da Ragionpolitica.it del 16 giugno 2010
Venerdì la conclusione dell'anno sacerdotale indetto da Benedetto XVI, lunedì i funerali di monsignor Luigi Padovese, martire della fede nella difficile realtà turca. La figura del prete cattolico ritorna così al centro del dibattito ecclesiale e non solo. Certamente anche a motivo dello scandalo pedofilia che da qualche mese ha investito una parte - ancorché molto ridotta - del clero, e che è stato usato da molti non soltanto per una campagna in grande stile contro la Chiesa, ma anche per tornare a chiedere con insistenza l'abolizione del celibato sacerdotale. Come se questo fosse la causa delle violenze sui minori da parte dei preti.
Sacerdozio e celibato, invece, nella dottrina cattolica, fanno parte di un unico dinamismo di fede: entrambi rappresentano carnalmente quella dimensione dell'offerta totale di sé che caratterizza nel profondo il fatto cristiano. Innanzitutto l'offerta di Cristo, il suo donarsi fino in fondo agli uomini con la sua passione e morte, con il suo sacrificio che si replica misteriosamente ma realmente durante la celebrazione di ogni messa attraverso l'atto di consacrazione del sacerdote: qui, come ha detto il Papa durante la veglia di preghiera dello scorso giovedì in Piazza San Pietro, di fronte a diverse migliaia di preti, «parliamo in persona Christi. Cristo ci permette di usare il suo "io", parliamo nell'"io" di Cristo, Cristo ci "tira in sé" e ci permette di unirci, ci unisce con il suo "io". E così, tramite questa azione, questo fatto che Egli ci "tira" in se stesso, in modo che il nostro "io" diventa unito al suo, realizza la permanenza, l'unicità del suo Sacerdozio; così Lui è realmente sempre l'unico Sacerdote, e tuttavia molto presente nel mondo, perché "tira" noi in se stesso e così rende presente la sua missione sacerdotale». Essere prete, quindi, è innanzitutto una novità ontologica, un avvenimento spirituale che testimonia in massimo grado quell'unione mistica tra l'uomo e Dio che Gesù ha reso possibile. Non è un mestiere, non è una professione, non è semplicemente una funzione ecclesiale: è un essere nuovo, la risposta a una chiamata elettiva di Dio che si realizza nel sacramento dell'Ordine.
E qui, in questa dimensione sacramentale del sacerdozio cattolico, trova il suo fondamento anche la questione del celibato. Perché nella consacrazione dell'eucaristia il prete non soltanto è «tirato dentro» alla passione e alla morte di Cristo, ma è anche «tirato fuori» verso «il mondo della resurrezione», ha detto Benedetto XVI. Dunque, il fatto che egli divenga in qualche modo un tutt'uno con la persona di Gesù e quindi entri in quello spazio di donazione totale al Padre nella stessa forma virginale vissuta dal Nazareno, rende la sua condizione di celibe anche una «anticipazione» della risurrezione. E' la natura profetica del sacerdozio di cui ormai poco si parla, se non in un senso del tutto improprio, cioè quello della «previsione» del futuro in forza di chissà quale capacità nell'arte divinatoria. Invece la questione è, sotto un certo aspetto, più semplice, ma non per questo banale. Non si tratta di una dote che l'uomo si dà da sé, bensì di un'azione della grazia di Dio che, attraverso la chiamata al celibato, rende visibile tra gli uomini un segno che proietta «questo presente verso il vero presente del futuro, che diventa presente oggi». Cioè Dio, futuro verso cui tutto tende, si fa presente agli uomini, spalancando loro proprio le porte del futuro. Della risurrezione.
Questo è il senso, la ragione ultima del celibato. Che oggi va riscoperto, non messo da parte come un residuo del passato della Chiesa insopportabile per l'uomo contemporaneo. Perché - ha spiegato il Papa - «un grande problema della cristianità del mondo di oggi è che non si pensa più al futuro di Dio: sembra sufficiente solo il presente di questo mondo. Vogliamo avere solo questo mondo, vivere solo in questo mondo. Così chiudiamo le porte alla vera grandezza della nostra esistenza. Il senso del celibato come anticipazione del futuro è proprio aprire queste porte, rendere più grande il mondo, mostrare la realtà del futuro che va vissuto da noi già come presente». E' questa dimensione escatologica che fa del celibato un'anticipazione visibile della misteriosa pienezza del rapporto tra l'uomo e Dio che si realizza definitivamente nel Paradiso. Siamo dunque nel campo di quei «novissimi» della tradizione cristiana che oggi possono risultare ostici per chi è abituato a vedere il prete come un «organizzatore pastorale» o un «operatore sociale», seppur sui generis. E forse è proprio il fatto che certe verità non siano state più respirate dal popolo credente, accantonate in nome di una riduzione sociologica del cristianesimo, ad aver così indebolito gli anticorpi di fronte agli assalti - esterni ed interni - contro il celibato.
Per tutti questi motivi Benedetto XVI ha mostrato come sia necessario da un lato recuperare la coscienza della grandezza del sacerdozio cattolico, dall'altro essere consapevoli del fatto che gli attacchi contro di esso - e contro il celibato - sono non di rado attacchi contro la sua stessa natura. Che è quella di rendere presente Dio nel mondo, tra le cose degli uomini: è - ha concluso il Papa - «un "sì" definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo "io"» crocifisso, morto e risorto. Questo rende possibile quell'eroismo ordinario, spesso silenzioso e nascosto, del prete. E che diventa straordinario motivo di scandalo per coloro che, come l'assassino di monsignor Padovese, vedono nella testimonianza dei cristiani e dei loro sacerdoti una minaccia disarmata e disarmante ai criteri orizzontali di potere, mondani e religiosi.
Gianteo Bordero
mercoledì 16 giugno 2010
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento