da Ragionpolitica.it del 12 giugno 2008
Primi giorni del 2005. Il Partito Democratico è ancora di là da venire e le cronache politiche concentrano le loro attenzioni sulla Gad e sulla Fed, la Grande Alleanza Democratica (formata da Ds, Dl, Sdi e Repubblicani Europei) e la Federazione (forma embrionale di quella che sarà poi l'Unione). Dal 14 al 16 di gennaio Ermete Realacci organizza un convegno a Fiesole, a cui sono invitati tutti i rappresentanti della corrente rutelliana della Margherita. Ed è proprio l'allora segretario diellino, Francesco Rutelli, a pronunciare un intervento destinato a suscitare scalpore, soprattutto tra i futuri compagni di cammino diessini. Rutelli, a un certo punto del suo discorso, dà inizio ad una sorta di gioco della torre, in cui elenca le parole che il futuro soggetto unitario avrebbe dovuto gettare nel dimenticatoio. Tra queste parole, il segretario della Margherita inserisce anche la «socialdemocrazia». Essa, secondo Rutelli, «non è più uno strumento per una sinistra moderna».
Sono passati tre anni e mezzo da allora, e di acqua sotto i ponti, come si suol dire, ne è passata tanta: la creazione della lista unica dell'Ulivo, la nascita dell'Unione, la vittoria elettorale del 2006, il battesimo del Partito Democratico e l'elezione di Veltroni a segretario, la caduta del governo Prodi, la sconfitta del 13 e 14 aprile 2008 - e, per Rutelli, la débacle alle comunali di Roma. Eppure le parole pronunciate allora dal segretario della Margherita ritornano nel dibattito politico di questi giorni, che vede il Pd impegnato non soltanto a definire la sua strategia di opposizione, ma anche a cercare la quadra sulla spinosa questione della collocazione del partito all'europarlamento, anche in vista delle elezioni europee del prossimo anno.
Il 9 giugno La Repubblica dà conto di un «piano» di Massimo D'Alema per tamponare i crescenti malumori, nel Partito Democratico, riguardo alla «questione europea»: «Il Pd - scrive Goffredo De Marchis - rinuncerebbe per il momento a entrare nel Partito Socialista europeo in attesa di un'autoriforma, un allargamento oltre i confini del socialismo del Pse sollecitata non solo dagli italiani ma anche da altri paesi (britannici in testa). Gli eurodeputati del Pd eletti nel 2009 andrebbero però nel gruppo socialista al parlamento europeo come pattuglia autonoma ma federata, grazie anche a una modifica dello statuto che consentirà l'adesione di "partiti amici". È un compromesso articolato, all'italiana, ma al momento è l'unico in campo per salvare la faccia».
Il giorno successivo è Walter Veltroni a rivendicare la paternità del «piano», ma intanto scoppia la polemica da parte degli ex margheritini, i quali affermano che non se ne parla proprio di accettare una soluzione simile. Francesco Rutelli, intervistato dal Corriere della Sera, dice che è «impensabile» la confluenza «in una delle famiglie politiche del XX secolo» e propone «un'alleanza di centrosinistra in Europa. Il Pd è lo snodo che può aiutare a far nascere un'alleanza europea ed europeista di centrosinistra». Ma il capogruppo del Pse a Strasburgo, Martin Schulz, sbarra subito la strada all'idea dell'ex ministro dei Beni Culturali e dichiara, al Mattino dell'11 giugno, che «il problema non è della nostra famiglia, ma di chi viene nella nostra famiglia: è il Pd che deve decidere dove ancorarsi senza preconcetti... Porte aperte ai cattolici, ma restiamo socialisti». L'empasse, rebus sic stantibus, è inevitabile. E la soluzione quanto mai complicata. A questo punto, l'obiettivo minimo di salvare l'unità del partito diventa di colpo la parola d'ordine dalle parti del loft, che deve affrontare anche la grana della «questione cattolica», con le voci, rilanciate da Famiglia Cristiana, di possibili fuoriuscite da parte degli esponenti teodem - peraltro smentite dai diretti interessati.
Il quadro, come si vede, non è certo dei più rosei - a voler usare un eufemismo. I nodi insoluti negli ultimi mesi e negli ultimi anni, durante il processo che ha portato alla nascita del Partito Democratico, tornano in primo piano in tutta la loro portata. Sostanzialmente, come ha scritto sul Corriere della Sera di ieri Ernesto Galli Della Loggia, il «vero pericolo» per il futuro del Pd viene dai «vecchi apparati» e dalla prevalenza delle loro logiche di potere rispetto al processo di innovazione che a parole si dice di voler perseguire. Della Loggia punta il dito soprattutto contro gli ex Ds, ma il discorso può benissimo allargarsi anche agli ex Margherita, divisi a loro volta in numerose correnti (rutelliani, popolari, prodiani).
Tutto ciò significa, con tutta evidenza, che il Partito Democratico, lungi dal possedere una identità chiara e distinta, definita come tale, si presenta ancora oggi come un coacervo di storie politiche diverse tra loro, che faticano ad integrarsi attorno ad un progetto nuovo e condiviso. Il dramma non è tanto quello rappresentato dall'esistenza delle correnti, quanto la mancanza di una prospettiva comune, come documentato proprio dalla vicenda della collocazione europea del partito. E' come se ognuno dei protagonisti tessesse la sua tela politica in solitaria, con il risultato complessivo di una veste d'Arlecchino tanto variegata nei colori quanto disomogenea nel disegno finale. Al punto che Il Riformista parla di una «balcanizzazione» del Pd che potrebbe essere letale a un partito ancora infante e già malaticcio dopo aver mosso i primi passi.
Gianteo Bordero
venerdì 13 giugno 2008
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