da Ragionpolitica.it del 3 aprile 2010
L'abbiamo ancora tutti negli occhi, quella mattina di cinque anni fa. Roma. Piazza San Pietro. Funerali di Giovanni Paolo II. Sulla bara del Pontefice polacco un Vangelo sfogliato da un vento impetuoso. Il vento che soffiava forte quel giorno. Nel Nuovo Testamento il vento è il simbolo dello Spirito, dello Spirito di Dio che si rende presente in mezzo agli uomini. Il vento della Pentecoste. Di quella «nuova Pentecoste» di cui Papa Wojtyla aveva più volte parlato per descrivere la fioritura dei movimenti ecclesiali dopo il Concilio Vaticano II e poi sotto il suo pontificato. Il vento, dunque. E il Vangelo. Lo Spirito di Dio e il Dio fattosi uomo in Gesù Cristo. Quasi una metafora del lungo cammino di Giovanni Paolo II alla guida della Chiesa.
Ventisette anni da Papa. Ventisette anni di profetica, coraggiosa ed entusiasmante testimonianza del mistero cristiano. Ventisette anni scanditi da quell'invito - quasi una supplica - rivolta agli uomini del suo tempo: «Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo». Lo aveva detto all'inizio del suo inatteso pontificato. Lo aveva detto, in quel tempo di ideologie mortali e soffocanti, di guerra fredda e di minacce di distruzione globale, a coloro che tenevano in mano le chiavi dei sistemi economici, dei regimi politici, della cultura: «Non abbiate paura! Cristo sa che cosa è dentro l'uomo. Solo lui lo sa!». Il comunismo sarebbe crollato solo dieci anni più tardi. E oggi nessuno, se non qualche miope nostalgico del tempo che fu, mette più in discussione il ruolo che in tale crollo ebbero le parole di quell'uomo venuto dall'Est - proprio da uno dei paesi schiacciati dal giogo comunista - per guidare la barca di Pietro. Ma quel messaggio - «Aprite le porte a Cristo» - aveva intanto fatto breccia nel cuore e nella mente di milioni di uomini in tutto il mondo, che in esso, e nella testimonianza incarnata che Karol Wojtyla ne dava, avevano sentito risuonare tutta la novità, la forza spirituale, la sempiterna freschezza delle parole di Gesù: «Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù».
In fondo, questo ha mostrato Giovanni Paolo II nel suo lungo pontificato: che dopo duemila anni è ancora possibile vivere fino in fondo l'esperienza cristiana, l'esperienza che di Cristo fecero i primi che gli andarono dietro. La pienezza dell'umanità realizzata nell'incontro con l'Eterno che entra nel tempo e proiettata nel giorno senza fine della Vita che non muore. Perché la Vita, nel mistero cristiano della passione, crocifissione e resurrezione di Gesù, ha sconfitto la Morte. «L'uomo non poteva - disse Papa Wojtyla al termine della Via Crucis del 2003 - immaginare questo mistero, questa realtà. La poteva rivelare Dio solo. L'uomo non ha la possibilità di donare la vita dopo la morte. La morte della morte. Nell'ordine umano, la morte è l'ultima parola. La parola che viene dopo, la parola della risurrezione, è parola solamente di Dio». E questa «parola» egli ha testimoniato fino in fondo, portando di fronte al mondo la croce della malattia e della sofferenza e mostrando come, nell'offerta e nell'abbandono totale al Padre, attraverso di esse è possibile partecipare ancora più profondamente all'esperienza di Cristo. Le immagini di Giovanni Paolo II che quasi si aggrappa alla croce nella sua ultima Via Crucis, quella del 2005, in questo senso parlano più di ogni analisi, di ogni commento, di ogni pur intelligente riflessione. Ancora una volta, ventisette anni di pontificato, quattordici encicliche, centinaia di esortazioni apostoliche, migliaia di discorsi parlano meno del silenzio del Papa sofferente e tremante che abbraccia la croce, quasi diventando un tutt'uno con essa. Siamo al cuore dell'esperienza cristiana.
Ma torniamo per un attimo a quella mattina di cinque anni fa, in Piazza San Pietro. Lì c'era anche il cardinale Ratzinger. L'uomo che Giovanni Paolo II aveva voluto per venticinque anni alla guida della Congregazione per la dottrina della fede. Il «braccio teologico» - se così lo possiamo chiamare - del pontificato wojtyliano. Ma anche l'«amico Ratzinger», come egli stesso ebbe a definirlo andando oltre la freddezza di certo linguaggio clericale. Fu lui che, in qualità di decano del Sacro Collegio, pronunciò l'omelia funebre. Non parole di circostanza, ma il vivo racconto - con «il cuore pieno di tristezza, ma anche di gioiosa speranza e di profonda gratitudine» - di una storia d'amore, sequela e fedeltà durata più di ottant'anni. La storia dell'uomo Karol Wojtyla e della sua risposta alla chiamata del Signore: «Seguimi!». Ma anche qui, le immagini restano nella memoria di più dei discorsi: e allora rivediamo con commozione quel braccio del cardinale sollevato verso il cielo al termine dell'omelia, quasi ad accompagnare non soltanto le parole della predica («Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice»), ma soprattutto l'ultimo, grande viaggio di Giovanni Paolo II. Il viaggio più importante. Oggi l'«amico Ratzinger» siede sul soglio che fu di Wojtyla, e come lui porta con coraggio il peso della guida della Chiesa in anni difficili, pieni di insidie e tempestosi per la barca di Pietro. E allora, alla fine, restano di fronte agli occhi queste due figure di grandi cristiani, due amici in Cristo che la Provvidenza ha messo vicini per tracciare con certezza la rotta della fede tra i marosi del nostro tempo. E così la storia continua...
Gianteo Bordero
sabato 3 aprile 2010
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