da Ragionpolitica.it del 23 ottobre 2008
Faceva impressione, domenica, vedere al Tg4 delle 13.30 le interviste agli studenti delle superiori che protestano contro la riforma Gelmini: quasi nessuno, tra loro, ne conosce il contenuto, neppure per sommi capi. Ripetono slogan come automi. Qualcuno, addirittura, pensa che il maestro unico non sia quello delle elementari, ma un fantomatico «professore unico» di licei e istituti tecnici. L'ignoranza al potere, dunque. A cui si somma una totale assenza di giudizio critico su ciò che accade. Ma non sarebbe compito proprio della scuola quello di combattere tale ignoranza e di far sviluppare la suddetta capacità di giudizio? Se c'è una ragione per sostenere le iniziative del ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, essa è insita proprio in questa insanabile contraddizione di fondo che viene a galla in questi giorni di proteste, scioperi, manifestazioni e cortei: si grida allo smantellamento della scuola proprio mentre si fornisce la prova provata del fatto che tale smantellamento è già avvenuto. Non a livello di strutture, numeri e burocrazia. Ma al livello dell'anima della scuola, che da lunga pezza ha abdicato alla sua missione principale: quella educativa.
La scuola è cioè diventata, da un lato, un parcheggio dove depositare ragazzi che arrivano a 8 anni già sazi di tutto e assetati di niente, senza quella sana curiosità che è alla base di ogni grande esperienza conoscitiva, relazionale e formativa. Dall'altro lato, è stata trasformata dalla politica, in special modo da quella statalista e assistenzialista, in uno dei tanti ammortizzatori sociali attraverso i quali «creare» nuovi posti di lavoro e nuove sacche di consenso, con somma gioia pure dei sindacati. L'insegnante, così, non è stato più pensato come un grande compagno d'avventura che spalanca gli orizzonti dell'alunno sul mare immenso della realtà, ma come un freddo burocrate incaricato di gestire una delle tante macchine statali. Senza più passione. Senza più cuore. Senza più dedizione umana.
Coloro che protestano oggi, dunque, lo fanno contro una scuola che ancora non c'è (quella della Gelmini) e per difendere una scuola che c'è - ma che non è più tale. E' l'esatto contrario di quello che accadeva nel Sessantotto, dove la ribellione era a favore di una scuola diversa e per abbattere quella esistente. Delle due cose, solo una è riuscita: è stato distrutto il buono che c'era e non è stato creato nulla che possa neanche lontanamente essere definito come «scuola». E' questo nulla che i contestatori di oggi, seppur inconsapevolmente, difendono. Per il resto, il paragone col Sessantotto è più uno svago intellettuale che un fatto reale: la Valla Giulia cantata da Venditti come simbolo di quei giorni e di quelle passioni non è più quella dove «ancora brilla la luna», quella delle «albe cinesi di seta indiana», ma solo uno dei tanti piccoli teatri dove va in scena una commedia già vista, già scritta, già giudicata.
E la colpa più grossa non è neppure imputabile agli studenti, che possono trovare una giustificazione nella giovane età, ma agli adulti, sia nelle vesti di genitori che in quelle di insegnanti: i primi, molte volte, hanno finito con lo scaricare sulla scuola compiti e responsabilità che erano innanzitutto di loro spettanza, i secondi hanno spesso usato il loro spazio come luogo non più di formazione, ma di pura conservazione di un sistema sindacalizzato e politicizzato, che poco o punto aveva a che fare con l'insegnamento e la trasmissione del sapere. Tutto ciò ha creato un corto circuito educativo che ha fatto saltare per aria i concetti di responsabilità, di rispetto, di merito - i cardini su cui da sempre si regge, oltre che la scuola, la stessa società umana. Il risultato non poteva che essere lo sfascio. Che ben si riassume, oggi, nelle immagini dei bambini usati da genitori e insegnanti come carne da propaganda contro il ministro e in quelle dei ragazzi delle superiori che protestano assieme ai professori contro ciò che neppure conoscono. Altro che '68! A Valle Giulia la luna è tramontata.
Gianteo Bordero
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