi posti di lavoro e nuove clientele, teme di perdere una delle sue roccaforti di potere e di consenso. Così, in maniera irresponsabile, da un lato usa i bambini come «carne da cannone» per una protesta che serve soltanto a garantire i privilegi dei grandi e non il diritto dei piccoli a un’istruzione di qualità, dall’altro alimenta la paura delle famiglie facendo credere che gli istituti verranno chiusi, che scomparirà il tempo pieno, che non verranno più insegnate importanti materie. Se il Partito Democratico avesse veramente a cuore un’istruzione di qualità non griderebbe allo scandalo per semplici misure di buon senso. Ma poiché ad esso interessa solamente il tornaconto di partito, è chiaro che tutto fa brodo per la propaganda e per la protesta.

              Gianteo Bordero
              Vice-presidente del Consiglio Comunale di Sestri Levante
              Consigliere Comunale del gruppo “Pdl-Lega-Udc-Per Ianni sindaco”

              PERCHE' OCCORRE RIVEDERE IL PIANO URBANISTICO COMUNALE

              Intervento tenuto durante il Consiglio Comunale di Sestri Levante del 4 novembre 2008

              La revisione del Piano Urbanistico Comunale rappresenta un’occasione importante per tentare di porre qualche rimedio alle sciagurate scelte dell’Amministrazione Chella, che nel breve giro di pochi anni ha letteralmente rivoltato come un calzino la città, modificandone la struttura urbanistica e, con essa, la composizione sociale.

              E’ stata messa in secondo piano e abbandonata come scelta strategica preferenziale l’industria, un tempo fiore all’occhiello del nostro Comune e in questi ultimi anni fortemente ridimensionata, quando non svenduta, a causa non soltanto del mutato quadro economico globale, ma anche dell’improvvisa conversione della classe dirigente postcomunista dall’operaismo a un non meglio specificato “modello misto” turismo-industria, del quale molto si parla ma poco – o nulla – si può toccare con mano. Fino a pochi anni fa il cuore di Sestri Levante era la fabbrica. Oggi è la seconda casa. La città – abbiamo detto nel corso dell’ultima campagna elettorale – si è trasformata in un’unica, grande seconda casa.

              Una situazione aggravata dal fatto che, in questi ultimi anni, quanto più cresceva il cemento per costruire le nuove abitazioni, tanto più diminuivano gli abitanti. Si è innescato un circolo vizioso per cui più si puntava sulla cementificazione, più i prezzi delle abitazioni salivano, meno i sestrini potevano accedere all’acquisto della prima casa. Abbiamo chiamato questo circolo vizioso, questo fenomeno al quale abbiamo assistito negli ultimi due lustri, con il nome di “desestrizzazione”. Perché di ciò si tratta: i giovani trovano in città sempre meno opportunità di lavoro e meno possibilità di acquistare a prezzi per loro accessibili la prima casa. Così vanno altrove: Sestri Levante non è più, per loro, una città amica. Sono di fatto costretti a emigrare in altri Comuni per poter metter su, come si diceva un tempo, casa e famiglia.

              La sconfitta politica della sinistra postcomunista a Sestri è tutta in questo trend infernale, in cui la città si spopola di persone mentre si popola di seconde case – e non basta, sindaco Lavarello, affermare che le ultime rilevazioni statistiche mostrano una lieve inversione di tendenza. I numeri parlano chiaro: negli ultimi dieci anni il calo della popolazione nel nostro Comune si misura, purtroppo, in migliaia. E negli ultimi dieci anni la città non è certo stata amministrata dal centrodestra!

              I difetti - per usare un eufemismo – dell’attuale Piano Urbanistico Comunale, quei difetti che noi già da tempo denunciavamo, ultimamente sono stati riconosciuti anche da qualche esponente della maggioranza e dal sindaco, il quale, nel corso dell’ultima campagna elettorale, ha ammesso, durante diversi incontri pubblici, che vi sono delle “criticità”. Meglio tardi che mai, sindaco Lavarello! Oggi, con la revisione del Puc, lei ha la possibilità di dimostrare a questo Consiglio e, ciò che più conta, alla città, che gli annunci fatti in campagna elettorale non erano dovuti soltanto ad un calcolo politico di breve respiro, ma erano davvero sue profonde convinzioni, nate dall’aver compreso che ciò che l’opposizione ha per tanti anni sostenuto riguardo al Puc non era una mistificazione della realtà, ma era la descrizione della realtà.

              La revisione del Piano Urbanistico Comunale può dunque essere l’occasione nella quale lei, signor Sindaco, può rendere finalmente concreta nei fatti, e non soltanto a parole, la discontinuità dal suo predecessore, dottor Mario Chella, di cui lei ha più volte parlato nel corso della campagna elettorale.

              Gianteo Bordero
              Vice-presidente del Consiglio Comunale di Sestri Levante
              Consigliere Comunale del gruppo “Pdl-Lega-Udc-Per Ianni sindaco”

              RICHIESTA DI DIMISSIONI DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO COMUNALE DI SESTRI LEVANTE

              Intervento tenuto durante il Consiglio Comunale di Sestri Levante del 4 novembre 2008
                Chiedo la parola come vice-Presidente del Consiglio Comunale perché mi corre l’obbligo di dichiarare pubblicamente, apertis verbis, il mancato rispetto delle regole per il funzionamento del Consiglio Comunale da parte di quella figura che dovrebbe per prima dare esempio cristallino di correttezza istituzionale. Mi riferisco a Lei, signora presidente del Consiglio, che questa sera, durante la riunione dell’Ufficio di Presidenza, ha usato come criterio di decisione sull’urgenza delle mozioni non il Regolamento, bensì la sua personale appartenenza politica e partitica.

                Eppure Lei stessa, durante il suo intervento tenuto in Consiglio subito dopo l’elezione a Presidente, ricordava opportunamente che (cito testualmente): “Il Presidente rappresenta l’intero Consiglio Comunale; garantisce le prerogative del Consiglio Comunale e i diritti di ciascun Consigliere, è garante del regolamento”. E proseguiva: “Dedicherò energia per adempiere a questo delicato ruolo istituzionale, quello di garante di tutti i Consiglieri Comunali, di minoranza e di maggioranza: lo farò nell’esercizio delle mie funzioni, con equilibrio e umana imparzialità”.

                Dispiace constatare che alle parole non sono seguiti i fatti. Il perché è presto detto. Basta andare a leggere l’articolo 19 del Regolamento per lo svolgimento del Consiglio Comunale, il quale afferma che le mozioni urgenti “si differenziano da quelle ordinarie per il loro oggetto, caratterizzato da problemi o fatti di notevole urgenza e gravità o comunque fatti su cui la discussione non possa essere differita ad altra seduta”.

                Ora, Presidente, Lei solo sa – e dovrebbe per ciò darne spiegazione al Consiglio – dove risieda l’urgenza della mozione presentata dal Partito Democratico, la quale, oltre a contenere dati del tutto erronei e non supportati da alcun documento ufficiale che ne provi l’attendibilità, fa riferimento a decreti legge del Governo che sono già stati convertiti in legge dal Parlamento. Avrei compreso se tale mozione fosse stata presentata come urgente nel momento in cui i decreti governativi non erano ancora divenuti legge dello Stato: allora sì che avrebbe avuto - di là dalle valutazioni di merito – quei requisiti oggettivi di urgenza che oggi, invece, essa non possiede in alcun modo.

                Capisco, Presidente, che in certi casi è difficile dire di “no” al partito al quale si appartiene e che ha eletto Lei alla carica che oggi riveste. E’ difficile dire “no” soprattutto quando è in corso una campagna politica nazionale del suddetto partito sul tema oggetto della mozione. Eppure, Presidente, Lei sa che esercitare il ruolo che Lei oggi esercita comporta degli oneri, tra i quali, come Lei stessa ha ricordato nel già citato primo suo discorso al Consiglio, l’imparzialità. “Un termine – disse allora - che comprende nel suo significato anche rigore e rispetto delle regole”. Un rigore e un rispetto delle regole che questa sera, come detto, non vi sono stati.

                Tanto più che – giova ricordarlo – questa seduta di Consiglio Comunale è stata convocata il 29 ottobre scorso in primo luogo per iniziativa, come si può leggere nel documento di convocazione, di “almeno 4 consiglieri” e, in secondo luogo, per iniziativa del sindaco. Ora, l’articolo 1 del Regolamento per lo svolgimento del Consiglio Comunale prevede che, nel caso di convocazione per iniziativa di almeno 4 Consiglieri, “il Presidente è obbligato a riunire il Consiglio in un termine non superiore a 15 giorni decorrenti dalla data di ricezione della richiesta risultante al Protocollo generale, inserendo all’Ordine del Giorno le questioni richieste, secondo l’ordine di priorità indicato dai richiedenti”.

                Concedendo l’urgenza a una mozione presentata dal maggior gruppo di maggioranza, invece, si stravolge l’Ordine del Giorno formatosi a seguito della richiesta di convocazione avanzata da due gruppi della minoranza, con il rischio di vedere vanificato quanto previsto dal citato articolo 1 del Regolamento. Ciò avrebbe dovuto rappresentare un motivo in più, oltre a quelli già citati, per valutare con più rigore la domanda di urgenza per la mozione presentata dal Partito Democratico. Perché Lei, Presidente, è il garante del Regolamento, e in tale prospettiva dovrebbe mettere in secondo piano la sua personale appartenenza ad uno degli schieramenti presenti in Consiglio ed adottare quel profilo super partes che ci si aspetterebbe da una figura come quella che Lei impersona.

                Le soluzioni alternative all’urgenza c’erano: avrebbe potuto suggerire al Partito Democratico di chiedere una apposita convocazione, che, come ricordato, deve avvenire entro 15 giorni dalla presentazione della domanda al Protocollo Generale. Invece niente. Lei ha concesso l’urgenza a una mozione che di urgente non ha nulla, se non la volontà del gruppo del Partito Democratico di cavalcare la protesta sul tema della scuola.

                Se Lei, come Presidente, non riesce a dare valutazioni che mettano tra parentesi l’appartenenza partitica e a garantire tutti i gruppi presenti in Consiglio Comunale; se non riesce a dire “no” ad un sopruso che viene compiuto nei confronti della minoranza, la quale vede una sua richiesta scavalcata dai capricci politici della maggioranza; se non riesce a mettere in pratica quello che Lei stessa affermò in questa sede al momento della sua elezione; se la passione partitica riduce a brandelli la veste istituzionale, allora sarebbe meglio che Lei tornasse a sedere anche formalmente – oltre che sostanzialmente – tra i banchi della maggioranza, rimettendo nelle mani del Consiglio il suo mandato.
                  Gianteo Bordero
                    Vice-presidente del Consiglio comunale di Sestri Levante
                    Consigliere comunale del gruppo "Pdl-Lega-Udc-Per Ianni sindaco"

                    venerdì 31 ottobre 2008

                    IL VIZIETTO RIVOLUZIONARIO DEI POST-COMUNISTI

                    da Ragionpolitica.it del 31 ottobre 2008

                    Come il lupo perde il pelo ma non il vizio, così la sinistra postcomunista italiana perde consensi ma non il suo istinto primordiale: la rivoluzione contro lo Stato e contro l'ordine costituito. Nonostante tutti gli sforzi di cambiare faccia, di darsi un volto «riformista» presentabile di fronte all'elettorato moderato, la sinistra, appena sente il proverbiale richiamo della foresta che proviene dalle piazze in subbuglio e annusa l'odore acre della rivolta, non riesce a resistere e mette in mostra la sua vera natura, la sua vera identità. Lo abbiamo visto dopo i giorni drammatici del G8 2001, quando gli eredi del Pci si schierarono, di fatto, non dalla parte dello Stato e del carabiniere Mario Placanica, ma dalla parte dei contestatori e dei devastatori. E lo vediamo nuovamente oggi, in occasione degli scontri tra studenti a Piazza Navona.

