da Ragionpolitica.it del 30 gennaio 2010
Gira che ti rigira, alla fine il segretario del Partito Democratico ha deciso di riannodare i legami con l'Italia dei Valori in vista delle elezioni regionali del prossimo marzo. Una scelta per certi versi scontata, se si tiene conto del fatto che senza l'apporto del voto dipietrista il Pd rischia di capitolare in numerose Regioni nelle quali oggi è al governo e che i sondaggi più recenti danno in bilico tra centrosinistra e centrodestra. Così, dopo le liti dei mesi scorsi, dopo le ripetute prese di distanza di molti esponenti democratici dai toni e dai contenuti delle battaglie condotte dall'ex pm, improntate a un antiberlusconismo totale e dogmatico dal quale Bersani aveva annunciato di volersi affrancare, ecco che, come se nulla fosse accaduto, i leader dei due partiti si sono presentati insieme in conferenza stampa per annunciare un nuovo patto politico. Un accordo che - precisano - non riguarderà soltanto la prossima scadenza elettorale, ma anche il prosieguo della legislatura, in vista della creazione di una larga alleanza di centrosinistra capace di contendere al centrodestra la vittoria alle politiche del 2013.
Si tratta non soltanto di una sconfessione in piena regola della strategia annunciata a parole da Bersani nella fase pre-congressuale del Partito Democratico e finalizzata a dare vita ad un nuovo centro-sinistra fondato sull'asse tra Pd e Udc, con un'Italia dei Valori relegata al ruolo di gregario, ma anche di un ritorno al passato senza se e senza ma. In primis un ritorno all'alleanza stipulata da Veltroni con Di Pietro alla vigilia delle elezioni politiche del 2008, che ha avuto come conseguenza quella di regalare all'ex pm una corposa rappresentanza parlamentare e di consentirgli, con l'estrema sinistra rimasta fuori dal Palazzo, di autonominarsi, agli occhi dell'opinione pubblica, rappresentante unico della gauche massimalista. Ma è anche un ritorno de facto all'Unione prodiana, cioè - in sostanza - alla volontà di mettere insieme forze che hanno come solo denominatore comune l'avversione a Berlusconi. Idee, contenuti e proposte passano così in secondo piano, anzi divengono ininfluenti alla luce dell'unico punto programmatico capace di tenere uniti partiti tanto diversi tra loro: abbattere il Cavaliere Nero, costi quel che costi.
A soli quattro mesi dal suo insediamento alla segreteria del Pd, Bersani si trova dunque in un evidente stato confusionale: a parole dice di voler seguire una determinata direzione (quella del riformismo socialdemocratico e del confronto con la maggioranza sui grandi temi dell'agenda di governo) ma poi, nei fatti, sceglie di percorrere quella opposta (l'arroccamento nell'antiberlusconismo ideologico, chiuso ad ogni ipotesi di collaborazione istituzionale tra i due schieramenti). L'impressione è che il leader del Partito Democratico non sappia che pesci prendere e che, temendo una pesante sconfitta alle regionali, potenzialmente devastante per le sorti della sua segreteria, sia alla disperata ricerca di alleati con i quali mettere assieme i numeri necessari per rendere sopportabile e in qualche modo digeribile il risultato delle urne. L'elaborazione di una proposta politica seria e credibile, quindi, lascia nuovamente spazio alla mera aritmetica elettorale, cioè alla volontà di conquista del potere fine a se stessa. Come se non avesse insegnato nulla, ai dirigenti del Pd, l'esperienza degli ultimi sedici anni, a partire dalla bocciatura della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto nel 1994. I postcomunisti sembrano aver dimenticato persino gli insegnamenti del loro maestro di un tempo, quel Karl Marx il quale profeticamente affermò che «la storia si ripete sempre due volte: la prima volta in tragedia, la seconda in farsa». Dopo il fallimento dell'Unione prodiana, giunta al minimo storico dei consensi tra gli stessi elettori di sinistra a causa della sua insostenibilità e assurdità politica, il rischio è proprio quello descritto dall'autore del Capitale: arrivare alle comiche finali della sinistra in Italia.
Bersani, infatti, siglando un nuovo patto di reciproca fedeltà con un partito che in alcun modo, a causa del suo stesso Dna, può essere partecipe di un progetto di modernizzazione del paese, non si rende conto di sacrificare sull'altare della convenienza e del tornaconto immediato del partito quel poco di prospettiva riformista lasciata intravedere al momento della sua elezione a leader del Pd. Siamo alle solite: niente di nuovo sul fronte gauchista. Con l'aggravante che questa volta, considerato il progressivo stato di disgregazione interna del Partito Democratico (si pensi, ad esempio, all'addio di Rutelli, Lanzillotta, Dellai, Carra, Lusetti), i fili che il segretario ha riannodato con Di Pietro rischiano di trasformarsi nel cappio capace di soffocare definitivamente il già affannoso e stentato respiro del Pd. Perché l'ex pm, come un avvoltoio, è pronto a fare caccia grossa nell'elettorato orfano del «grande partito» che fu.
Gianteo Bordero
sabato 30 gennaio 2010
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento