giovedì 20 novembre 2008

PERCHÉ IL PD NON MOLLA DI PIETRO

da Ragionpolitica.it del 20 novembre 2008

Dopo le ultime vicende riguardanti l'elezione del presidente della Commissione di Vigilanza Rai, che hanno reso evidente come il Partito Democratico si sia cacciato in vicolo cieco sposando in toto la linea dura dipietrista, sorge spontaneo chiedersi perché Walter Veltroni non rompa definitivamente con l'Italia dei Valori e riprenda il discorso politico incominciato con il discorso del Lingotto e interrotto poche settimane dopo l'insediamento a Palazzo Chigi del quarto governo Berlusconi. La prima risposta, legata alle contingenze del momento, è che il Pd ha bisogno dell'Idv per affrontare le scadenze elettorali che lo attendono, sia quelle a breve termine (le regionali in Abruzzo di fine novembre) che quelle della prossima primavera (soprattutto le amministrative, che vedranno andare al voto moltissimi Comuni italiani). Con un Popolo della Libertà e una Lega Nord in buona salute è giocoforza, per i Democratici, cercare di presentarsi al giudizio degli elettori aggregando più forze possibili, anche perché sono in bilico amministrazioni tradizionalmente rosse la cui perdita rappresenterebbe un ulteriore smacco, per la sinistra, dopo quello subito il 13 e 14 aprile scorsi.

Ma, oltre a ciò, vi è anche un motivo sostanziale che impedisce al leader del Pd di addivenire ad una rottura netta con l'ex pm di Mani Pulite. Il fatto è che buona parte dell'elettorato e della militanza ex Ds ed ex Dl non ha mai accettato fino in fondo i contenuti della svolta del Lingotto, ossia la virata in direzione di un riformismo responsabile e maturo, ed è rimasta saldamente ancorata all'antiberlusconismo viscerale ed ideologico, lo stesso sul quale fa leva Di Pietro per raccogliere consenso, accusando il Cavaliere di ogni male e di ogni misfatto possibile, come ha fatto martedì, quando, in conferenza stampa, ha affermato che il presidente del Consiglio è un «corruttore politico». Il problema di una presa di distanza finalmente definitiva del Pd dall'Italia dei Valori non si porrebbe se gli elettori e i militanti del partito di Veltroni avessero i medesimi sentimenti e le medesime convinzioni politiche del loro capo. Ma così non è, come dimostra un sondaggio di qualche settimana fa, dal quale emergeva che la maggior parte di coloro che votano democratico vede di buon occhio più l'alleanza con Antonio Di Pietro che non quella, prospettata da alcuni dirigenti del Pd, con l'Udc di Pier Ferdinando Casini. Stando così le cose, è chiaro che una cesura alla radice del rapporto con l'Idv comporterebbe, con buona probabilità, anche un'ulteriore emorragia di consensi per il Partito Democratico, che già viaggia abbondantemente sotto le aspettative iniziali, sotto la fatidica soglia del 35% considerata il «minimo sindacale» per la nuova creatura di centrosinistra.

Qui non è in ballo soltanto la leadership di Veltroni, perché proprio sullo scoglio del passaggio a un partito modernamente riformista già si era arenata la nave postcomunista ai tempi della segreteria di Massimo D'Alema, costretto ad abbandonare il suo progetto di fronte alla mancanza del necessario consenso di base (e, in parte, anche di dirigenza). Il passare degli anni, evidentemente, non ha mutato nella sostanza quello che era il pregiudizio anti Cavaliere dell'elettorato che oggi vota Partito Democratico, fieramente e fermamente convinto della necessità di mantenere il vincolo dell'antiberlusconismo come condizione primaria per elaborare sia una linea politica che un quadro di alleanze. Se il Pd veltroniano era nato con lo scopo di superare l'Unione prodiana, oggi possiamo affermare che è ancora alla vasta coalizione messa in piedi dal Professore che guardano i simpatizzanti e i militanti del nuovo partito. La «vocazione maggioritaria» annunciata dall'ex sindaco di Roma esiste come slogan (oggi neanche più quello) ma non come realtà di popolo e come via politicamente perseguibile.

Ne consegue che il Pd è ostaggio di Di Pietro non soltanto per una scelta dei suoi dirigenti - tattica o strategica che sia - ma anche per una sorta di ineluttabile destino che lega il suo elettorato a un passato più o meno recente e gli impedisce di far evolvere il partito verso l'agognato approdo del riformismo europeo. Faceva persino tenerezza, qualche sera fa, sentire Piero Fassino in una trasmissione televisiva esaltare la dignità e la grandezza della Politica con la P maiuscola e difenderla dagli attacchi ferocemente antipolitici e anti Casta della conduttrice, quando poi chi vota per il partito che Fassino rappresenta ha gli stessi sentimenti «grillini» e «girotondini» di Di Pietro. E' quasi una maledizione quella che si prende gioco dei postcomunisti: tutte le volte che i vertici vogliono mettersi sulla via politica tracciata da Craxi la base li obbliga a percorrere la strada dei suoi aguzzini. La testa va da una parte, le membra nella direzione opposta. E' una schizofrenia che pesa come un macigno sul futuro politico del Pd.


Gianteo Bordero

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