da Ragionpolitica.it del 21 maggio 2010
La prima, drammatica scena del film La passione di Cristo di Mel Gibson mostra Gesù che, nell'orto degli ulivi, «sapendo che era giunta la sua ora», implora dal Padre la forza per accettare ciò che di lì a poco gli sarebbe accaduto: la cattura, il processo, la tortura, la condanna, la crocifissione, infine la morte. Anche qui, come già era avvenuto all'inizio della missione pubblica del Nazareno, nei quaranta giorni di preghiera e digiuno nel deserto, compare il Tentatore, Satana. Il quale si rivolge così al Figlio di Dio: «Credi veramente che un uomo possa portare tutto il peso del peccato?». E ancora: «Nessun uomo può portare questo peso, credimi. Salvare le loro anime è troppo faticoso».
E', questo, lo snodo fondamentale della vicenda di Cristo: Gesù sapeva a che cosa sarebbe andato incontro, sapeva che così avrebbe dovuto compiersi la sua missione tra gli uomini, e se, tra mille tormenti e sofferenze interiori, in un primo momento chiede al Padre: «Se è possibile, allontana da me questo calice», subito dopo dice: «Ma sia fatta la tua volontà». E così il Serpente è schiacciato, se ne va sconfitto per ricomparire poi ai piedi della croce del Nazareno per sottoporgli l'ultima, gigantesca tentazione: scendere da quel legno per salvare se stesso, rinunciando all'opera per cui era stato mandato: redimere col suo sangue l'umanità, prendendo su di sé il carico di tutto il male del mondo. Il «sì» totale di Cristo alla volontà del Padre, la sua passione, la sua morte, la sua discesa agli inferi, la sua resurrezione, sono davvero la vittoria di Dio sul Male, come ricorda la bellissima sequenza che la liturgia cristiana intona nel giorno di Pasqua: «Victimae paschali laudes immolent christiani. Agnus redemit oves: Christus innocens Patri reconciliavit peccatores. Mors et Vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus».
«Il Signore della vita era morto, ora regna vivo». La missione della Chiesa nella storia è annunciare e testimoniare questo avvenimento, questa possibilità di salvezza, custodendo fedelmente qualcosa che non si è data da sola, ma che ha ricevuto in dono: il Sacramento che Gesù le ha affidato per farsi conoscere e incontrare dagli uomini, la Verità fatta carne, la Presenza reale dell'Eterno nel tempo. La Chiesa, in questo senso, non è «padrona» di ciò che essa propone agli uomini, non ne può disporre a piacimento a seconda delle epoche, delle culture e delle mode, non può annacquare il vino del Vangelo con l'acqua del compromesso con la mentalità dominante nel mondo. Perché, qualora ciò accadesse, semplicemente non proporrebbe più Gesù Cristo, ma una sua teoria su di Lui, una sua dottrina, un suo sistema di leggi morali. Questo aspetto è stato evidente anche nei periodi in cui la Chiesa sembrava più compromessa con il «secolo», ed è documentato dal fatto che anche Papi moralmente corrotti e avidi di potere, come ad esempio quelli del IX secolo, mai hanno messo in discussione il «depositum fidei» consegnatogli da Gesù.
Questo è un passaggio decisivo anche per comprendere perché il ritorno sulla scena del dibattito ecclesiale della cosiddetta «agenda progressista», che nelle ultime settimane ha trovato ampio risalto sul Foglio di Giuliano Ferrara, rischia di distogliere l'attenzione dall'unico, vero tema che in ogni tempo, e soprattutto in quelli difficili come l'attuale, è dirimente per la Chiesa cattolica: il tema della fedeltà a Cristo e al compito che Egli le ha assegnato. Tanto più che l'«agenda progressista» sembra andare nella direzione opposta a quella che la Chiesa ha sempre seguito nei momenti di fatica e di tempesta. Chiedere che la riforma avvenga a livello di strutture, di dottrina morale e di diritto canonico («riforma dell'organizzazione del potere della curia romana in chiave collegiale. Rivedere l'obbligo del celibato per il clero. Più considerazione per le coppie omosessuali stabili. Rivisitare la dottrina sui divorziati risposati», come riassume il vaticanista del Foglio, Paolo Rodari) significa dimenticare che, senza un rinnovamento innanzitutto spirituale, senza una profonda riscoperta interiore delle «cose antiche e sempre nuove» - cioè del cuore della fede e dell'annuncio cristiano - e del fatto che queste sono rivelate da Dio e non escogitate dall'uomo, il rischio è quello di ottenere gli effetti opposti a quelli sperati.
Attualizzato e detto in altri termini: pensando di risolvere la drammatica piaga dei «preti pedofili» abolendo l'obbligo del celibato ecclesiastico; ritenendo di poter avvicinare l'uomo contemporaneo alla Chiesa ammettendo al Sacramento i divorziati risposati; credendo che la «monarchia» papale debba essere superata con una più moderna e democratica «collegialità», i progressisti mostrano di non saper cogliere il nocciolo delle questioni, di non capire che la risposta ai problemi della barca di Pietro non può venire - non è mai venuta - dal cedimento alla mentalità e alle lusinghe del mondo, ma soltanto da un maggiore radicamento in quella Verità di cui la Chiesa è depositaria. Per cui, ad esempio, non sarebbe più utile riscoprire il senso profondo ed evangelico del celibato sacerdotale invece che indebolirlo? Non sarebbe più caritatevole una robusta pastorale pre-matrimoniale che aiutasse ad avere chiaro il valore, la sacralità e il fine delle nozze cristiane, invece che prendere atto ex post che tante unioni erano fragili e inconsistenti fin da principio? Non sarebbe più saggio riconoscere che la «monarchia» papale è ciò che ha mantenuto solido il rapporto tra Chiesa e popolo di Dio, anche negli ultimi quarant'anni, mentre molti episcopati nazionali sembravano intenti a costruirsi ciascuno la propria dottrina e il proprio credo, offuscando così il senso della cattolicità?
Diciamolo chiaro: su questi temi i progressisti piangono sul latte versato. Perché se oggi c'è una crisi dell'essere preti, una debolezza del matrimonio e uno svuotamento di tante chiese, è proprio perché certa teologia postconciliare - la loro - ha fatto credere che scendendo a compromessi col pensiero dominante e con i princìpi della modernità sarebbe nata, per la Chiesa, una giornata di sole. E invece, come ebbe a dire Papa Paolo VI, è «venuta una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza». Perché «da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». E il fumo di Satana è lo stesso dell'orto degli ulivi: è la tentazione di rinunciare alla propria missione perché ritenuta troppo gravosa, scomoda e in contrasto col mondo. «Salvare le loro anime è troppo faticoso». Grazie al cielo un grande Papa come Benedetto XVI non si è tirato indietro di fronte alle prove che attendono la Chiesa e che oggi ne segnano il cammino.
Gianteo Bordero
venerdì 21 maggio 2010
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