sabato 10 gennaio 2009

LA FINE DI UNA STAGIONE

da Ragionpolitica.it del 10 gennaio 2009

Le vicende che ruotano attorno alla giunta napoletana di Rosa Russo Iervolino non sono soltanto l'ennesima conferma della crisi in cui versa il Partito Democratico, ma anche - e forse soprattutto - il sintomo della definitiva consunzione di una fase politica iniziata quindici anni fa: la cosiddetta «stagione dei sindaci». Che ciò accada nella città partenopea non è casuale: il mito dei sindaci finisce laddove era iniziato, con l'elezione a primo cittadino di Antonio Bassolino, nel 1993. Fu infatti nella tornata amministrativa dell'autunno di quell'anno che trovò applicazione, per la prima volta, la nuova legge per l'elezione diretta dei sindaci, varata soltanto pochi mesi prima. Tale legge rivoluzionò il sistema di equilibrio dei poteri negli enti comunali, toccando due punti fondamentali: in primo luogo, al sindaco veniva assegnato il potere di nomina e di revoca diretta degli assessori senza «passare» attraverso il voto del Consiglio comunale; in secondo luogo, la nuova normativa prevedeva un robusto premio di maggioranza consiliare a favore del sindaco vincente. Come si vede, un sistema che fino ad allora aveva avuto come perno i partiti e le loro segreterie politiche venne di colpo ridisegnato, in ossequio al nuovo dogma del sistema maggioritario, attorno alla figura del primo cittadino in quanto tale.

I sindaci si trovarono all'improvviso tra le mani un potere e un'autorità prima sconosciuti, divennero i decisori unici e ultimi della vita amministrativa dei Comuni, con tutto ciò che questo avrebbe potuto comportare, nel bene (la governabilità) e nel male (l'eccessiva concentrazione del potere nelle mani di uno solo). Nell'ottobre del '93, i sindaci che salirono alla ribalta nazionale furono, tra gli altri: il già citato Antonio Bassolino a Napoli, Francesco Rutelli a Roma, Leoluca Orlando a Palermo, Massimo Cacciari a Venezia, Riccardo Illy a Trieste, Enzo Bianco a Catania, Adriano Sansa a Genova, solo per citare i più importanti. Nell'immaginario collettivo di un'Italia che usciva a pezzi da Mani Pulite, con una perdita pressoché totale di fiducia nella politica, i sindaci divennero il simbolo di un nuovo corso, le figure carismatiche che rimediavano al malgoverno prodotto da partiti corrotti e inaffidabili.

Nessuno che vedesse, allora, nell'ubriacatura generale del post Tangentopoli, che slegare il livello amministrativo da quello politico avrebbe potuto riprodurre, in scala ancora maggiore, gli stessi guasti che si volevano combattere e archiviare. L'errore, in quella fase, non fu tanto il dare rilievo al buon amministrare del sindaco contrapposto alle furberie e all'inconcludenza dei partiti, quanto credere che ciò potesse bastare per porre rimedio alla crisi generale della politica dei primi anni Novanta. Pensare che cancellare la politica come visione generale di governo e mettere al bando i partiti in quanto tali significasse per ciò stesso eliminare dalla scena anche le peggiori pratiche della tanto detestata prima Repubblica, fu un grossolano errore di valutazione, le cui conseguenze sono oggi sotto gli occhi di tutti.

A spingere astutamente l'opinione pubblica verso l'accettazione di questa vulgata fu soprattutto la sinistra, in particolare il Pds, alla ricerca di una nuova identità e di una nuova verginità politica dopo la fine del Pci. In assenza di idee-guida su cui fondare una proposta alta e altra da quella del passato, il «territorio» e il controllo di esso diventarono lo scopo ultimo della strategia del partito sopravvissuto, assieme alla sinistra democristiana, all'ondata di Tangentopoli. Non che prima il territorio fosse un fattore ininfluente, anzi. Ma, a partire dal ‘93, slegato da qualsiasi politica nazionale organica e di ampio respiro, esso finì col produrre due fenomeni che oggi tutti criticano, compresi coloro che, quindici anni fa, furono i primi a tessere acriticamente le lodi per l'inizio della gloriosa «stagione dei sindaci»: il diffondersi di «mine politiche vaganti», rappresentate dai primi cittadini più in vista e desiderosi di costruirsi in quanto tali una posizione ben oltre i confini del proprio Comune, e, soprattutto, lo svilupparsi di clientele locali ramificate in ogni settore dell'amministrazione, dalla gestione degli appalti pubblici a quella dei servizi, con pratiche non certo virtuose e per nulla improntate al criterio del «ben amministrare».

Quello a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, con diverse giunte comunali guidate dalla sinistra finite nel mirino della magistratura (Napoli, Firenze, Pescara) costituisce quindi il canto del cigno di un sistema che per tre lustri ha potuto crescere pressoché indisturbato, godendo di ottima stampa e di una pubblicistica che ne ha mitizzato i protagonisti, presentati come i nuovi messia della politica italiana, come coloro che avrebbero raddrizzato le sorti della Repubblica in forza delle loro sindacature virtuose. Basti pensare, tra gli altri, a Francesco Rutelli e al suo successore sul Campidoglio, Walter Veltroni. Oggi il mito crolla, le statue degli eroi vanno in frantumi e al posto della gloria di un tempo ci sono le inchieste delle procure, gli scandali, i trucchetti per restare in sella qualche mese in più, nella sfiducia generale dei cittadini. E il Pd, che è stato il primo beneficiario della «stagione dei sindaci», è oggi, inevitabilmente, il partito che paga in maniera più pesante le conseguenze della sua fine. Come ha detto Emanuele Macaluso al Messaggero di giovedì: «Il Partito Democratico è nato mettendo insieme una enorme macchina di potere locale, una serie di potentati locali, di apparati costruiti con l'obiettivo di rinsaldare e perpetuare il potere ottenuto». Il risultato? «Il degrado morale e più ancora politico». Col serio rischio di scomparire per sempre dalla scena, non soltanto a Napoli.

Gianteo Bordero

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