sabato 15 novembre 2008

ELUANA E IL CHIODO FISSO DEI NICHILISTI

da Ragionpolitica.it del 15 novembre 2008

«E voi materialisti, col vostro chiodo fisso che Dio è morto è l'uomo è solo in questo abisso», cantava Francesco Guccini qualche anno fa in uno dei suoi brani più belli, Cirano. Oggi, dopo la terribile sentenza della Corte di Cassazione che ha legittimato la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione per Eluana Englaro, dovremmo aggiornare la strofa del cantautore di Pavana togliendo di mezzo i «materialisti» e scrivendo la parolina magica: «nichilisti». Il materialismo, infatti, alla materia qualche dignità la riconosceva. Il nichilismo neppure quello: se avesse rispetto della materia non condannerebbe una giovane donna a morire di fame e di sete, tra sofferenze prolungate e indescrivibili; accetterebbe il fatto che vi possa essere una vita che è definibile come tale anche se menomata; non tratterebbe il corpo di Eluana alla stregua di un qualcosa di cui liberarsi al più presto.

Il nichilismo, come uno schiacciasassi, passa sopra a tutto. Che sia «gaio» o che sia «tragico», sempre conduce nella stessa direzione: il burrone dell'insignificanza, il deserto del non senso. Perché, se si ammettesse anche soltanto lontanamente la possibilità di un significato dell'esistere, il corpo di Eluana sarebbe guardato sotto una nuova luce, la sua vicenda sarebbe letta con altre lenti, la sua presenza tra noi spalancherebbe le porte dell'uomo interiore al mistero che sempre la vita è. Sempre. Nella gioia e nel dolore, nel sorriso e nel pianto, nella salute e nella malattia, la vita rimane degna di essere vissuta. Non lo dice soltanto la Chiesa cattolica, checché ne pensi il professor Veronesi, il quale, su Repubblica, afferma che chi si oppone all'interruzione dell'alimentazione per Eluana lo fa basandosi «su posizioni di fede». Lo dice anche la ragione. Lo dice quel maestro della cultura laica occidentale, Immanuel Kant, quando riconosce che la vita deve essere considerata come un fine in sé, e quindi come un bene indisponibile all'arbitrio dell'uomo sull'altro uomo. Ma parlare di ragione ai nichilisti è come parlare di libertà ai dittatori...

Non scandalizzi il paragone, perché quando la ragione viene tolta di mezzo ciò che subentra porta sempre - sempre ha portato nel corso della storia - alla violenza e al sopruso. E la sentenza della Corte di Cassazione è, nella sostanza, priva di ragione, perché l'unica cosa di cui tiene conto è una presunta volontà di Eluana di non voler vivere in quello che viene chiamato «stato vegetativo»: tutto il resto, in primis il fatto che Eluana viva (anche se ancora una volta Umberto Veronesi, oncologo di fama nonché senatore del Partito Democratico, sostiene che «Eluana è morta 16 anni fa»), passa arbitrariamente in secondo piano. Compresa la circostanza che Eluana sia ancora, a tutti gli effetti, una persona, e non, come tanti in queste ore ripetono, un vegetale.

Quando la persona viene degradata, con un cinismo saccente e presuntuoso, a «vegetale», a che cosa ci troviamo di fronte? A un atto di civiltà? A un progresso sociale? Oppure ad una barbarie e ad un regresso che ci riportano al vero secolo buio della nostra storia, cioè il Novecento dei totalitarismi? E non è forse, a ben vedere, una sottile forma di totalitarismo anche il fatto che sia una magistratura che si crede onnisciente e onnipotente ad avere l'ultima parola sulla vita e sulla morte delle persone? E' «ragionevole» tutto ciò? No, non è ragionevole.

Ma nichilismo e ragione sono come il «ferro ligneo» di cui parlava Heidegger: una contraddizione in termini. Perché tutto ciò che la ragione suggerisce all'uomo, tutta l'apertura al significato di cui essa è capace, tutta la profondità delle domande che essa pone al cuore della persona, tutto ciò il nichilismo lo spazza via, col risultato inevitabile descritto da Guccini: l'uomo viene lasciato solo «in quest'abisso». E' l'anticamera della disperazione, la cancellazione della voglia di vivere, lo svuotamento del carico di attese e di speranze che ognuno porta con sé, nel profondo dell'io, laddove nessun Veronesi può arrivare a vedere col suo microscopio, laddove non può entrare la volontà di potenza dei magistrati, laddove l'unico e ultimo giudizio è quello di colui che l'uomo l'ha creato dal nulla, non di coloro che nel nulla vorrebbero ricacciarlo.

Al culmine della sua lunga malattia e della sua sofferenza, dal letto di dolore dal quale poteva osservare, attraverso i vetri della stanza, un albero di pioppo, scriveva il poeta Clemente Rebora: «Vibra nel vento con tutte le sue foglie/ il pioppo severo:/ spasima l'anima in tutte le sue doglie/ nell'ansia del pensiero:/ dal tronco in rami per fronde si esprime/ tutte al ciel tese con raccolte cime:/ fermo rimane il tronco del mistero,/ e il tronco si inabissa ov'è più vero». Strappare l'albero dell'esistenza dalle sue radici fa seccare ogni possibilità di significato e di amore per l'essere, per la realtà, per la vita.


Gianteo Bordero

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