giovedì 14 gennaio 2010

IL CORAGGIO CHE MANCA AL PD

da Ragionpolitica.it del 14 gennaio 2010

Le attuali difficoltà del Partito Democratico nella definizione delle alleanze e delle candidature per le prossime elezioni regionali sono lo specchio di una crisi più profonda, che rischia di spegnere sul nascere i buoni propositi espressi dal nuovo segretario Pier Luigi Bersani all'indomani della sua elezione e poi, più di recente, dopo l'aggressione subìta a Milano dal presidente del Consiglio. Se la carta vincente con cui l'ex ministro dello Sviluppo del governo Prodi aveva conquistato la guida del partito era stata la proposta di dotare il Pd di una chiara e distinta identità riformista, oggi questo punto centrale della mozione Bersani è messo in discussione da una serie di fattori che obbligano il segretario a navigare a vista e a rinunciare ad ogni coraggioso slancio in avanti.


Innanzitutto Bersani deve fare i conti con un'opposizione interna (rappresentata in larga parte dai seguaci di Veltroni e Franceschini) che sembra intenta più a perseguire la propria rivincita sul nuovo segretario che a costruire insieme a lui un partito in grado di contendere al Popolo della Libertà e al centrodestra il governo del paese. Prevalgono cioè, ancora una volta, i personalismi, i desideri di vendetta contro il leader di turno, i rancori e le mai sopite lotte intestine. Invece che collaborare - ancorché criticamente - con il segretario, si pensa soltanto al modo per indebolirne l'autorevolezza oggi e per metterne in discussione il ruolo domani, quando dalle urne delle elezioni regionali potrebbe uscire un quadro desolante per il Pd. Se non prenderà le adeguate contromisure mostrando un piglio decisionista e determinato con gli avversari interni, Bersani potrebbe ritrovarsi in men che si dica nelle condizioni dei suoi predecessori. E non sarebbe un bello spettacolo.


In secondo luogo, il segretario del Partito Democratico si trova a dover fronteggiare l'eterna questione dei rapporti con Antonio Di Pietro, che, come ha scritto Giampaolo Pansa su Libero del 13 gennaio, «non è un alleato, bensì l'amico del giaguaro, un cannibale politico con un unico programma: mangiarsi l'elettorato del Pd, boccone dopo boccone». Tant'è vero che, ogni volta che Bersani lascia trasparire dalle sue dichiarazioni la pur minima intenzione di volersi confrontare con la maggioranza sulle questioni di interesse generale del paese, ecco che l'ex pm parte alla carica accusando il Pd di intelligenza con il nemico, di berlusconismo, di complicità col Cavaliere Nero. Tutto ciò costringe il segretario a dare un colpo al cerchio del dialogo e un colpo alla botte dell'antiberlusconismo, col risultato di apparire indeciso e ondivago sul da farsi. L'alternativa sarebbe la rottura netta col leader dell'Idv, ma ciò, se da un lato contribuirebbe a una maggiore libertà d'azione per il Pd, dall'altro comprometterebbe il progetto bersaniano di dare vita ad una coalizione abbastanza larga da poter competere con il centrodestra.


Tutto ciò conduce alla terza considerazione, che riguarda la stessa definizione di partito «riformista». Nelle grandi democrazie occidentali, chi si definisce tale non perde occasione per dimostrarlo anche con i fatti. Il che comporta, per un partito d'opposizione, una continua disponibilità al confronto con chi le riforme le propone - cioè i governi -, e una capacità di proposta e di emendamento a partire da un programma chiaro riguardo ai problemi del paese. Nel caso del Pd, invece, l'impressione è che la disponibilità al confronto esista a giorni alterni e secondo l'opportunità tattica del momento, e che la capacità di formulare proposte alternative sia ancora di là da venire. La conseguenza è che il Partito Democratico - si pensi alle recenti dichiarazioni di Bersani contro le proposte di riforma su fisco e giustizia avanzate dalla maggioranza - appare come un altro dei tanti «partiti del no» che hanno caratterizzato la storia recente della sinistra italiana, conducendola in quello stato di marginalità politica che è oggi sotto gli occhi di tutti.


La verità, in conclusione, è che non esiste riformismo se ad esso non s'accompagna una buona dose di coraggio: coraggio di rompere con le abitudini consolidate, coraggio di lasciarsi alle spalle gli schemi del passato, coraggio di tagliare i ponti con chi si oppone alla modernizzazione di un partito, coraggio di assumere posizioni scomode all'interno del proprio schieramento. In una parola: coraggio di cambiare. Per il Pd e per Bersani questo significa chiudere definitivamente la stagione dell'antiberlusconismo, staccarsi dall'estremismo giustizialista di Di Pietro, concentrarsi sull'elaborazione di un programma credibile di governo, aprire in modo stabile al confronto con il centrodestra sulle riforme di sistema, saper dire dei «sì» quando ci si trova di fronte a provvedimenti utili ai cittadini. E' su questo terreno che si gioca il futuro del Partito Democratico e del suo attuale segretario. L'alternativa è la disgregazione finale di ciò che resta della sinistra in Italia.


Gianteo Bordero

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