                    Da qui il giornale-portavoce della sinistra, La Repubblica, con il suo inviato Curzio Maltese, trasmette su internet una cronaca che qui riportiamo nei suoi passaggi principali: «Ho visto un gruppo non di studenti, di neonazisti, arrivare con un camion pieno di spranghe e di armi. Dopo aver picchiato per strada un paio di ragazzi, sono arrivati qua totalmente non voglio dire scortati, ma ignorati dalla Polizia e hanno incominciato a provocare, ad attaccare e a picchiare degli studenti che erano qui, al grido "Duce, duce". Un gruppo di studenti di Roma 3 e di insegnanti di liceo è andato a protestare col funzionario di Polizia addetto alla sicurezza e questo gli ha detto: "Ma quelli sono di sinistra", poi subito dopo ha smentito, secondo l'usanza, di averlo detto... Mi sembra una cosa molto sospetta, molto negativa... Gli incidenti non vengono dalla manifestazione studentesca: sono stati provocati ad arte, temo... La Polizia ha sistematicamente usato le manganellate con gli studenti senza armi e ignorato gli altri. La scena mi ha ricordato per certi versi i momenti peggiori del G8. Spero non sia una strategia su larga scala».

                    Eccolo qua, bell'è pronto, il nuovo teorema da cavalcare e propagandare in ogni angolo della Penisola: per gettare fango sul movimento studentesco e per delegittimare la pacifica protesta dei giovani lo Stato manda un gruppo di neo-nazi a picchiare i contestatori sotto l'occhio vigile (e complice) della Polizia. A differenza del G8, qui il lavoro sporco viene dato in appalto a quelli di estrema destra e gli uomini in divisa non si sporcano le mani, ma la sostanza è la stessa: è lo Stato autoritario che reprime con la violenza la rivoluzione, che spegne con l'abuso della forza il raggiante «sol dell'avvenire», che invece di ascoltare le ragioni dei manifestanti usa il manganello per tacitare la contestazione. In sostanza: è ancora una volta il ritorno dello Stato fascista, quello che, giorno dopo giorno, toglie spazio alla democrazia e alla libertà per instaurare un regime oppressivo all'interno del quale non è più possibile pensarla in modo diverso e dissentire dal nuovo, ennesimo Duce.

                    E' da un po' di settimane che il ritornello, dalle parti del Pd, è questo: c'è il rischio di una deriva «putiniana», di uno scivolamento autoritario, di un prosciugamento delle regole democratiche. Lo ha detto anche il segretario Walter Veltroni in più occasioni, da ultimo durante il suo discorso al termine della manifestazione al Circo Massimo, lo scorso sabato, quando ha affermato, rivolgendosi idealmente a Silvio Berlusconi: «L'Italia, signor presidente del Consiglio, è un paese antifascista. A chi le chiedeva se anche lei potesse definirsi così, "antifascista", lei ha risposto con fastidio che non ha tempo da perdere, che ha cose più importanti di cui occuparsi, rispetto all'antifascismo e alla Resistenza». E oggi lo stesso Veltroni, di fronte ai fatti di Piazza Navona, commenta: «I disordini sono stati solo l'aggressione di una parte politica sull'altra». Ovviamente: della destra sulla sinistra.

                    Così si chiude il cerchio e, in assenza di altri argomenti sui quali costruire un'opposizione che assomigli almeno lontanamente alla sinistra riformista europea, si può continuare a lanciare l'SOS antifascista, credendo con ciò di riuscire a far perdere la bussola non soltanto alla maggioranza e al presidente del Consiglio, ma anche agli italiani che li hanno votati. E' un gioco che alla sinistra postcomunista riesce bene, quello di dissotterrare il suo spirito rivoluzionario e anti-Stato per abbattere nel nome della democrazia governi democraticamente eletti. Per questo occorre che il centrodestra sia vigile e fermo di fronte a chi non ha scrupoli nel soffiare sul fuoco della rivolta per trarne vantaggio politico, costi quel che costi.

                    Gianteo Bordero

                    martedì 28 ottobre 2008

                    PIAZZA SENZA POLITICA

                    da Ragionpolitica.it del 28 ottobre 2008

                    La piazza crea una militanza. Ma, anche quando essa è piena, non crea per ciò stesso una politica. E' una regola, questa, confermata in pieno dalla manifestazione del Pd al Circo Massimo. Certo, la piazza riscalda, dà il senso della comune appartenenza, gratta via la ruggine da un impegno partitico spesso burocratizzato e ripetitivo. Eppure, tutto ciò non basta a trasformare la piazza in luogo di creazione della politica. Perché se mancano da un lato l'idea-guida e dall'altro l'indicazione di una direzione verso cui marciare, allora l'ardore, l'entusiasmo, la voglia di partecipazione che la piazza esprime rischiano di tramutarsi nello specchio di un'impotenza politica altrettanto forte quanto le passioni che fanno battere all'unisono i cuori di coloro che manifestano.

                    La piazza, quando è colorata e pacifica, è bella. Ma se chi la guida non è in grado di plasmare dalla massa un corpo politico, allora è soltanto una bellezza frustrata, anticamera della delusione e della disillusione. Per compiere quest'opera plasmatrice ci vorrebbe un modello di riferimento, un'immagine così potente da trasformare l'idea in realtà, una forza creativa capace di dare forma compiuta a una «materia» che altro non chiede se non diventare qualcosa di definito. Invece all'ordine del giorno non c'è la navigazione in mare aperto, il grande slancio verso un obiettivo compiutamente politico, ma le solite, piccole beghe attorno alle quali si arrovella una nomenklatura attenta più alla conservazione dell'esistente, di un equilibrio instabile sempre pronto a dissolversi alla prima folata di vento, che al coraggioso viaggio verso il futuro.

                    E allora eccolo, il piccolo timoniere del Circo Massimo, ripetere parole che altro non indicano se non il disperato tentativo di rimanere aggrappato per l'oggi a una poltrona che traballa dopo mesi di sconfitte, quotidiani ripensamenti, piroette da far venire il capogiro, svolte annunciate ma mai realizzate. Come può, ad esempio, scaldare i cuoi e dare una motivazione politica degna di tal nome il ripetere come un mantra il vocabolo «riformista», come se esso avesse la stessa potenza evocativa delle parole storiche della sinistra italiana - «proletariato», «lotta di classe», «diversità morale»? E' come pensare di dissetare un popolo intero con una bottiglietta da mezzo litro d'acqua. O di attraversare l'Oceano con una zattera di fortuna: imprese che possono riuscire soltanto se si possiedono doti magiche (nel primo caso) o una capacità di navigazione quasi sovrumana (nel secondo). Non è il caso di Veltroni. Il quale non può fare altro, oggi, che scegliere il piccolo cabotaggio, non potendosi allontanare troppo dalla riva a causa dei venti e dei marosi che lo travolgerebbero in mare aperto, là dove lo attendono al varco i suoi avversari.

                    Da qui il paradosso di una piazza piena di gente ma vuota di politica, di una prova di forza che, quanto più può servire al leader per ancorarsi alla sua posizione, tanto meno può servire al partito per prendere il largo nell'avventura della politica vera, quella capace di indicare il grande obiettivo, la grande meta, il termine del grande cammino. Dopo tutto - dopo il bagno di folla, dopo lo sventolio di bandiere, dopo il comizio «obameggiante», dopo i leggii invisibili, dopo le ovazioni e gli applausi - quello che resta della manifestazione al Circo Massimo è l'afasia sulle questioni essenziali della politica, quelle che possono trasformare la piazza in popolo, la militanza in milizia, un partito liquido in un partito in carne ed ossa. Quello che ancora manca al Pd non sono tanto i numeri, quanto quelle che Gaber chiamava, nella sua canzone Qualcuno era comunista, «le ali per volare». Le ali che Veltroni non ha saputo costruire per coloro che sabato sono accorsi ad ascoltarlo.

                    Gianteo Bordero

                    venerdì 24 ottobre 2008

                    PROTESTA IN NOME DEL NULLA

                    da Ragionpolitica.it del 23 ottobre 2008

                    Faceva impressione, domenica, vedere al Tg4 delle 13.30 le interviste agli studenti delle superiori che protestano contro la riforma Gelmini: quasi nessuno, tra loro, ne conosce il contenuto, neppure per sommi capi. Ripetono slogan come automi. Qualcuno, addirittura, pensa che il maestro unico non sia quello delle elementari, ma un fantomatico «professore unico» di licei e istituti tecnici. L'ignoranza al potere, dunque. A cui si somma una totale assenza di giudizio critico su ciò che accade. Ma non sarebbe compito proprio della scuola quello di combattere tale ignoranza e di far sviluppare la suddetta capacità di giudizio? Se c'è una ragione per sostenere le iniziative del ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, essa è insita proprio in questa insanabile contraddizione di fondo che viene a galla in questi giorni di proteste, scioperi, manifestazioni e cortei: si grida allo smantellamento della scuola proprio mentre si fornisce la prova provata del fatto che tale smantellamento è già avvenuto. Non a livello di strutture, numeri e burocrazia. Ma al livello dell'anima della scuola, che da lunga pezza ha abdicato alla sua missione principale: quella educativa.

                    La scuola è cioè diventata, da un lato, un parcheggio dove depositare ragazzi che arrivano a 8 anni già sazi di tutto e assetati di niente, senza quella sana curiosità che è alla base di ogni grande esperienza conoscitiva, relazionale e formativa. Dall'altro lato, è stata trasformata dalla politica, in special modo da quella statalista e assistenzialista, in uno dei tanti ammortizzatori sociali attraverso i quali «creare» nuovi posti di lavoro e nuove sacche di consenso, con somma gioia pure dei sindacati. L'insegnante, così, non è stato più pensato come un grande compagno d'avventura che spalanca gli orizzonti dell'alunno sul mare immenso della realtà, ma come un freddo burocrate incaricato di gestire una delle tante macchine statali. Senza più passione. Senza più cuore. Senza più dedizione umana.

                    Coloro che protestano oggi, dunque, lo fanno contro una scuola che ancora non c'è (quella della Gelmini) e per difendere una scuola che c'è - ma che non è più tale. E' l'esatto contrario di quello che accadeva nel Sessantotto, dove la ribellione era a favore di una scuola diversa e per abbattere quella esistente. Delle due cose, solo una è riuscita: è stato distrutto il buono che c'era e non è stato creato nulla che possa neanche lontanamente essere definito come «scuola». E' questo nulla che i contestatori di oggi, seppur inconsapevolmente, difendono. Per il resto, il paragone col Sessantotto è più uno svago intellettuale che un fatto reale: la Valla Giulia cantata da Venditti come simbolo di quei giorni e di quelle passioni non è più quella dove «ancora brilla la luna», quella delle «albe cinesi di seta indiana», ma solo uno dei tanti piccoli teatri dove va in scena una commedia già vista, già scritta, già giudicata.

                    E la colpa più grossa non è neppure imputabile agli studenti, che possono trovare una giustificazione nella giovane età, ma agli adulti, sia nelle vesti di genitori che in quelle di insegnanti: i primi, molte volte, hanno finito con lo scaricare sulla scuola compiti e responsabilità che erano innanzitutto di loro spettanza, i secondi hanno spesso usato il loro spazio come luogo non più di formazione, ma di pura conservazione di un sistema sindacalizzato e politicizzato, che poco o punto aveva a che fare con l'insegnamento e la trasmissione del sapere. Tutto ciò ha creato un corto circuito educativo che ha fatto saltare per aria i concetti di responsabilità, di rispetto, di merito - i cardini su cui da sempre si regge, oltre che la scuola, la stessa società umana. Il risultato non poteva che essere lo sfascio. Che ben si riassume, oggi, nelle immagini dei bambini usati da genitori e insegnanti come carne da propaganda contro il ministro e in quelle dei ragazzi delle superiori che protestano assieme ai professori contro ciò che neppure conoscono. Altro che '68! A Valle Giulia la luna è tramontata.

                    Gianteo Bordero