lunedì 21 giugno 2010

IL CASO SEPE. TRASPARENZA NEL RISPETTO DEL CONCORDATO

da Ragionpolitica.it del 21 giugno 2010

Trasparenza e collaborazione con le autorità giudiziarie. Queste parole d'ordine di Benedetto XVI di fronte alla vicenda dei preti accusati di pedofilia valgono anche, mutatis mutandis, per altri casi che vedono implicati membri della Chiesa cattolica in inchieste della magistratura. Come, da ultimo, quella sulla cosiddetta «cricca» dei Grandi Eventi, nella quale risulta indagato per concorso in corruzione aggravata il cardinale Crescenzio Sepe, oggi arcivescovo di Napoli e dal 2001 al 2006 prefetto della Congregazione di Propaganda Fide, l'importante organismo della Santa Sede che si occupa del sostegno all'attività missionaria della Chiesa. E' proprio sul ruolo di Sepe al tempo del suo incarico alla guida della Congregazione che si concentra l'attenzione dei pubblici ministeri, secondo i quali il porporato avrebbe gestito in modo illecito il consistente patrimonio immobiliare di Propaganda Fide per ottenere favori da pubblici ufficiali oggi al centro dell'inchiesta della Procura di Perugia. Come Angelo Balducci, all'epoca provveditore alle Opere Pubbliche del Lazio, nonché Gentiluomo di Sua Santità e consultore della stessa Congregazione.


In una lettera inviata ai fedeli della sua diocesi, dopo aver illustrato gli addebiti che gli vengono mossi dalla magistratura, il cardinale ha affermato di aver sempre agito «nella massima trasparenza», «secondo coscienza» e «avendo come unico obiettivo il bene della Chiesa». Si è detto «sereno nella prova», concludendo però la sua missiva con un accenno che non potrà non suscitare altre polemiche: «Accetto la Croce e perdono, dal profondo del cuore, quanti, dentro e fuori la Chiesa, hanno voluto colpirmi». Il probabile riferimento, per ciò che concerne l'intra Ecclesiam, è a tutti coloro che, in questi giorni, non hanno mancato di ricordare la scelta con cui Ratzinger, nel 2006, da poco eletto Papa, «rimosse» Sepe da Propaganda Fide dopo soli cinque anni di prefettura - un caso più unico che raro per quanto riguarda questa Congregazione - e lo destinò alla guida della diocesi di Napoli, chiamando a sostituirlo il cardinale indiano Ivan Dias. Già allora questa decisione di Benedetto XVI suscitò un certo clamore: l'assegnazione ad una diocesi - ancorché importante come quella partenopea - dopo la guida di un dicastero di prim'ordine come quello delle Missioni non poteva certo essere considerata come una promozione. Tanto più che nel corso del Giubileo del 2000 l'allora cardinale Ratzinger aveva manifestato le sue perplessità per l'attivismo del Comitato organizzatore e aveva annoverato se stesso «tra quelle persone che hanno difficoltà a trovarsi in una struttura celebrativa permanente». E chi era alla guida del Comitato? Guarda caso proprio da Sepe. Coincidenze? Forse, ma a più di uno questo episodio tornò alla mente quando, divenuto Papa, Ratzinger chiamò Dias a Roma e inviò Sepe a Napoli.


In attesa degli sviluppi dell'inchiesta perugina, è importante sottolineare che la scelta della trasparenza e della collaborazione da parte della Santa Sede, ribadita anche in questi giorni, non significa sorvolare sulle norme che regolano i rapporti tra il Vaticano e l'Italia, cioè tra due Stati sovrani le cui relazioni sono disciplinate da un Concordato. Come ha ricordato il responsabile della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, in questa vicenda «bisognerà tenere conto anche degli aspetti procedurali e dei profili giurisdizionali impliciti nei corretti rapporti tra Santa Sede e Italia». In sostanza, i magistrati non potranno trascurare, ad esempio, l'articolo 4 del Concordato. Esso prevede, al comma 4, che «gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero». E' chiaro che se il Vaticano si muove con grande senso di responsabilità e invita il cardinal Sepe alla massima disponibilità nei confronti dei magistrati, eguale atteggiamento dovrebbe caratterizzare l'operato dei pubblici ministeri. Anche perché lo stesso Codice di Procedura Penale italiano, all'articolo 200, comma 1, stabilisce che «i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano, non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria».


In forza di tutto ciò, sarebbe auspicabile, da parte dei pm, uno stile sobrio e altrettanto responsabile, evitando di dare la stura a inutili spettacolarizzazioni o a gogne mediatiche contro l'indagato di turno. Se l'interesse supremo della Chiesa, nel caso in oggetto, è tutelare e difendere il prestigio e il buon nome del suo dicastero che si occupa di una realtà decisiva come le missioni, quello dei magistrati dovrebbe essere quello di mostrare una rinnovata sobrietà e misura in un sistema giudiziario che spesso, troppo spesso, all'accertamento puntuale e circostanziato delle accuse ha preferito il clamore di inchieste sui «grandi nomi» tante volte terminate in «grandi flop».

Gianteo Bordero

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