da Ragionpolitica.it del 9 maggio 2008
Che cosa è, oggi, il Partito Democratico? Quale la sua identità politica? Quale la sua collocazione in ambito europeo? Domande capitali che non hanno trovato risposta in questi mesi, ma non più eludibili dopo la pesante sconfitta del 13 e 14 aprile. Se è vero che i tempi ristretti in vista della competizione elettorale non hanno consentito una adeguata riflessione sull'essenza del nuovo soggetto politico di centrosinistra, è altrettanto vero che tale vaghezza ha rappresentato un elemento penalizzante, a fronte della chiarezza identitaria e programmatica con cui il Popolo della Libertà e la Lega Nord si sono presentati agli italiani. Il Pd, agli occhi degli elettori, è sembrato oscillare continuamente tra la mimesi del linguaggio e delle proposte di governo berlusconiane e la continuità con l'esperienza dell'esecutivo prodiano, col risultato di apparire o troppo schiacciato sul centrodestra o troppo legato al passato.
E' mancato, in sostanza, un centro di gravità, un punto di equilibrio, che solo poteva essere garantito dalla previa definizione di una identità politica chiara e distinta, dalla dichiarazione di una collocazione inequivoca nel contesto dei partiti europei, dalla scelta di alleanze omogenee alle storie politiche che sono confluite nel Partito Democratico. Invece Veltroni e i suoi collaboratori si sono riparati sotto l'ombrello del «partito liquido», di un generico «melting pot» tra diverse culture politiche, per nascondere l'indeterminatezza identitaria; sono rimasti nel vago in merito alla scelta di aderire o meno al Partito Socialista europeo; hanno imbarcato alleati (Di Pietro e i Radicali) certamente non vicini alle posizioni programmatiche espresse dal candidato premier.
Per tutti questi motivi oggi una riflessione profonda su che cosa sia il Partito Democratico non può più essere procrastinata, e di certo la soluzione dei problemi non può essere semplicemente individuata nella mera rimozione della dirigenza che sin qui ha retto le sorti del partito. Invece i quotidiani degli ultimi giorni riportano le cronache dell'apertura di una lotta di potere che si sta consumando, ancora una volta, tra Walter Veltroni e il suo antagonista di sempre, Massimo D'Alema. Come se bastasse cambiare assetto dirigenziale per dare tout court un volto definito e comprensibile a un partito nato da poco e ancora in cerca d'autore. Scrive ad esempio Il Riformista di mercoledì: «L'impressione è che il dibattito nel Pd sia partito molto male. Al centro c'è - meglio non girarci intorno - uno scontro politico sul gruppo dirigente. Sulla sua qualità, tenuta, e rappresentatività democratica. C'è chi pensa che Veltroni non possa fare da solo, perché da solo non ce la fa; e c'è chi pensa che Veltroni debba fare da solo, perché gli altri sono tutti dei Borgia. Parlate di questo - conclude l'articolo - e, paradossalmente, l'ampiezza del contrasto si ridurrà. Parlate d'altro, e finirete invece davvero a cazzotti».
E' giusto che le tensioni vengano a galla - e in parte ciò sta già avvenendo, con D'Alema che riunisce i «suoi» parlamentari in un hotel romano per iniziare a dare forma alla sua corrente anti-veltroniana. Ma tutto questo non è sufficiente, almeno dal punto di vista più marcatamente politico, perché riesce oggettivamente difficile credere che la débacle del 13 e 14 aprile sia ascrivibile in toto (o in grande parte) alla strategia del segretario, così come è difficile pensare che il problema principale del Partito Democratico sia oggi quello della sua leadership. Non che Veltroni sia esente da colpe ed errori, ma caricare esclusivamente sulle sue spalle tutto il peso della sconfitta significherebbe non aver compreso i motivi ultimi per i quali il Pd non è riuscito a fare breccia nell'elettorato italiano. Motivi che, come dicevamo, riguardano innanzitutto la definizione politica del partito. Un partito che, a tutt'oggi, non è - come si suol dire - né carne né pesce, e rimane un semplice contenitore di post-comunisti, post-democristiani e ulivisti, senza che la sintesi sia stata raggiunta - e forse neppure veramente tentata.
Una riflessione senza sconti e senza tentennamenti sul «che cosa è il Partito Democratico», più che sul «che fare», sarebbe senz'altro un elemento utile non soltanto al centrosinistra, ma anche al quadro politico italiano nel suo complesso: alla semplificazione dello scenario parlamentare potrebbe così seguire anche quella semplificazione politica che avvicinerebbe sempre più il nostro paese alle grandi democrazie europee ed occidentali, dove a contendersi il governo sono un grande partito popolare e un grande partito socialdemocratico. Col Pd nel limbo, ad oggi questo quadro risulta ancora, di fatto, incompleto.
Gianteo Bordero
venerdì 9 maggio 2008
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